Ma Tarzan è nato in Tanzania?


Voci mi parlano dal nero di una gola profonda ficcata nel cervello da gallina di una puntura d’insetto. È Alice che dal mondo del bianco coniglio mi dice “Voglio un panino arabo per annegarmi nell’oceano indiano” “Ficcatelo da qualche parte” faccio io mentre digerisco una palla di zanzara con la malaria e viaggio tra dimensioni di merda nella disciplina militare di un Gergo etiope.
La Somalia rutta una lattina di cocacola tra le vestigia di un impero ormai trascendente con nostalgia violenta. Arcimboldo mi guarda dall’alto dell’impero austriaco della Tanzania e Renzi si prepara a governare l’impero Italico ridotto in briciole che servono da nutrimento per gli uccellini del lago Trasimeno.
Mani rapaci costituiscono il ventre solido della barriera corallina che risiede al centro del tempio di Salomone custodito dai cavalieri del Tempio della Passera Australe che vola e passa come l’uva al centro della tavola rotonda in un mondo di fiabe come la legge finanziaria che risolleverà le sorti della patria. Forza Inter?

Il sacco di Roma


Un cowboy con una pistola di fango si avvicina lentamente e mi guarda con occhi di fuoco e armatura di ghiaccio. Si avvicina e mi attraversa come un fantasma e mi gela le ossa di pesce come una tuta di sapone che ripulisce le mie lische.

Mi vedo e mi appoggio nella salita di una rampa di scale verso il paradiso in orbita sopra lo spazio. Siamo in tanti a salire e non ci fermiamo mai. Finché capiamo che il paradiso sta nell’illusione e non nella realtà.

Suore pregano con occhi bendati. Un’aria che libra con voci sensuali che sanno di tacchino al limone. Un coro di cuori strizzati in salsa di lingue d’oca. Un coro gregoriano che come bambini nevicano nella mala sorte di un pugno di fortuna che non esiste alla sorgente divina.

Parole fosforescenti si librano in cielo. Parole di polistirolo espanso nevicano e formano acqua azzurra che beviamo in un rumore assordante che viene dalla città incendiata da Nerone.

Imperatore solitario che canta la lira sulla sua rovina. Desdemona in fiore che credi che il cercatore sempre trovi prima o poi. E canta sulle rovine del tempio. Canta la rovina di un augusto personaggio in cima ad un impero.

Parole saporite che si gustano in un gelato espanso nella sostanza di un i-pad. Veloci e ballerine danzano in una voce che sa di tenebra fumosa a ghiacciata. Ricordo gli occhi di ghiaccio del cowboy. Ricordo che era un fantasma. Ricordo che ero io che attraversavo lo specchio della realtà e della pazzia.

Vola lirico pazzo. Vola in un ricordo di un’autostrada che sfreccia e non lascia memorie nell’ombra della tua anima.

Vola senza guardare giù e lasciati dimenticare da un’intera generazione di anime che traspirano il sudore della morte. Un sudore che sa di pane bruciato.

Puddu


Nella selva della città di Dio s’insinuava un segugio affettato da mille azalee petulanti.

In questo contesto Puddu si aggirava bighellonando vicino ad una barricata di uomini armati.

Andava in cerca di puledre fresche cui far bere il sol dell’avvenire.

Puddu si aggirava dopo la mezzanotte avvolto in un mantello a pois giallo e nero. Entrava nei pub più alcolici della capitale dell’impero. Osservava gli esemplari di femmine. Ne puntava uno e lo ubriacava. Lo portava nella sua tana e le trattava come le pecore di casa sua. E le riportava a casa prima che potessero essere coscienti.

Ma il problema era la sua sete insaziabile di alcol e il suo pene in perenne erezione che gl’impediva di dormire più di due o tre ore. Poi doveva ricominciare. Come un vampiro.