Un cowboy con una pistola di fango si avvicina lentamente e mi guarda con occhi di fuoco e armatura di ghiaccio. Si avvicina e mi attraversa come un fantasma e mi gela le ossa di pesce come una tuta di sapone che ripulisce le mie lische.
Mi vedo e mi appoggio nella salita di una rampa di scale verso il paradiso in orbita sopra lo spazio. Siamo in tanti a salire e non ci fermiamo mai. Finché capiamo che il paradiso sta nell’illusione e non nella realtà.
Suore pregano con occhi bendati. Un’aria che libra con voci sensuali che sanno di tacchino al limone. Un coro di cuori strizzati in salsa di lingue d’oca. Un coro gregoriano che come bambini nevicano nella mala sorte di un pugno di fortuna che non esiste alla sorgente divina.
Parole fosforescenti si librano in cielo. Parole di polistirolo espanso nevicano e formano acqua azzurra che beviamo in un rumore assordante che viene dalla città incendiata da Nerone.
Imperatore solitario che canta la lira sulla sua rovina. Desdemona in fiore che credi che il cercatore sempre trovi prima o poi. E canta sulle rovine del tempio. Canta la rovina di un augusto personaggio in cima ad un impero.
Parole saporite che si gustano in un gelato espanso nella sostanza di un i-pad. Veloci e ballerine danzano in una voce che sa di tenebra fumosa a ghiacciata. Ricordo gli occhi di ghiaccio del cowboy. Ricordo che era un fantasma. Ricordo che ero io che attraversavo lo specchio della realtà e della pazzia.
Vola lirico pazzo. Vola in un ricordo di un’autostrada che sfreccia e non lascia memorie nell’ombra della tua anima.
Vola senza guardare giù e lasciati dimenticare da un’intera generazione di anime che traspirano il sudore della morte. Un sudore che sa di pane bruciato.