Tabulé di rose – 4


Sono distesa nuda e legata a gambe e braccia aperte in un letto rosa con baldacchino a diamanti incastonati nelle tendine e nel legno scuro in una stanza grande come un campo da tennis. Dal soffitto a vetri colorati penetra una luce diffusa che sembra un caleidoscopio.
Una materia fumogena mi acceca le orecchie, sto sognando legata ad un letto alla mercé di uomini e donne che solleticano gli istinti vitali più nascosti del mio corpo in cui dolore e piacere sono talmente fusi insieme da sembrare gemelli siamesi.
Cani sorridenti si mescolano a scariche elettriche che attraversano la mia anima in un valzer viennese in cui sono costretta a ballare il ballo di un’altra donna. Kadima mi tortura sottilmente. Con sensibilità e intelligenza. Sa cosa voglio e cosa non voglio. E soprattutto sa quello che voglio ma che non vorrei. Per orgoglio, per dignità.
Quella mi toglie. Ogni solletico, ogni carezza, ogni bacio, ogni eccitamento, ogni parola sussurrata ad un orecchio, ogni preghiera che le faccio di far finire questa tortura, ogni secondo che passo in compagnia sua e dei suoi falli enormi circondati di corpi scolpiti in carne umana, ogni lamento, ogni godimento mi fanno sprofondare sempre di più nella scala di valori di una donna, anzi, di un essere umano, no, nemmeno di un animale.
Ecco, sotto all’animale. Lì mi sta spingendo. Tra l’oppio e le droghe chimiche, tra il Prozac e la semplice marijuana o l’alcol, oramai la stessa liberazione dalla prigione della dignità è diventata un sottile piacere animale.
Una danza che Kadima conduce con una regia degna di un Oscar. E io perdo l’identità che ero venuta a cercare in questo lontano posto d’Africa. Per troppo amore o troppa stupidità.
Ma non è solo questo.
No. Non è solo questo.
C’è di più. Molto di più.
Questo.
È.
Amore.
Malsano, ma amore, maledizione.
Kadima non pensa che a me.
E io a lei.
Non pensa ad altro che a come farmi piacere in cambio della mia anima.
E io, la mia anima, gliela sto dando con lo stesso piacere che lei mi dà con la sua.
Stamattina mi ha detto “Io ti amo, voglio sposarti”.
Ora.
L’idea del matrimonio m’è sempre piaciuta, ma non avrei mai immaginato che l’unica che finora me lo avrebbe proposto sarebbe stata una donna. Un po’ maschile, d’accordo. Ma donna.
E io l’ho baciata.
E con quel bacio le dicevo: “Sì sposiamoci”. Non posso abbracciarla perché sono legata a mo’ di crocifisso.
Anche questo fa parte dell’amore che mi hanno insegnato nella mia educazione cristiana.
” L’amore del perdono nei confronti dei propri persecutori sono armi per conquistarne i cuori e redimerli dal peccato” diceva padre Pio. Nel mio caso il tutto passa per la figa, ma poco male.
Forse quest’inferno è, in realtà, la porta di accesso al Paradiso in cielo come in Terra. Per me come per lei.
Una che mi fa soffrire (e godere) tanto, è anche una che soffre tanto e quindi ha tanto bisogno di essere amata. E anche io. E allora eccoci tutt’e due insieme finché morte non ci separi.
Kamos è lontano, molto lontano e oramai non starà più pensando a me. Perché dovrei rimanergli fedele, pura e incontaminata? E allora meglio darsi come una Maddalena che porta Dio nell’anima e nel corpo dei bisognosi col proprio corpo e sangue.

Maiali da spasso


La casa era una cosa e il cuculo non cagava più sul nido da un pisello del pleistocene. Un catarro della saliva gli si era sciolto in un calcolo renale e prevedeva di rigenerare la carta igienica necessaria per pulirsi il naso da sedimenti di moscerini. Gli ci vollero due giorni .Ma alla fine si accascio’ al suolo vinto dalla fatica come di un cemento sulla testa senza casco.

La casa è in fiamme e devo restituire una carta geografica a una collega. Corro ma non so dove. Mangio ma non so cosa. Grido sì quello lo so, grido a squarciagola che sono chiuso in bagno e che sto fumando una sigaretta ma nessuno, nessuno intorno mi sente. Scappo su due cigni in volo che mi portano al luna park dove ho parcheggiato la macchina per un veloce spinello in compagnia di due maiali gay.

Gladio era un’organizzazione no profit a fin di bene. Praticavano interventi cardiovascolari a puledre in calore per mantenere il tasso ormonale allo stesso livello dello spread in modo da guadagnare il bonus previsto per le misture di coglioni natalizi.

Cantiamo tutt’in coro Loacker che bontà

Tabulé di rose – 3


Kadima aiutami hanno rapito Kamos e ho bisogno di sapere dove l’hanno nascosto
Chi l’ha rapito?
Quelli dell’Emor
I nostri servizi segreti, ma che è? una spia il tuo uomo?
Sì ma non lo sapevo ti giuro. Pensavo dovesse supervisionare dei progetti di non so cosa di infrastrutture, sviluppo qualcosa del genere. Gesù e pensare che era una vacanza
Sei sola?
Sì perché?
Rischio il collo se ti aiuto
Puoi trovare il nascondiglio?
Certo che posso ma se mi trovano mi scuoiano viva anche se sono la figlia del capo della polizia
Si fanno queste cose da voi?
Certo e anche da voi, solo che non ve lo dicono
Come fai a saperlo?
Ora devo andare
Faccio quello che vuoi. Dammi istruzioni
Ci vediamo domani notte davanti al kebab brasiliano vicino alla grande Moschea all’una di notte. Ti darò la mappa e le foto che servono ai tuoi per credere a quello che gli dici
Perché? Pensi che non mi credono se glielo dico semplicemente?
Da dove vieni?
Da Bruxelles…dall’UFE cioè in che senso?
Lascia perdere Alice dal paese delle meraviglie. Credi che i tuoi superiori credono a tutto quello che gli raccontano? Senza foto non perdono neanche il tempo di alzarsi dal letto
Se lo dici tu
È così e basta. A domani.

Padre ho peccato


Racconta e svuota la tua anima nel ventre della vergine santissima
Ho pensato e ho toccato
Chi
Me stessa
Dimmi come e quando e quanto
Ero stesa nel parco tra gli alberi e era caldo era ieri pomeriggio non c’era nessuno e ho iniziato a pregare. Mi sono inginocchiata. Avevo le mani giunte e pensavo a Gesù e pregavo e m’inventavo anche le preghiere perché ero stufa del Padre Nostro
Ma come fai a stufarti del Padre Nostro?
Mi stufo e basta. Comunque funzionava e recitavo “ti amerò per sempre corpo e anima e voglio lasciarmi andare a te completamente senza pudore e dedicarti tutta la vita per poco che possa valere ed essere tutt’uno con te, voglio essere la tua Maddalena, la tua Maria e la tua vergine”
Ma questa non è una preghiera
Be’ comunque per me era una preghiera e m’immaginavo veramente di essere con lui e di stare tra le sue braccia in quell’erba e tra quei fiori profumatissimi di rododendro e violette e forse mi hanno dato un po’ alla testa
Non cercare scuse
Non sono scuse mi hanno dato alla testa e mi sono eccitata. Mi sono eccitata e ho cominciato a toccarmi prima il seno e poi la
Sì ho capito
Non ha capito don Germino era la testa e non la
Ho capito
Stavolta sì, comunque mi sono accarezzata i capelli e con i capelli ancora il seno e i capelli erano così soffici che sembravano seta che quasi mi faceva il solletico. Ma non era un solletico, era come elettricità che cresceva piano piano ed entrava sotto la pelle capito?
No
Lo sapevo. È come un’onda del mare che prima sta sopra la pelle, poi ti passa sotto e entra dentro e allora li sì che ho cominciato a toccarmi la …
Sì e poi?
E poi sa com’è
No non so com’è
Le piace eh? Comunque pensavo che anche a Gesù sarebbe piaciuto e a me è sempre piaciuto tantissimo in questa posa nudo a braccia aperte e m’è piaciuto immaginarmelo come un ragazzo qualsiasi, un po’ hippy che gira predicando e mi capita sempre che questi pazzoidi mi piacciono ma non sapevo che qualcuno mi filmava
Chi ti filmava
Tommaso
Tuo fratello?
Sì, lo sa che ha una passione per me? Mi segue sempre e stavolta m’ha beccato
E che ha fatto
M’ha sdraiata per terra
Non t’ha violentato
No io stavo per venire e lui anche e allora ha finito di masturbarsi in ginocchio sopra il mio viso e
E?
Siamo venuti insieme, ma lui ha continuato a filmare
Praticamente un incesto, ma siete matti
Beh mica siamo gli unici qui intorno e c’è pure di peggio
Questo non vuol dire che non sia peccato
Se no mica mi confesserei
Sì, ma non te la cavi mica con due ave Maria, vai avanti
Perché non è ancora venuto
No

Tabulé di rose – 2


Papà. Che lavoro fai?
Lavoro per il bene del paese
Di Strazziano intendi?
Certo, tutti qui mi sono debitori di qualche favore
Il tuo lavoro è fare favori?
Più o meno sì
E ti pagano?
Certo
Sempre?
No, non sempre
E se non pagano
La pagano ancora più cara
Li fai pagare di più?
Molto di più
E dopo ti pagano?
Beh, dopo sono morti

Vado in giro per il paese. Ho quindici anni. Sono mora e di pelle chiara. Occhi verdi che quando guardo un ragazzo resta ipnotizzato e fortuna che non nota troppo la bassezza e il troppo seno. O, forse sì. Meglio per lui. È primavera e le zanzare sono un incubo dato che qui fanno una piccola siesta poi te le ritrovi dalle cinque del pomeriggio alle otto di mattina e oltre. Io le attiro tutte.
In primavera tendo anche ad attirare le persone. Soprattutto uomini.
Mangio una mela prima della Messa domenicale. Ci sono tutti. Cani, porci, prostitute e figlie di boss come me. Siamo quelle che devono sostenere l’onore della famiglia più delle altre e dare il buon esempio. Quindi facciamo sesso tra di noi. Dopo la Messa, mentre tutti stanno mangiando dolci e chiacchierando nel giardino di casa nostra ce ne andiamo a fare un giro nel bosco che dà sulla spiaggia e lì ci divertiamo. Comincia Brigitta che ci mostra un fisico da giraffa e le piace essere presa a schiaffi nel posteriore. Poi è la volta di Paolina che è grassa ma ha un viso bellissimo con occhi tipo egiziana e una bocca grande grande che quando ti bacia ti fa sentire divorata e quando ti lecca la senti arrivare dovunque. A me piace soprattutto Restia che è una selvaggia come me, graffia e mordicchia dolcemente e la sua pelle sa di cioccolato amaro o, forse, è solo amara, ma a me piace. Mi scalda immediatamente. Restiamo nascoste nei cespugli di zafferano a drogarci dei nostri sapori mentre ci risuonano ancora le parole del curato alla fine della Messa “Date alle persone ciò che vogliono ricevere e siate aperte a ricevere quello che vi viene dato con amore”. Intanto che ci baciamo la sabbia si mescola ai nostri corpi rotolanti verso il mare che ci accoglie sotto un sole cocente.

Tabulé di rose – 1


Tabulé di rose – 1
Mi sveglio, no, non sono sveglia, ti prego fa che sia un sogno, anzi un incubo. Sento corpi intorno a me. Grossi corpi. Grossi come maiali. Forse sono maiali. Puzzano come maiali. Forse puzzo anch’io come una maiala. Sono corpi nudi. Come il mio. Si strusciano contro la mia pelle. Qualcuno tossisce. Della luce entra dalle mie palpebre ancora chiuse.
Ora sono su una spiaggia deserta. Un cavallo bianco mi viene incontro e mi chiede se voglio una canna. No grazie, cavalla, non la voglio, ne ho fumate abbastanza, non so quando, ma lo so.
Mi guardo in uno specchio d’acqua sporca e intravedo una faccia e qualcuno mi spinge dentro e casco con la faccia nel fango. La cavalla mi lecca la faccia e m’infila una lingua in bocca. Mi abbraccia e l’abbraccio e mi scaldo.
Quando finisco di svegliarmi è troppo tardi e il maiale mi sta montando da cima a fondo mentre anche l’altro si sta agitando.
Io cerco di dire di no e lo dico. Sul serio.
Ma non sembro abbastanza convinta. Smetto di dirlo e di cercare di respingerlo perché non fa altro che moltiplicare la forza ad ogni “no”.
Apro gli occhi e sono in una stanza pietrosa e piena di calcinacci.
Io sono Irina e questi tre con cui mi sto svegliando sono alcuni amici di mio fratello: Giac, Oz e Minghetto che insieme formano la band di taranta più famosa del quartiere.
Mio fratello mi appare da un lato del materasso appoggiato sul pavimento mentre si masturba guardandomi abbuffarmi di carne semovente che a malapena riesco a respirare, anzi, a gemere. Di vergogna, ma di piacere.
Mio fratello scatta foto. Gira video. Tutti mi conoscono come una ragazza seria.
E finché gli obbedisco niente cambierà.

Prozac


Un lunedì delle ceneri mi ruota attorno alla testa. Un giorno da Prozac. Il santo Graal di fine ventesimo secolo insieme al Viagra. Oggi è una giornata in pillole. C’è da prendersi anche un po’ di testosterone e tutto il mix ormonale che possa metterti di buon umore, ma in fondo hai solo voglia di morire.
In una scatola di cellophane.
E quando ti chiedono quella domanda stronza “come va?” cioè “Fanculo”.
Ma voglio dire “cazzi tuoi mai?”.
Questo è il lunedì vero. Non quello che finisce su facebook con le faccione stronzamente felici, anche di lunedì, anche sotto la pioggia, anche in una gabbia elettronica.
Cazzo ridi, idiota.
Con le foto delle vacanze?
Fatti una foto ora, in questo momento con una webcam e dimmi com’è la vita.
E quando torni a casa per ridiventare umano non avrai due giorni, no, avrai qualche oretta durante la quale cucini, mangi, fai i compiti dei figli, litighi con un’eventuale moglie o compagna o marito o compagno, poi dopo di scopare se ne parla, poi vai su facebook a dire due cagate e far vedere quant’è fica la vita.
E domani di nuovo “come va?”
“Bene. Figata” mentre ti riempi la tazza di caffè facendo commenti sul culo di qualcuno, se ci sei in confidenza o su chi va su e chi va giù per le scale del “si salvi chi può”.
E allora affondiamo in fondo all’oceano mare sognando una vita migliore finché semplicemente questa non se ne sarà andata. Che faccia di palta quelli a chiamare la prossima “miglior vita”. Ci sono stati?
Io ce li manderei tutti, quelli che usano quest’espressione. Così, per farli contenti. Non occorre neanche l’eutanasia. Botta in testa e via. Lavoro pulito.
Votiamo il partito dell’amore, arruoliamoci nell’esercito di Silvio.
E conquistiamo la luna di traverso di una contabile che è diventata miss USA e che d’ora in poi sarà nella “vita migliore”.
Ha creduto in un progetto. Ed è uscita dalla merda dei “lunedì'”.

Libero


Veglio sul principe azzurro e mi ficco in ammollo severando una pigna colada di traverso al collo di un dattero butterato. In realtà tutto questo per dire che il giorno prima del fine settimana, ti ricorda la schiavitù perché sta per finire e per un paio di giorni sarai umano.
Poi tornerai soldato, robot, ingranaggio e poi altri due giorni di umanità, poi anche un po’ in ferie e poi tieni duro così per qualche decennio.
Se non ti va sei libero di morire di fame e non riprodurti. Oppure di riprodurti e morire di fame. O di riprodurti e far morire tutti di fame. Insomma sei un uomo libero perché puoi scegliere. Ma non solo.
Sei anche libero di diventare sempre più povero per costringere altri a diventare sempre più ricchi.
E questa è la cosa più bella, più generosa, più cristiana.
E di questo bisogna essere contenti. Contenti di dare, col sacrificio di sé, il meglio della vita ad altri. Perdonandoli, come Cristo, perché non sanno quello che fanno. Non sanno quanto è bello dare senza aspettarsi di ricevere altro che un calcio in culo e qualche psicofarmaco che ti permetta di robotizzarti meglio.
Come usavano a Cuba al tempo degli zombie. Schiavi trattati con droghe che annullavano la loro volontà. In fondo la storia si ripete.
Sempre diversa, sempre uguale, perché come dice qualcuno “in fondo è sempre la nostra storia”.
E allora andiamo a casa, ma prima fermiamoci a ubriacarci con uno Spritz e fumare un po’ di nicotina per uccidere quella disciplina robotica e ridiventare un po’ quell’animale ingabbiato. Poi andiamo a casa, ma prima andiamo a puttane per scendere giù nel fondo dell’oceano animale e ritrovare le nostre pinne che ci permettano di nuotare in un’umanità che ci fa quasi più paura della grande macchina ardente. Che ci porterà un giorno a conoscere altre specie aliene. Chissà se a loro piacerà la coca cola? Chissà se anche loro aspettano il fine settimana per diventare un po’ più alieni? Chissà se anche loro hanno le puttane. E i gay. E i terroristi islamici. E la mafia. Ma mettiamo che non abbiano o non gli piaccia la pizza. Come la mettiamo?
Che ci ficchiamo in ammollo un sardo in scatola e civettiamo nei pantaloni col bisturi in mano e ci grattiamo contro una transenna mentre il cibo elettronico squilla nelle nostre tasche per avvisarci che altri zombie ci stanno raggiungendo per diventare esseri umani, ma solo per poco e il meno possibile, altrimenti il lunedì finisce che è da suicidio e allora ci prenderemo un altro prozac.

C’è un barbone.


C’è un barbone vicino a casa mia. Me lo incrocio un giorno si è uno no tornando dall’ufficio. Mi fa incazzare. Non è come gli altri. Non chiede elemosina. Non spacca i timpani nei metrò e i marroni per la strada urlando o litigando o venendo a chiederti una sigaretta. No. È alto e robusto. Ha i capelli grigi un po’ lunghi e così grassi che ti verrebbe da offrirgli una doccia e una lavatrice.
Lo trovo seduto o in piedi barcollante. Testa verso il basso con i capelli che la ricoprono.
Quando vedo i suoi occhi il messaggio che leggo è “Dio dammi la morte, cazzo” e Dio non gliela dà. E lui soffre.
Ha finito, non ne ha più, eppure il suo fisico resiste.
Ispira tanto dolore che ogni tanto qualcuno va lì di sua iniziativa e gli dà dei soldi senza che lui li chieda.
Non so se dargli il colpo di grazia o sedermi a fare quattro chiacchiere con lui per dargli…che? Conforto? Farmi i cazzi suoi e basta? Scrivere un articolo su chi non ce la fa più? Dargli soldi perché se li spenda in birra? Incazzarmi con Dio perché gliela faccia fare finita con ‘sta commedia dell’arte che è la vita di tutti quanti?
Credo che mi destabilizzi perché non è altro che la mia paura di vivere fatta persona. Quello che ti aspetta se non ce la fai. Quella silenziosa disperazione di cui sei cosciente anche se cerchi di non vederla, di non sentirla e, soprattutto, di non ammetterla.
Ecco quando vedo lui ho paura per me, soffro per lui, e prego per un mondo migliore. E prima o poi gli darò anche dei soldi senza che me li chieda per fare una doccia al mio senso di colpa per star meglio di lui.

Uova


Bevo una birra in cima ad una montagna incantata e mi chiedo se il mondo sopravvivrà. Poi penso che è una domanda cretina perché non ha risposta. Poi penso che tutte le domande più importanti non hanno risposta. Quindi le domande più importanti sono cretine. Forse è cretino cercare risposte a tutti i costi, ma non farsi domande. Ed è cretino non avere le palle di vivere nel dubbio costante. Quindi è intelligente porsi domande cretine se non si pretende di trovare una risposta. Quindi la risposta è nella domanda stessa. O, meglio, la risposta è la domanda.
Tutto questo per dire che saremo sempre più poveri. E che in fondo il mondo non è altro che una palla che gira, se a noi ne girano due, tanto peggio, tanto meglio.
Ho un amico che si libra costantemente nelle palle (e nei cazzi) degli altri per evitare di scornarsi contro le proprie. Utilizza un fraseggio arcaico e una generosità ultra-cristianoide. Ma in fondo, la domanda è: meglio avere palle che girano o stare senza e immergersi in quelle di un altro? Dipende dalle palle di ciascuno. Il che dimostra che la domanda è cretina.
Ho un’amica incazzata con se stessa per il fatto di non avere palle e tende a scontrarsi contro gli specchi che le riflettono il suo senzapallismo. Chiaramente rimbalza e si fa male. Ma continua così, indefessa e più lo fa e più riesce a ferirsi e quindi trovare ragioni per scagliarsi contro gli specchi senza mettere in dubbio, chiaramente, il suo senzapallismo, perché se lo facesse avrebbe palle e quindi ammetterebbe di non averle avuto fino ad ora, il che è una contraddizione in termini. Quindi, ancora una volta una domanda colta: nasce (e muore) prima l’uovo o la pallina? Ancora una volta la domanda è nella risposta che non c’è, quindi è una domanda cretina.

Parigi ma belle


Una lirica insegna a non gareggiare in un mondo di sensualità apparente. Ridi pazzo. Ridi sberla in faccia. Piangi di lacrime calde e salate.
In un deserto di granchi e conchiglie il verme butterato beve una birra alla spina senza pensare che questa sarà l’ultima della sua vita prima di venir calpestato da una jeep di zoo safari.
Afferro il sonno con una mano e il vermiglio colore della poesia con l’altra e me li spalmo sul cuoio capelluto in una mistica unione col divino piacere di un pozzo di sale e salsedine che sa di vongole al pomodoro.
Il muro dell’ufficio si appanna e appaiono animali invertebrati alla ricerca di un flusso di tamburi che battono il ritmo del futuro con addosso una maglia della Ferrari. Il sonno prende possesso delle unghie delle mie mani e proietta ostie benedette sul sacrato di una chiesa consacrata dal papa Merlino durante la Messa di Natale.
L’ultimo Natale dell’umanità.
Poi l’ultimo viaggio nello spazio.
Là dove zanzare giganti attaccano iosfere per saccheggiare le miniere di anime latranti che vogliono abbronzarsi in una città sospesa nella mente di un nano che lavora come presidente degli Stati Rincoglioniti della Pangeria.
I duroni girano e rigirano su se stessi fino a formare centri di gravità permanenti e rallentare il tempo in diverse città dell’universo roso dalla collera di un gatto delle nevi che non trova cibo da una settimana. E azzanna un orso bruno nelle sue stesse condizioni. Se morirà che sia combattendo.

Un’ostia val bene un pugno in faccia


I nervi saltano come corde di una chitarra di burro al canto di un usignolo epilettico. Ecco che vola nel cielo azzurro. Ecco che muore nel cielo azzurro. Ecco. Esplode. Di birra e vodka.
Un usignolo russo che sfreccia nella metropolitana moscovita.

Prendo in mano la musica di una felicità sconosciuta. Mi metto un naso in ammollo per un minuto quantico.
Fratello sole e sorella luna e puttana. Ti schianti contro un toro in calore senza reggiseno né peli sulla lingua. Senza brandelli di cervello infuocato di traverso a uno steccato dove si appende la biancheria di un ranch attaccato dai coyotes indiani.
Insediati in una discoteca si muovono sinuosamente in gruppi di sciacalli e saltano da una droga all’altra mentre il sole gli cuoce il cervello e la polvere di coca del deserto gli entra dalle narici e va direttamente a contatto con le feci fermentate in gola tra cancri e duodeni a forma di salsiccia.

Erotico blues ti muovi e fai muovere un opossum fumato tra un manga mal digerito da un ranger in cerca di cacciatori di taglie ritagliate da un giornale delle giovani marmotte.

Mi masturbo con un elastico e viaggio nell’universo con la facilità di un orso bianco, mentre l’insonnia mi divora la cervice e l’alcol mi nutre lo spirito santo di un vaso di vino giovane e bello come Penelope che adescava i Proci promettendosi a ciascuno di loro.

Odo la voce di un canale episcopato. Genera calore nella radice delle corna. Arturo si fida. E si butta a capofitto nel nuovo lavoro. Deve ricoprire la Nigeria di sperma di gallo nero. Ha tutta la vita davanti. Può farcela anche facendo attività di controspionaggio pregando Dio che lo benedica in un coro di angeli che non siano gay.

Lana di vetro


Maniche di torta si liberano in un’aria di usignolo che fischia una marcia nuziale al creatore. Che sfiga che la nascita sia sottomessa al cantico dei cantici, pensa, ma non facciamo troppi calcoli altrimenti ci fondiamo la frutta e moriamo di orgasmi.
Fischiano le creature di una valpolicella rossa e bevono drink alla frutta secca per inorgoglirsi e sentirsi dei davanti allo specchio di diodi elettromagnetici radionucleotici le cui meningi esplodono con un fragore che danneggia i timpani delle volpi che raccolgono la spazzatura dagli alisei.
Riservo una prenotazione. Per un viaggio nelle isolette greche. Per un viaggio al sapore di tridente con aliscafo e piroga nella massa stantia di un battello a vapore che sa di pesce marcio e reti non lavate se non dalla salsedine emessa dalle mestruazioni di un cervello gonfiabile.
Mi tremano le mutande mentre un grido di dolore al sapore di vitello mi lacera le vene e mi fa la predica dicendomi che avrei dovuto picchiarmi di più la mattina quando mi faccio la barba

Pino si è forato un occhio che sanguina e diventa grande


Un plico abbandonato si masturba sull’orlo del marciapiede in attesa di un traffico di droga che lo uccida definitivamente. Aggiungo un urlo di piacere ad una voce stonata che canta una canzone degli scarafaggi in suono beat. In ogni canto polacco c’è una torta che alza la gonna al cielo e scorreggia guardando l’inferno in cielo. Il fisico sardo di una capinera che gioca col coltello tra le gengive di un coccodrillo sfugge improvvisamente dalle mani sudate di un rospo. Cazzo, fa in un coro gregoriano in un sottofondo di sintetizzatori che fumano maria.
Vorrei un bloody mary che è una forma particolare di marijuana che quando la fumi cola sangue dalla sigaretta. E quando ti fai uno space cake arraffa i crampi del tuo stomaco per farne salsicce affumicate.
Mi dolgo e mi contorco nella colpa e nel perdono di un serpente acquatico che sforna torte al cioccolato dalle sue spire color lampone affumicato.
Respiro il profumo di osso di un cadavere caduto in trance in seguito ad un’overdose di ecstasy e finito in paradiso per errore e lì è infelice perché non ha amici né famigliari, ma si vende ogni giorno perché tutti lo reputano fortunato. Fin quando il tempo non finirà.
Un alito d’olio vergine recupera un ostaggio di terroristi buddisti che circolano in un’aureola discendente fino allo spazio onnisciente con un dio ignorante che si fa bello davanti allo specchio per essere adorato dalle creature del napalm
M’inchiodo ad un televisore a schermo piatto e ovale in una sesta dimensione delle ovaie di una puttana uomo che fino a ieri credeva di essere solo gay. Il dentista gli consiglia di mangiare più lentamente i cazzi di struzzo perché rovinano i denti e le gengive.
Un suggerimento si scioglie davanti a milioni di telespettatori perché tanto non lo ascolta nessuno e si appisola e evapora con la lentezza di una patata per diventare fritta e resta a mezz’aria pronto per essere respirato da un bambino saggiamente educato e che si eleva al cielo per tre giorni e per altri tre giorni impara posizioni erotiche in un’astronave aliena di passaggio e piena di turisti pensionati. È importante che i vecchi hanno molto da insegnare.
Fu così che Pinocchio diventò adulto. Facendo l’amore con la fatina dopo averla sequestrata nella pancia della balena.

Il panico sordo di una vite addormentata


Grido nella notte ad un sordo dio infinito. E cucio le membra smembrate di un singolo atto di guerra che si fa prendere dal panico. Sbatte la testa contro il muro e mi chiede piangendo perché il sangue cola dagli occhi ciechi. Mi strappo il cuore per dargli una speranza e glielo ficco in bocca affinché sia in comunione con il grande spirito. E il santo erotismo lo ritempri nell’anima cancellata da un inferno dantesco di gironi a tornado che hanno lentamente tolto pelle dopo pelle, capello dopo capello. Un vuoto oscuro mi chiede la soluzione dell’enigma dell’ultima cena. Ma Cristo c’era o era un sosia. E Maddalena è Giovanni o no? Questo mi chiede la sfinge e dato che non so rispondere mi divora come non ha fatto con Edipo re bambino. E con il bambin gesù che se oggi fosse scaldato solo da un bue e un asino penserebbe di essere in un videogioco.
Come facevano l’amore Giuseppe e Maria? E Dio e Maria? E Gesù e Maddalena? La risposta soffia nel vento, amico mio.
E allora preparo un soffritto di toro con olio essenziale di menta piperita, zucchero e cannella sono amici e si prendono per mano mentre li immergo nello stufato che li assorbe avido di liquido amniotico.
Guardo dal satellite, la sfinge che fa parole crociate e s’interroga ad alta voce e parla con Dio delle sue relazioni erotiche con i leoni e con altri animali tra cui l’homo sapiens sapiens da cui ha appena preso l’aids.
E che quindi, per la seconda volta l’ha fregata. Ride e una risata pneumatica la fa capovolgere e rotolare verso la piramide di merda di iguana. Un sapore metifico si sparge e ingloba e brucia nel sole del deserto e libera miasmi radioattivi che intossicano Dio. Tocca di ricoverarlo d’urgenza in un ospedale egiziano. È ammalato di minimalismo solipsistico. Incurabile dice la Sfinge che però lo seduce e si fa portare a letto.
Il giorno dopo decidono di sposarsi finché morte non li separi.

Il vallo endemico di una minigonna zebrata


Il salice di una morte lenta organizza una struttura carceraria di amare parole d’amore. Il succo della libagione forzata gronda di aceto balsamico per una banda di cerbiatti che urinano sul pesce venduto al mercato mattutino ai turisti di uno zoo safari. Il sabato incontinente degenera in pozzi di fogna arrabbiata e il mio cervello è influenzato dalla sguardo torno di toro seduto che mi guarda e pensa alle studentesse in minigonne affumicate. Mentre il grande martello preme il pneuma dell’aforisma contenutistico io mi passo un rasoio tra i capelli e spargo un unguento lento tra le lenzuola del mio pene animale.
Il tutto mentre il palmo del piede si usura nella stitichezza lenta di un leopardo femmina che cammina con una lancia conficcata nel seno. Entro nel mondo endogeno di un lupo mannaro che confonde le equazioni con la coca cola e chiacchiera ad un bar di corvi imperialisti che danzano rap in un pertugio decorato in stile liberty. Definisco quindi, il sapore di una mucca bulimica e mi lascio ammuffire tra scatole di legno pregiato colorato con merda secca ricca di conservanti e ddt. Mentre cammino nella passerella di una montagna incantata mi chiedo se la vita non nasconda oscuri ossobuchi tra i quali ritagliarsi meandri di stracci tra un cuoio capelluto e un hippy fermo alla stazione ferroviaria.
Una grande luce mi porta assieme al vento di una mela marcia mentre osservo culi in minigonna in una biblioteca reale del reame di Boll.
E ti sputo in bocca.
Perché ti amo.
Mio pertugio incosciente.