Canta l’uccellino di Dio mentre Odino fa il brodo di cavallo


Una nube oscura si accende nel mio nasino e tuona una violenza d’agosto senza padreterni che soffino sulle candeline del mio compleanno. Non posso piangere, ma comunque prego e forte e dormo su chiazze di sangue del mio nasino carino. Nel nome del padre, del figlio e di una Madonna vivente ma nata morta che urina nel piatto di pastasciutta della sagrada familia. Sempre e docilmente. La parola fu luce e luce fu serpente. E allora tu, tu, non piangere. Ridi canta e balla prima che lo spettacolo finisca senza un applauso.
Parole buttate come cenere d’agosto. In una piattaforma Windows che non aspetta di accendere la luce di un buttafuori che ti buttadentro a un cestino della Valfrutta, molto densa che aspetta le larghe intese di un burattino senza fili che ci porta nelle braccia di Biancaneve sotto i sette piani. Piani d’argento e apostrofo. Di un corridore che fatica a respirare durante una discesa negli inferi danteschi e ci trova proprio Dante. Ma che sfiga, fa il primo, Puoi dirlo forte fa il secondo, se lo sapevo col cazzo che stavo a scrivere tutta la commedia.
Tu, topo di fogna, rispondi alle domande che ti sfiorano il cervello nei momenti alcolici in cui ti vomiti fuori lo schifo di cui sei ricoperto. Oppure beviti l’ultimo drink quello prima di crepare in mezzo a una montagna di clark. Odi Odino la balalaika di un marocchino ubriaco di fumo e giarrettiere arcobaleno spinto a mano da Dio. Odi e non fingere di non morire ogni volta che una nota di Verdi sfiora il tuo Rigoletto guercio e la tua barba rossa sfrigola davanti al batacchio rosa di una primula che canta l’Osanna nell’alto dei peli di capra lesbica.
Quindi, caro topo, non ridere se tornando a casa tua moglie ti tira una padella in faccia, lo sai che i cavalli non telefonano così spesso neanche quando sono in giornata. Per cui tieni il piede in folle e metti in moto che stamattina sei in ritardo per lavorare.

Una buona scodella di vermi fritti, ma piangenti


Turgida fillossera che ti arrampichi su pali di legno per mangiarne l’anima e ti sposti lentamente col vento delle campagne illuminate da Dio. Tu che godi nell’attaccarti a chi puoi succhiare. Bevi un sorso di gin per morire ogni giorno di più in un radon nucleare e tecnicamente attivo. Solo così sprizzi pannelli di sole davanti ai tuoi occhi. Riflettono la tua sincerità e corrono per sentieri tortuosi. Vermi che piangono friggendo su rose a stelo lungo che regalo alla mia fidanzata nel giorno del suo matrimonio.
Vuoi tu? Sì. E tu? Sì. E allora. Ok. Finché morte. Che palla. Perché sì. Perché ricordarla proprio lì? E allora mentre la baciavo le ho messo la mano sulla patonza affinché tutti vedessero di cosa si tratta. Dopodiché ho continuato la festa con un durello impazzito che sente l’odore delle invitate e degli invitati.
Mi gratto un seno dolorante dopo orge sataniche con animali feroci che ballano e ruttano in tende improvvisate nel corso del Po. Nel corso del tempo una folata d’aria fresca mi disintossica la bocca che sa di aglio fresco e uva maleodorante che stinge in un mosto di corda da impiccato. Il velo uncinato si dispiega sul mio viso e sul tuo e ci porta in un carro armato per volare insieme nel paradiso degli inferi infernali.
Capiscimi tu? Amico di stagno? Sì, tu capire, cosa, non vale. Mai più di tanto. Ma comunque. Fesso, se no non so. Antani. Sbiriguda dela supercazzola. Se no non so. Quindi svengo.

Abbracciamoci come una cotoletta stanca.


Carlo Emilio Lepido si distrae durante la marcia nuziale su Roma per guardare Benito Mussolini e pensare a quant’è brutto. Quant’è brutto il casolare di via Peschiera Vecchia, che sembra che mentre lo demolivano, hanno cambiato idea e l’hanno lasciato lì come un animale ferito e menomato a chiedere di tirargli il colpo di grazia e invece no. Chi ci piscia, chi ci fa l’amore, chi ci gioca a nascondino e chi ci dorme. In realtà, in fondo, anche io ci vado a masturbarmi tra una cotoletta e l’altra.
Ieri i miei incubi mi hanno fatto la grazia e mi hanno appoggiato per un dolce risveglio tra ombre di pini in calore e rododendri di maggio che riempiono l’aria di effluvi rinascenti e posticipanti che si tostano il pan grattato. Una fetta di formaggio riempie l’aria di una pasticceria a cui manca l’aria. E il mio micio bianco che fa le fusa all’interno di un forno a duecento gradi mentre il suo pelo diventa nero. È così carino.
Vedo due diversi pianeti: uno che vede al di là dell’oscurità e l’altro che balla una danza saracena piccante. Mi eccito tra salami fosforescenti che mi cullano e mi seviziano ridendo e raccontandosi barzellette religiose e mi sciolgo in una poltiglia di baccalà urlanti per divorarmi le gengive tra conati di peste e rivoli di sangue nero. Che nero!
E quindi tu. Dimmi un po’. Perché? Non perché “cosa”, Perché e basta. E rispondi senza tanti giri di parole. Senza paura. Senza palle.

Il sole pullula di lupi morti


Un granello di sabbia odora il naso di un plutocrate tedesco che ulula ai monti del Tirolo per un Dixan a cielo aperto
Il senso snello di una bilancia portatile ti mando via Amazon nel mondo della magia virtuale, basta che digiti la password
Cornelia si stuzzica un marito tra le gengive delle labbra pelose e stringe la sigaretta tra labbra umide e untuose che gettano zizzania all’unto del Signore perché in fondo la nostra vita è solo una cazzata, no?
Menti. Perché mentire è una delle cose più vietate e piacevoli al mondo, soprattutto per colui che non deve sapere la verità. Che gli farebbe male. Troppo. E allora sii un benefattore. Perché l’emozione è un flusso d’amore che non si può fermare solo a causa di una verità.
Illusione, speranza ed evasione giocano a briscola nei sotterfugi antiatomici di una pentola a pressione spinta, molto spinta. Fanno una crema di asparagi che sottomette l’umanità che striscia credendo di volare tra gamberi ubriachi. Ed è così che io e te ci scambiamo lingue voluttuose che girano e rigirano attorno all’argomento, solleticandolo nella punta fino all’orgasmo. Questo è il succo della storia. Tra bianca neve e i sette nani. Una droga per cervelli che non tornano. Una coca cola che rigurgita calore e magma.
Un’ostrica tra i denti t’impedisce di deglutire come si deve e un conato di vomito ti spunta tra le dita dei piedi. È per questo che ti amo e ti voglio sposare. Ti regalerò attici di verruche e pomelli di pomodoro incastonato nelle pareti alla panna. Aspettando Babbo Natale per spremere le meningi del cocco bello cocco.

Tre piedi


Ciao. Difficile dire se apro un a porta o chiudo il buco del culo, ma comunque ciao. Anche perché se no non saprei con chi fare l’amore stasera. Una partita a carte con una schiera di angeli scioglierebbe in lacrime le fruste dell’inquisizione in una macina di sale. Ma se voliamo vicino al sole ci scottiamo le palle. Non in un universo multidimensionale dove le palle hanno una consistenza di un’anima in calore.
Così, io e te scendiamo le scale dell’immaginazione e prendiamo un tè mentre ascendiamo al cielo con sette veli sul seno per proteggerci dagli sguardi impuri degli angeli. Insieme a te brandisco un madido di sudore che cola dagli anfratti di un uccello sparviero che raccoglie i resti delle mensole adibite a festa da matrimoni con belve cornute e racchie sonnolente. Annaffiamo nel vino i ricordi di un’alluvione di sperma e cotolette mentre riviviamo giocosamente le nespole di un tricheco violento, ma barzellettiere.
Ieri mi sono spinto in una carrozza con tre piedi e due mensole sporgenti. Sporgeva il viso di una regina. Vecchia e sozza. Adibita a gran parata. La vedevo sognare di farsi un cavallo della carrozza di cui era perdutamente innamorata. Accoppiarsi con lui non aveva generato un minotauro, ma solo un mini uomo che batte la testa contro la parete del letto matrimoniale. Comunque il padre non era Minosse ma un oste ubriaco che aveva fatto fortuna nel campo dell’immobiliare per andare a parare in porta durante i mondiali di pallanuoto.
E allora ciao caro, passa una buona notte, ma non uscire durante i sogni o rischieresti di non poterci più rientrare se prendi troppo freddo. Capito?

Mantide


Vedo una quindicina di molle che fanno l’amore. Tra loro e libri di catene spezzate che viaggiano su jet lag a velocità luce. Prego una zebra a pois di raccontarmi barzellette sporche di sangue e sperma.
Scivoli giù per bande di froci a bocche aperte per ricevere suoni e carezze che non arriveranno mai se non da porci impazziti per la modifica parziale dell’IRPEF sugli immobili sexy.
Erano da innumerevoli Renzi che non si vedeva più un governo così ipnotico e ipnotizzante in una canzone di Spotify che si è incantata su se stessa e non ride più alle battute insipide di Crozza. Mangiami una mano di traverso, fratello, e riempimi la pancia di strutto colorato di rosso. Ti voglio bene. Tu che leggi e ti scaccoli con la mano nei pantaloni grigio verdi. Ti osservo e decido che siamo uguali ma diversi e dobbiamo accettare la diversità anche se siamo diversamente diversi. Capito? Quindi stringiamoci la mano anche se non ce l’hai perché l’hai persa in un sogno mentre si chiudevano gli occhi su un’accetta in movimento. Un telefonino non ti ha salvato la vita, ma nemmeno la mano che oggi può essere usata solo in maniera bionica.
Atolli grigi si sfavillano le pupille mentre si raccontano denti grigi ingialliti dal fumo di una poiana infallibile sui dogmi religiosi.
Un’abside di porcospino mi cinge la testa e io e te potremmo conquistare un mondo di vermi in un formicaio di pareti religiose come mantidi che uccidono chi le ha partorite tra formiche battenti bandiera pirata e coleotteri con la minigonna e il preservativo infilato dentro le ali. Per favore distruggimi le sinapsi con droghe al sapore di water affinché la morte smetta di scorrere nelle mie vene e mi spieghi la differenza con la vita di un sugo di pomodoro. Detto questo, ti auguro una buona Pasqua e sai che non sono sincero. Ma si dice per dire.
Un abbraccio.
Tuo fratello.

Una pinta di birra


Gaio pinto ti parla con la barbie che prende mance da un mondo annacquato di godimento sfrenato di forchettate al pomodoro Ikea.
Pomodori di cucine sicure in un rilascio di peto di colombe svedesi. Un odore inconfondibile si stiracchia tra lenzuola invecchiate in mezzo alle rolls royce nere mentre si raccontano barzellette sporche appese a stendere fuori dal balcone di Susanna Tutta Panna.
Mentre le antenne si diradano e gli orsacchiotti danzano danze latine i negri si inginocchiano a tagliarsi i capelli col piede di porco le banche giocano in mercati azionari ubriachi di sangue e salse di bambini morti di fame con la puzza di piedi neri che girano nella ruota della fortuna.
Ti piacerebbe? No, nemmeno a me. Però l’importante è che qualcuno freghi qualcun altro, mentre un confessore si pente davanti all’inquisizione per i peccati della moglie. E allora ubriacati e muori, figlio di una libidine tra due toner gay.
Quindi beviti sedici tori alla spina e guida fino all’ultimo girone del Paradiso perché un impiegato sorrida gemendo tra lacrime di gioia fino all’ultimo sangue blu

La frutta strabica di un topo guercio


Mangio un Che Guevara tra specchi deformanti che mi riportano un sapore di tigri lesbiche con un retrogusto fruttato. Una colazione saccente che sa di formaggio. Pecorino. Mi ricordo di quando ero un babbuino di primo pelo. Ricordo un sapore di sogno al pomodoro. Una cosa che uccide a zanne affilate. Che fanno le fusa.
Vago in tremori rossi tra gonne grigie e bambini al vapore. Effluvi di significato che arricchiscono le note di un clavicembalo a forma di prugna. Marmellate di sperma si sommano a probabilità quantistiche tra minigonne che sanno di sale al rosmarino saltato.
Cavoli rossi si chiedono perché le trecce intersecano le radici quadrate per capire perché la merda non ha paura di fare schifo. E tra un’emorragia mentale e l’altra, pure io. E respiro violentemente aliti di puttane tristi e gas di tubi di scappamento che scappano ma non muoiono mai. Nemmeno io muoio, ma farcisco la torta della vita con mucillaggini verde topo e brucio candele e cavalli tra pistoni di febbre da fieno per una canzone goliardica in una festa di villaggio.
Per questo ti propongo di vomitare, adesso.

Un grano di polvere grande come una mano di vernice


Una piscina aleggia sul cielo di Bologna e accende una speranza per l’umanità. Un tuffo nel vuoto molleggia la pinna. Molleggia una spanna di panna di perle che scendono per la mia fronte tra gocce di sangue e preghiere di cori gregoriani, mentre balliamo la salsa la mattina in riva al mare di Comacchio. Resta con noi, non scender dal cielo. Resta lì e non ti muover o dio beato. Che stavamo meglio prima. Ma se non puoi proprio farne a meno non raccontarci che c’hai fatto un piacere.
Meglio l’urina di un sacco di merda. Meglio la merda di un oro colato. Meglio la rita pavone che la diga di un gattopardo in calore. Metti poi che ci si frigga lo sperma ed ecco fatto il becco a l’oca. Giuliva. Nella grande schiera delle gatte delle nevi ci fregiamo di caldi arrosti che scendono a valle e mangiamo grandini di pettini argentati che pattinano violenti in un’aura di stroboscopi illuminati. E’ lì che Artisia si masturba in mezzo a tanti bambini che scivolano via urlando a mosca cieca tra musiche colorate e gomme da masticare a culo sul ghiaccio ardente.
Ma riesce a venire dopo tanto masticare le gocce di tempo che non sembrano voler darle tregua mentre fuori impervia la tempesta di sassi e preservativi contro le finestre di sale del palazzo dello sport che non lascia spazio ai neuroni di Godzilla anche perché non ci sono senza sberle. Vedi? È per questo che cerco di spiegarti l’origine della vita. Per sapere dove finisce anche se prima che finisce campa cavallo che non storna perché anche se storna non incorna nemmeno a pregare in greco. Che tra Atene e Sparta ne hanno fatte di cotte e di crude come la bresaola che non è come la mortadella, anzi. Che poi, anche se lo fosse, ma comunque.

Egregi signori


Signori. Eriggo una frana cangiante a tutela delle mie Erinni e volgo a Oriente tutte le parole che fuoriescono dalla poesia di un bipede acquatico. Osanna nell’alto dei peli, signori, e pace in terra agli uomini che si fanno le seghe. Una voce dal paradiso annuncia che non furono l’origine del peccato originale. Ma un fiore in fiore che spumeggiava cantando le Idi di marzo.
Lui fu a punire l’umanità di folgori e nuvole serene. Per cui mi piaccio. Abusivamente signori, conosco le odi alla luna di san Francesco. Fratello sole e incesto di luna piena di latte e candore di ciliegia rossa di mare di more, eccoti il tuo figlio prediletto. Va in giro a predicare tutto il giorno e non ha ancora un lavoro fisso. Chiama tutti fratello e non fa altro che farsi le canne. Dice di camminare sull’acqua per il troppo LSD. Insomma è peggio di un peto in tenuta da schiavo.
Cantami solenne una canzone da bardo con l’arpa e a grande richiesta fammi un album di pane coi cori di Corinto che chiedono il voto di castità a gran voce. In fondo ti amo mia musa che Sodoma e Gomorra e muore a colpi di vagina grattata sul ferro del cannone caldo.
Nuota per me mentre ti guardo scioglierti in uno schermo al plasma che vomita le olimpiadi della grande guerra.


Un cascamorto si incide le unghie su una pietra al cioccolato per mangiarne le budella in fiore sotto il sole cocente della primavera astrale che noi rettiliani succhiamo tra un Ice Tea e l’altro. Mentre mangiamo vermi e ci guardiamo le scene di grandi fratelli che lottano per le loro cavallette eccoci scendere dal cielo tra dimensioni di dentifrici seducentemente froci per adagiarci su terre labiali che ci danno baci e tortellini fusi. Noi abbracciamo il genere umano e indossiamo le maschere che ci portano a uccidere in grotte lucenti per cercare l’oro e la merda dell’animo umano.
Succhiamo con lingue biforcute il midollo osseo della triglia spaventata ma buona con la maionese e il ketchup. Busino si inciampa nel pappagallo mentre canta la Turandot in una Scala a quattro piedi semoventi. E pianta un fiore lucente di luce radioattiva.
Non preoccuparti se non vedi il sale del sole su un topo morto che ti porti sempre sulla spalla per coccolarti nelle ore di solitudine. Altro non è che la peste nera della tua coscienza che ti racconta favole e illusioni per spingerti oltre i mesi della follia e comprarti per poco prezzo. Perché anche l’anima ne ha uno ma lo vende solo se non lo sa.
E allora ridiamoci sopra.

Blu fuxia


Un’idea di bene non è come l’idea di pene e soprattutto se il senso vola libero nella mente di un Pardo che cerca sensazioni forti tra penne di carciofo e solitarie vibrazioni della mano con cui parla con il corpo stanco.
Matriuska comprende che la situazione si mette al peggio quando pensa che desidera essere frustata per riuscire a eiaculare e l’attenzione di un saggio vescovile coincide con la confessione di una chiesa sotto il livello di guardia svizzera. Percio’ ci piacciamo allo specchio, pensa Matriuska tra lobi di orecchie tagliati e buchi di formaggio profumati di rosa blu che sa di tamarindo col raffreddore.
Una virgola si chiede se mai il punto la cagherà. E i suoi fratelli e sorelle sono accolti a parlare nel Tempio e a formare una frittata triste sotto una nuvola di puttane. Padre nostro che sei nei cieli.
Formiamo un circolo e teniamoci stretti.

Una gaia combriccola di pesci froci


Una gaia vicenda di pesci morti trascende la dimensione del mio pollo asciutto mentre i giochi della fame si srotolano davanti alla mia mente di grande fratellone. E aspetto che i buchi sotto le ascelle aspettino il pettine per lisciarsi i capelli e di nuovo le cascate del Niagara cascano e si fanno male. E di nuovo il medico prescrive una Rossana verderame per via orale e non è per quello che mi raso la pelle fino a farmi male, ma per le dinamiche in corso e il fatto che, no, non posso sopportare l’abolizione del Senato.
E allora perché? Questo il punto e questa la buccia di banana di un ganglio spinoso rettale fino all’addome e alla pancia violenta che diventa casta e pura nell’anello coronato di diamanti che non voglio dire che manca la poesia in questa torta sonnolenta, voglio solo dire che ho sonno. Ecco. E che la arbitraria volontà del giudice Stecchino di provocare l’arrivo della corsara di Colombo è un tentativo complottistico di taratura minore per fare sesso con le spiaggianti di Ostia e con le farfalle di rabarbaro in questa terra prodigiosa che chiamano…boh.
Un dermatologo mi fa La sua pustola è infetta. E allora, faccio io, si guardi la sua che cola pus che sembra la fontana di Trevi. Ma è un orologio, cos’ha capito, mi fa torvo. E allora provi a sfilarselo. E allora me lo dà, e allora me lo tengo e ciao. Perché il giallo, non era pus, era oro.