Un Celice d’oro, un delirio Vasto.


Una setta si compiace del pallone d’oro attanagliandosi le dita tra un’incudine e un martello. Un roditore s’infila in affari che non sono suoi e perde la coda in un tentativo maldestro di pregare un castoro crocifisso tra due denti affilati. È una corsa all’oro quella che si siede trafelata tra una folla urlante e una musica trance assordante e metallica. Vibrano i timpani di periferia. Saltano le corde elettriche di un subacqueo in immersione tra stuzzicadenti impalpabili e gamberetti che sanno di polipo azzurro. È così che finisce la storia. Con due anzi tre, anzi quattro gatti delle nevi che si accoppiano tra di loro in un intercorso che suona una chitarra da flamenco che si origina in un’ascella pelosa mai lavata.
Pelli di platano scendono soffici sulla mia pelle e grattano via il sudore di un amore mai consumato. Sulla mia pelle molle si cicatrizza un mal di stomaco che balla il tango su un collo di volpe che mi serve per lavarmi i denti la sera del dì di festa.
Odi Odino il calore dell’uomo che cova salsicce nel buio di un porcile. Scende il liquido marrone da un cielo grigio. E cola lungo le scarpe rattoppate di un papero zoppo.

Il sacco di Roma


Un cowboy con una pistola di fango si avvicina lentamente e mi guarda con occhi di fuoco e armatura di ghiaccio. Si avvicina e mi attraversa come un fantasma e mi gela le ossa di pesce come una tuta di sapone che ripulisce le mie lische.

Mi vedo e mi appoggio nella salita di una rampa di scale verso il paradiso in orbita sopra lo spazio. Siamo in tanti a salire e non ci fermiamo mai. Finché capiamo che il paradiso sta nell’illusione e non nella realtà.

Suore pregano con occhi bendati. Un’aria che libra con voci sensuali che sanno di tacchino al limone. Un coro di cuori strizzati in salsa di lingue d’oca. Un coro gregoriano che come bambini nevicano nella mala sorte di un pugno di fortuna che non esiste alla sorgente divina.

Parole fosforescenti si librano in cielo. Parole di polistirolo espanso nevicano e formano acqua azzurra che beviamo in un rumore assordante che viene dalla città incendiata da Nerone.

Imperatore solitario che canta la lira sulla sua rovina. Desdemona in fiore che credi che il cercatore sempre trovi prima o poi. E canta sulle rovine del tempio. Canta la rovina di un augusto personaggio in cima ad un impero.

Parole saporite che si gustano in un gelato espanso nella sostanza di un i-pad. Veloci e ballerine danzano in una voce che sa di tenebra fumosa a ghiacciata. Ricordo gli occhi di ghiaccio del cowboy. Ricordo che era un fantasma. Ricordo che ero io che attraversavo lo specchio della realtà e della pazzia.

Vola lirico pazzo. Vola in un ricordo di un’autostrada che sfreccia e non lascia memorie nell’ombra della tua anima.

Vola senza guardare giù e lasciati dimenticare da un’intera generazione di anime che traspirano il sudore della morte. Un sudore che sa di pane bruciato.

Metallo ghiaccio


In una campana di metallo rimbomba il suono di un balbuziente opaco. Non si vede bene quando gira per la strada, come se fosse fatto di materia nebulosa, difficile da mettere a fuoco anche a poca distanza. In genere dopo un po’ anche gli altri cominciano a tartagliare ma non se ne accorgono. È come un virus e come un virus contagia chi ha meno anticorpi. Altri diventano nebulosi come lui.

Un delirio al giorno mette il medico nel forno e scivola lentamente sotto il mento come una goccia di bava dalle labbra di un lupo affamato in cerca di sesso.

Una notte spettrale e fredda in cui si vede non solo il vapore dell’alito ma anche quello del sudore in un bosco di palazzi decapitati.

Si aggira felpato e annusa le feci e le urine e segue quelle  più calde.

Un sonno eterno s’installa nel corso del fiume di parole che scendono all’inferno gelido. Lupi s’incrociano e lame si affilano e scintillano come specchi sorridendo alla luce della luna. Uomini topo si aggirano tra lupi e ringhiano. Topi a forma di uomo mangiano chewingum e fanno bolle di sapone con l’ano.

Una fame fredda attanaglia lo stomaco degli ultimi sopravvissuti che sanno già che dovranno cibarsi gli uni degli altri sono per essere gli ultimi a soccombere