Il gallo canta due volte (e poi rutta)


Mi rachitizzo in una rucola acida di saltimbanchi col palinsesto fuso da orecchioni vampireschi e corna fritte.
Antonia si sforuncola un abito da notte di lino pregiato e condisce la pasta di vermi froci in zuppa di lenticchie lesbiche che sognano di essere un cane pieno di pulci che si masturba davanti a uno specchio deformante. In un’orgia di pleniluni Antonia sfoggia la conturbante pelosa alla festa della civiltà che si tiene due volte l’anno alla faccia della crisi dove il vello d’oro celebra la propria sensualità davanti a una folla affamata.
Urla di avvoltoi piangono gli sfarzi dei tempi andati e rivolgono alla Madonna la preghiera di una dolce gabbana che si satolla la vagina del fuoco dell’inferno e bacia pudicamente la bocca di una vergine sifilitica.
Bravi. Complimenti vivissimi al coro di pavoni sconsiderati e allegri che raccolgono voti per contribuire a spargere la fame nel mondo e ad imbandire la propria mensa alla quale accogliere i poveri a Natale.
Antonia alleva la prole in un pollaio di sterco di bue e gioca al gratta e vinci. E canta.

Un’aperitivo stabico


Mi siedo su una sedia di eroina rossa per un aperitivo in un bar ansimante tra proboscidi di panna cotta. Gioisco al vedere una gazzella che incrocia le gambe e guarda la mia bottiglia carica di sperma filosofale. E gioisce alla vista dei girini che solleticano le frattaglie della sua specie in una carica colossale di veleno e di allegria alcolizzata. Mi guarda e mi si avvicina al galoppo per chiedermi “Avresti mica da accendere?” le sorrido e le passo una cornacchia pelosa che viene direttamente dall’Inferno.
“Mica avrai paura di volare tra le dita dei buoi?” mi fa con sguardo allupante. Io la guardo sprezzante e le allungo un panino sulla coda il che la eccita come un panino al prosciutto crudo con contorno di valchirie e mozzarella in carrozzella.
Mi allunga un diritto e un rovescio e capisco che vuole essere presa lì senza se e senza ma tra i caprioli incravattati e gli stuzzichini al veleno di topo gigio.
Non mi tiro indietro ma le tiro una coltellata al collo e ne faccio polpette in una visione della via lattea che non lascia dietro di se altro che scie di comete a forma di burro e salvia.
Mi accascio stanco tra formicolii di buchi neri e arrosti urogenitali per contenere la passione virile di un fungo atomico bello a vedersi e caldo di microonde. Ci baciamo ed esprimiamo un desiderio sul bancone del bar in mezzo a cani e porci che ci hanno imitato e leccato.

Un Celice d’oro, un delirio Vasto.


Una setta si compiace del pallone d’oro attanagliandosi le dita tra un’incudine e un martello. Un roditore s’infila in affari che non sono suoi e perde la coda in un tentativo maldestro di pregare un castoro crocifisso tra due denti affilati. È una corsa all’oro quella che si siede trafelata tra una folla urlante e una musica trance assordante e metallica. Vibrano i timpani di periferia. Saltano le corde elettriche di un subacqueo in immersione tra stuzzicadenti impalpabili e gamberetti che sanno di polipo azzurro. È così che finisce la storia. Con due anzi tre, anzi quattro gatti delle nevi che si accoppiano tra di loro in un intercorso che suona una chitarra da flamenco che si origina in un’ascella pelosa mai lavata.
Pelli di platano scendono soffici sulla mia pelle e grattano via il sudore di un amore mai consumato. Sulla mia pelle molle si cicatrizza un mal di stomaco che balla il tango su un collo di volpe che mi serve per lavarmi i denti la sera del dì di festa.
Odi Odino il calore dell’uomo che cova salsicce nel buio di un porcile. Scende il liquido marrone da un cielo grigio. E cola lungo le scarpe rattoppate di un papero zoppo.