Ho riscaldato il mio cervello al microonde


Scoppio nell’ambito di un fantasma. Mi lascio andare alla follia che alberga sempre più padrona della mia mente e lo spazio mi sembra un grande vallata di fumo e alcol. Un grande buco dove il niente diventa e basta. M’abbandono alla lanterna dell’amore che scivola dolcemente su uno zucchero a velo di alito positivo. Un ambiente diverso. Fatto di gruppi elettrogeni e allucinogeni. Dove il sonno non alberga più. La notte è un immenso soffitto bianco mentre faccio l’amore con una chitarra elettrica e fondo i miei testicoli nell’assolo di una canzone che spacca i timpani ridondando come una campana a morto. La televisione continua a trasmettere mentre chiudo gli occhi e il telecomando cade dalla mia mano sinistra. Gli occhi finalmente si chiudono sul sipario dello sbarco di Normandia. Che ha trasformato un’Europa nel cinquantaduesimo stato degli Stati Uniti. Vedo un dentista che opera una bambina. Vedo il sangue schizzargli negli occhi. Vedo Che il sangue è il suo. Vedo che il dentista muore e la bambina scende e se ne va.

E il silenzio scende sulla mia notte insonne.

Gruppi di mosche s’insinuano intorno alla mia cena scaldata al microonde.

Onde radio si mescolano alle pustole d’alloro che circondano il pazzo che si aggira nella mia stanza mentre dormo e mi guarda e mi osserva e mi seziona come se mi conoscesse, come se fosse una parte di me.

Mi bacia e mi risveglio. M’illumino e vedo. Sciami di luci in una’arcobaleno di suoni color della cenere. Insieme ripuliamo i morti del cimitero. Finché la morte non viene a seppellire il bambino e la trinità divina.

Buon Natale toilette mia cara. Che ogni mattino accogli il putrido fiele che alberga il corpo di un pazzo.

Buon Natale a te, orifizio da cui scende un’ira molle color cenere.

Buon Natale a tutti voi, pazzi. Che sciogliete una mela nella bocca del demonio e fate sesso con un’aranciata di birra semovente.

Mi agito e scopro che il mio sonno altro non è che un insieme d’incubi e sogni agitati dalle note sgangherate di una sedia elettrica. Mi chiudo e mi rinchiudo nel caldo abbraccio delle mie lacrime che pensano a una seconda vita cullate dall’atmosfera di Marte e Venere.

Esco da una passerella fatta di angeli e plano su nuvole di smog al contrario e passo da una nuvola all’altra con le liane come tarzan e urlo un urlo agghiacciante che spezza il mio cuore e mi fa passare dal sonno alla morte.

E mentre osservo il mio funerale penso e ricordo a un tempo in chi non dormivo e sognavo di morire. E sciami di amare mosche lacrimavano in mia compagnia e di una toilette natalizia, forse un regalo di un parente pazzo.

Ora sento che la mia pazzia ride e piange e ama e lotta e siede alla destra del padre e della madre. Prego che la nonna si masturbi sul ventre di una balena rotta.

Solo così troveremo la pace nei sensi di una chitarra rock.

Cimitero rock


Un killer della memoria si sparge come olio su una farfalla araba e a occhi chiusi spira tra le fauci di Odino. Voci di ragazzi implorano il cielo per una rivoluzione silenziosa mentre gli occhi scoppiettano come fuochi artificiali. E il pubblico osanna. Osanna nell’alto del cielo. Un concerto di voci spaccano il fondo di una bottiglia mentre io scoppio a piangere. Il dolore del mondo celebra la propria gloria. Mentre il cuore scoppia di risate allegre e si consola con una palla di chewingum.

Andiamo e vinciamo al suono di una chitarra. Ma andiamo dove? Andiamo e preghiamo una poesia rock.

Evviva Bambi e Babbo Natale.  Fluida energia che scorri dalle mie mani e purifichi la mia anima come acqua benedetta. Un suono d’amore sa di cioccolato.

Rose rosse e cioccolato sono il profumo dell’amore. Un amore rock.

Divino verme che strisci sotto la terra e ti nutri d escrementi putrefatti. Sei il suono silenzioso della natura che lacrima e vive. Tu mangi i morti e vieni mangiato dalle piante che ci nutrono. Senza di te non ci sarei io. Non posso non amarti, anche se mi fai oggettivamente schifo. Ma questo è l’amore. Sangue di lacrime riflesse sull’acqua.

Cimici che scorrono in un pozzo di petrolio che canta un inno nazionale della nazionale di calcio. Forse un giorno potremmo urlare di nuovo Forza Italia.

Al grido di un osanna che ritma una musica tecno io vi saluto vermi della terra che leggete queste divine stronzate e viaggiate con me nei meandri della pazzia.

E ridete piangete e godete e morite e vivete. Nell’immenso gioco di un verme. Col silenzio di un blues balla dentro di noi e ride. Come un pazzo che ci mangia il cervello a uso e consumo del dio dell’infinito. Bevo vino e schiaccio pesci con i piedi.

E mi curo con il ghiaccio dei sensi.

Ed ecco che la luce divina soffoca l’immensità del corno di un rinoceronte alla carica.

Mentre lo guardo mi domando come mai i programmi televisivi della fine del mondo sono finiti. In fondo, chi non si è addormentato la sera prima con quel dubbio solleticante che chissà, forse forse, non si sa mai, e se fosse vero? E se fosse per domani. Perché un giorno la morte arriverà. Ridendo come una pazza. Ma arriverà. E allora siamo, pazzi. Siamo, quello che siamo. E basta. Solo così potremo fregarla. Diventando più pazzi di lei. E di quel verme che mangia. Che ci mangia. E che ci caga. Escrementi di verme siamo. Merda di verme ritorneremo. Ridendo. Sotto la pioggia di un cimitero.

Benvenuti nel delirio.

Benvenuti nel sospiro di un alito di birra.

I flussi infausti delle cimici allegre


Mi alzo e vado a zonzo nei deliri dei miei pensieri e trovo Gioplano. Un biplano giocattolo dell’epoca dei nonni aviatori allo sbaraglio. Tra i giocattoli del solaio. Pulito e perfettamente pronto a volare.

Non vola finché non ci sono montato sopra. È un simpaticone. Non occorre neanche il telecomando. Basta parlargli e non raccontargli barzellette altrimenti perde quota  come un sasso. Diventiamo amici planando tra le farfalle e i pollini striati di fiori che cantano inni in cori gregoriani.

Un’atmosfera natalizia ci circonda e i pinguini ci salutano. Sono venuti a cercare Madagascar ma nel frattempo si godono la vacanza marina e pescano sardine al supermercato. C’immergiamo in oceano e scopriamo una città piena di smog e piante tropicali.

Mi violento. Sì da solo. Su un letto d’alghe. È stato bellissimo. Ma come faccio a denunciarmi?

Un gettito d’aria calda mi riporta allo sviluppo costernato di pacchetti aerei che sto stampando fuliggine in un corriere postale. Una foto di biplano mi avviluppa nelle sue spire dato che mi era cascato addosso il poster gigante attaccato a una parete.

Scrivo a occhi chiusi tra il sotto e la morte, mentre le parole sgocciolano dal mio rubinetto scintillante di perle colorate e i miei piedi battono sul costume dei pirati una scopa e tressette ululati in piena prateria.

Ecco il grande Morfeo che viene a prendesi ciò che gli appartiene e mi porta con lui, una volta per tutta, spero.

Ammazzando il tempo


Delirando si pescano pezzi di assurdità.

Delirando si posticipa l’assalto alla baraonda di una sciarpa del Milan.

Scendo i gradini dell’inferno in una casamatta di autenticità pura.

Semplicemente mi distendo nella graticola della speranza di una pozzanghera di orsi verniciati di rosso porpora.

Suggello pertanto la nostra dichiarazione d’amore e liscio il velluto grigio dei marinai contorti e targati di nero femmina. Entro nei meandri del teschio di ferro e vedo colori di merluzzo andato a male fosforescenti di una puzza che ricorda un pugno in un occhio, ma all’interno dello stomaco.

Puzza di morte. Si direbbe E un orologio scandisce il tempo restante nel conto alla rovescia di padri e figli che giocano a tressette e imparano a barare nelle regole della vita.

Un destino glorioso prende il sopravvento nelle fasce dell’adolescenza ritmata da tamburi africani che battono su teste di teschi un ritmo primordiale di musica techno che si propaga nella savana deliziosa al gusto di stambecco al forno.

Odo e godo in un’eiaculazione precocemente masturbata che le viscere della terra si lecchino i baffi e facciano godere anche un setaccio di miniere d’oro. Dubito che la forma della filosofia scoppiettante si decida ad andare di corpo in tempi brevi e il culto di pietra si spacca in una risata a crepapelle. Eliminiamo le barbabietole dal corpo e depiliamoci di questi fastidiosi insetti che cantano in coro gli inni al cielo azzurro e violetto.

Enrica guardava uno scontrino fiscale mentre un singulto del volto ne accese una parte e bruciò il supermercato senza volere. Un prurito all’interno dello stomaco. Cercava di grattarsi, ma come si fa. Si massaggiava come una forsennata nel parcheggio del supermercato sotto lo sguardo attonito dei parcheggianti di cui uno si offrì di farle passare il prurito e le tirò un cazzotto che la mandò in apnea per dieci minuti. Ma funzionò.

Lui le offrì una cena e lei all’inizio voleva rifiutare perché non si era depilata ma poi decise che nel frigo non c’era niente e non aveva soldi per il supermercato, quindi accettò. Il lupo mannaro si aggirava in quei luoghi benedetti e durante la cena ne approfitto per sventrare una vetrina e assorbire più carne cotta possibile attraverso i pori e i peli. Mise le fauci al servizio di sua maestà e servì ai tavoli dei due futuri sposi un cuoco al forno con tanto di baffi e li costrinse a mangiarlo tutto.

Il cuoco pesava ottantanove chili, ma senza scheletro, pelle, frattaglie e sangue si trattava giusto di dieci chili di carne pura. Enrica si lamentò del fatto che sapeva di fumo, ma Piergigi decise che gli dava un certo non so che valeva la pena. Anche Lupo Mannaro si sedette e tra un assaggio e l’altro fu proprio quello che se ne mangiò la maggior parte.

 Enrica decise che il personaggio era sexy, forse conquistata dal fetore delle ascelle che assomigliava a quel prurito nello stomaco e in breve finì tra le braccia e le fauci di un bestione di  due metri e mezzo, ma passò la notte più stupenda della sua breve vita, anche perché non sopravvisse alla devastazione e morì dissanguata in mezzo al parcheggio di un supermercato, bruciato.

 Morì in una pozza di sangue blu che il lupo leccò fino all’ultima goccia e le succhiò quello che non uscì da solo. Pesava ottantanove chili, ma senza sangue e scheletro e pelle, alla fine il lupo ne mangiò giusto giusto una decina di chili.

Andamento lento


Il ramo pitarro fa una sega alla scopa benedetta mentre prega per la pace dell’anima sua. Vedo un lampione suburbano che naviga bellamente sulle strade di new york e canta le lodi del signore.

Nell’anno duemila dodici si sperava che la fine del mondo portasse almeno ad una eliminazione degli stronzi, invece manco quello.

Mina si suicidava un po’ tutti i giorni tramite l’uso eccessivo delle sigarette e voleva disperatamente morire e cinquant’anni, ma non ci fu verso, e diventò centenaria, quando smise, morì.

Ernesto si masturba davanti ad una colonna in piazza centrale, sotto la cattedrale, mentre il generale a cavallo lo guarda a bocca aperta, lo lascia finire e lo arresta.

Pedalo in una bicicletta d’oro, la quale lentamente comincia a sciogliersi al sole finché non diventa burro e io la lecco sull’asfalto.

Mi addormento lentamente mentre i miei piedi scoppiano caldamente in una ciminiera accesa che scarica bitume diventando olio di frittura.

Leggera leggera


Un orso di nome e di faccia. Uno e sessanta per settantotto chili. Un portamento barcollante da dromedario zoppo. E una faccia da mastino con una pettinatura da frate su capelli nerissimi. Vestiva sempre di nero funereo. Adele si aggirava tra i corridoi aziendali come un tapiro col raffreddore e ti guardava con i suoi occhi a palla da pesce palla comunicandoti il brutto persino con gli occhi. Non era una bella dentro, no. Era brutta anche dentro. Che non sapevi se era più brutta dentro o fuori.

Comunque, se anche non c’era niente di bello o armonico, si poteva dire che l’intelligenza era pure peggio dato che qualsiasi cosa le spiegavi la richiedeva ad almeno altre quattro persone perché non si fidava e poi non l’aveva capita lo stesso. In compenso aveva una voce, ma una voce tipo il gesso nuovo sulla lavagna prima di spezzarlo in due.

Quand’era al telefono urlava, che la gente chiudeva le porte per poter lavorare.

Siccome non capiva un cazzo, a un certo punto, aveva preso a ridere qualsiasi cosa le dicevi. Tipo anche a un “bella giornata oggi” rispondeva già con un risolino come se avessi fatto una battuta sul direttore.

Quando la vidi per la prima volta nell’ufficio di un ottimo collega con cui scherzavo spesso e lavoravo benissimo, capii al volo con un sguardo che roba gli avevano rifilato. Una di quelle cose che ti suicidi anche solo ad avercela davanti tutta la giornata senza sapere quando te la toglieranno dai piedi.

Per due anni se l’è pappata. Stoico. Avrebbe meritato tre promozioni e una medaglia sul campo solo per quello.

Io non ce l’avrei mai fatta senza entrare in analisi o andarmi a confessare tutti i giorni. O bermi l’impossibile o commettere spropositi in ufficio.

È madre di una bambina di nove anni. Qualcuno, chi sa dove, chi sa quando, chissà in quali condizioni, l’ha messa incinta, per poi sparire. Questo è stato uno dei grandi misteri dell’ufficio. Sarà stato il conte Dracula?

Ma è una abituata alla lotta dura e non aveva rinunciato al grande amore anche se, biologicamente parlando, nessuno avrebbe scommesso che l’avrebbe trovato nella sua stessa specie.

Invece, poche settimane fa, la incrocio con uno che mi presenta come il suo compagno.

Aveva due occhi, due braccia e due gambe e mi ha stretto la mano mentre lo osservavo come si osserva un alieno sotto mentite spoglie, e, in fondo, chi mi dice che non lo sia.

In fondo, che ne sappiamo. Il momento clou è stato quando si sono salutati con un bacio sulle labbra, proprio lì, davanti a me.

È un momento che non dimenticherò più.

Penso che un giorno, da vecchio, non sarò più sicuro che sarà successo sul serio e incolperò il fatto che ormai la testa “non c’è più”.

Li ho salutati ipnotizzato e mi sono avviato per la mia strada a bocca aperta e gli occhi per aria, camminando barcollante come un dromedario zoppo.

Margherita


Il suo cognome faceva “ghiaccio” in una lingua e “tricheco” in un’altra. Di nome faceva Margherita. In pratica era una foca semovente, bionda e ingobbita. La faccia ovale, con occhi ovali a bolla e a trent’anni ne dimostrava 90 o 150 era uguale.

Un’età fissa in un tempo immobile.

Rassegnata e non contenta a non opporre resistenza all’esistenza e a vincere la vita con la tattica camaleontica dell’acqua che diventa nera prima ancora di sporcarsi.

Margherita si guardava allo specchio la mattina appena alzata solo per prendere atto di una faccia nata vecchia e che non poteva permettersi il lusso di ammettere di odiare.

Muovendosi in maniera fantasmatica cercava di vegetare dando meno fastidio possibile ai propri desideri in modo da non averne. Sapeva che non avrebbe avuto voglia di avere figli per la sfida che essi stessi rappresentano. Uomini pure. A modo suo aveva già vinto dato che non aveva più niente da perdere. Tutto quello che viene, quindi è guadagnato. Mica scema. Sorrise guardandosi allo specchio e ammirando la propria intelligenza, mentre si infilava un paio di jeans e andava a lavorare come segretaria.

L’organo a sfere deliziose


Ieri Azio si doleva della fuliggine che cadeva dal camino in un’aureola di santi e diavoli che pregano in una nuvola radioattiva mentre il loro dio si trastulla con l’infinito. Il tempo scorreva e Azio si rendeva conto che il volto etereo e allungato come una sogliola che lo caratterizzava dalla nascita si contraeva in spasmi compulsivi che gli disegnavano la faccia come una ragnatela. La sua gobba semovente si rompeva pezzo a pezzo fino a diventare una specie di cavità come un vulcano spento. “Chi se ne frega” si disse grattandosi la cistifellea mentre si ammirava allo specchio, tanto a questo punto anche le oche pregano selvaggiamente e si squamano in orge divine davanti al Campidoglio.

La nuvola


Delirando si pescano pezzi di assurdi romboidali senza fondi di caffé.

Normalmente sbattiamo contro muri di pesce che peschiamo senza farci pescare.

Inga sta passando quella linea che va dal non aver avuto uomini al pensionamento.

La pelle stava lasciandosi cadere in un vuoto pneumatico. L’occhio rotondo di un azzurro sbiadito era mal sostenuto da occhiaie di lacrime antiche. I capelli biondi e tedeschi sembravano le pagliette con le quali si tira a sorte per la più corta.

Il quadro invernale era completato dagli angoli della bocca che is lasciavano cadere verso il basso. Anche il trucco era sbiadito. Mentre la vedevo di profilo davanti a me e dopo di lei le grandi vetrate del quindicesimo piano della sala riunioni. Mentre nuvole temporalesche sfilavano come a una parata militare, espressioni della nera potenza della natura io potevo immaginarmi il peso di un inutile seno che era completamente adagiato su un reggiseno asettico, con pochi fronzoli, messo li’ senza nemmeno più l’intenzione di far vedere un seno più grosso.

Inga era un fantasma fatto persona, diafano, contro cui le nuvole si mischiavano senza percepire che la materia era più densa. Perché in fondo era già una di loro. Una nuvola in riunione. Un’effeminato fantasma senza sesso, se mai lo ha avuto o usato. M’immaginavo una vergine appassita che da giovane doveva essere stata pure carina, ma uno di quei carini senza vita. Quella morte che già adesso si porta intorno come un’aureola sbiadita.

Forse la cosa più facile è quella d’immaginarla nella sua posizione naturale nella bara. Là dove non deve più confrontarsi con la densità della vita

Lasciva


Masserizie si comunicano dell’assolutezza della balena bianca che ride insieme alla luna degli orbitali contenti di avere un’ancora di salvataggio in un mondo osceno. Enrico si guarda allo specchio e canta “Bandiera bianca”.

Si guarda il viso piccolo con occhi da serpente, sormontati da un’enorme stempiata in cui le orecchie fanno da paravento. Un naso aquilino completa il quadro alieno e magnetico. Finisce di darsi lo smalto alle unghie. Si mette i reggicalze e va al lavoro per ripulirsi di una giornata d’ufficio interminabile.

Mentre si dà il rossetto e si aggiusta la parrucca biondo platino, si carica d’oro e si lascia molleggiare le dita in nuvole di metallo argentati.

Fluttuante, nella barbarie del mondo sui suoi tacchi rossi e spillo, fatti per essere leccati. Fatti per far urlare di piacere gli stormi d’avvoltoi che lo blandiscono con mille grazie e mille denari. Era la più richiesta del quartiere.

Si faceva chiamare Mille e una notte visto che costava mille euro per una notte, ma una notte con lui, ne valeva mille.

Di giorno era il rag. Enrico Angelini, stimato commercialista delle più note società della regione. Aveva due appartamenti e due vite. Quando lavorava di notte arrivava in ufficio di pomeriggio e per la moglie era in viaggio d’affari.

Se lo scoprivano mollava lo studio e lavorava solo di notte. In tempi di crisi meglio due lavori che uno solo.

Puddu


Nella selva della città di Dio s’insinuava un segugio affettato da mille azalee petulanti.

In questo contesto Puddu si aggirava bighellonando vicino ad una barricata di uomini armati.

Andava in cerca di puledre fresche cui far bere il sol dell’avvenire.

Puddu si aggirava dopo la mezzanotte avvolto in un mantello a pois giallo e nero. Entrava nei pub più alcolici della capitale dell’impero. Osservava gli esemplari di femmine. Ne puntava uno e lo ubriacava. Lo portava nella sua tana e le trattava come le pecore di casa sua. E le riportava a casa prima che potessero essere coscienti.

Ma il problema era la sua sete insaziabile di alcol e il suo pene in perenne erezione che gl’impediva di dormire più di due o tre ore. Poi doveva ricominciare. Come un vampiro.

Il gatto con gli stivali?


Un gatto siamese si stende tra le stelle e si liscia i lunghi capelli da hippy.

Era Ontario: il gatto OGM di miei vicini che l’avevano raccolto dal porto dei Servi dell’Ancora Galleggiante.

S’era perso dopo che l’avevano scaricato in mare insieme ai rifiuti di noci di cocco. Arrivato a riva a forza di zampe, il prete della Parrocchia di Cristo Lungimirante lo regalò a de poveri cristi. Ed eccolo qui. Biondo, occhi azzurri, una coda a forma di parallelepipedo e zampe che volendo, possono girare di 360 gradi e fare da elica permettendogli di gareggiare con qualsiasi barca a vela.

Riuscivo sempre a batterlo  scacchi, ma mai a poker e sapeva recitare a memoria i primi tredici canti dell’Inferno.

Eravamo diventati amici perché io lo consideravo intelligente per essere un gatto e lui mi considerava simpatico per essere un umano. Mia sorella lo trovava persino sexy e, col fatto che era un gatto, nessuno ci trovava niente da ridire sul fatto che ci dormisse insieme. Solo che nessuno aveva mai visto il cetriolo che gli veniva in mezzo alle zampe quando la guardava o parlava di lei.

Io sono uno che vive e lascia vivere e non lo raccontavo a nessuno, almeno per ora.

Una fosca frattaglia di fottutissime fanfare


 

La fresca solitudine di un pollo che fu. Il salto dell’oca si gira e rigira e fornica al veder tramontare il vino dell’avvenire. Sbadigliando si siede e lecca il pianoforte di frattaglie di gibbuti.

Una verve letteraria, non c’è che dire.

La s.ra Maria si concesse una pausa poetica con una carota gigante che le ricordava da vicino la parte migliore del suo defunto marito e lo commemorò a modo suo con la certezza che anche a lui sarebbe piaciuto così.

Condimento piccante alla cena di oggi, con commensali di riguardo che mangeranno senza sosta pinoli all’aceto di St Hubert e pappardelle di cocco e cetriolini bergamaschi. Fu lì che una mucca di risate partorì in ammollo al centro del tavolo imbandito mentre il decoro si stagliava all’orizzonte di tramontana.

Il piacere del cane


Sotto la notte va la ronda del piacere, al suono del pianoforte sterza in un’autostrada di pongo. Il giorno si scioglie lentamente e si lascia spalmare insieme alla panna montata. Così mi si definisce la mattinata di un personaggio storto. Albino si chiama. Come una vernice bianca, si chiama. Come le sue mani. Dalla nascita c’ha mani bianche come il grasso di maiale. Perché così era piaciuto a me. E ora si alza dalla sua branda, si mette la sua divisa e incomincia una normale giornata di perlustrazione e combattimento, come un soldatino. E indossa mutande a pois. Controlla muscoli e capelli. Si rade il suo bel viso di pongo, barba ne ha proprio poca, ma si taglia, e si ripara con un po’ di carta igienica.

Le sue mani bianche si sono sporcate di sangue e il sangue, il suo, non gli è mai piaciuto. Fa freddo in caserma.

Fa freddo e puzza. Fa freddo, puzza e fa pure schifo. Grigio metallica.

Fa freddo, puzza, fa schifo, ma in compenso c’è un paio di stronzi che sparano heavy metal a tutta birra per svegliarsi meglio. Non c’è modo di farli smettere. Oggi Albino non c’ha coglioni da starsi a sorbire ‘sta merda.

Oggi combatterà e sparerà come ieri e come domani e forse oggi toccherà a lui. Se l’è sognato e i suoi sogni, quelle poche volte, ci hanno sempre preso. I due stronzi hanno aumentato il volume e la gente deve urlare per parlarsi. Sono le sei di mattina in un cielo di nuvole basse ad altezza uomo che sembrano blocchi di ghiaccio pronti a schiacciarli se la temperatura si abbassa ancora un poco.

Si guarda le mani. Gli sono sempre piaciute. Specie quando è abbronzato. Ora quelle belle mani che hanno sempre suonato il pianoforte a casa le avrebbe lasciate andare per conto loro. Ora le sue mani agivano in nome e per conto dei suoi timpani. Ora le sue mani sparavano, sparavano e ancora. Quattordici colpi di pistola avevano ridotto ipod e stereo a un grumo di transistor e vetri. E soprattutto le sue mani erano ancora pulite.

Odi l’odio d’Odino


Ode alla lirica. Nello stato di vano vacuo nel quale Ammannia vive una vita silenziosamente un grido fugace si staglia contro una carotide innocente.

Vagheggia nel vago pensiero di una stella cadente sul suolo natio. E fugge. Fugge e rifugge lontanamente accecata dal ricordo dell’angoscia disperata di una bambina mutilata di capelli sinuosi come serpenti.

Si strappa parrucche e vesti sottili come l’occhio d’un gatto e corre nell’autostrada della vita e della morte. Contro un pianeta che guarda la notte con un occhio solo.

La sua vita fugace e verace prosegue per poco e un condor insozzato di nero la rapisce per portarla in un sudicio pendio per approvvigionarsi.

I sogni rinvengono alla memoria di una sonnambula e evaporano come una bistecca al sole d’agosto e la testa le gira dalla fame. Si alza prende una penna e scrive e scrive e scrive…

Ho un crampo


L’Esculapio anchilosato nell’antro di un folle che riempie di mazzi di rose e orologi d’oro purissimo. Sergio si fucila un dito con la sirena della polizia e grida a crepapelle “Che male il pollo per un dito”.

E così il sole si staglia, il sole tramonta nel ruvido cielo agostano in un’isola della pianura padana tra sterchi di vacche e spighe dorate. Sergio si guarda. Il viso abbronzato riflesso in una palude tra rane e zanzare. Vedo due occhi piccoli come girini con in mezzo un ciuffo biondo platino che sembra un pezzo di vernice dorata. Si guarda il dito monco e se lo ficca nel…naso.

Fare footing al parco…


Lo sfregio del corvo aleggia durante il fine settimana rompendo uova e finestre.

Il candido calore di una linfa scuote una matrona stupita alla finestra sul cortile di una casa ottocentesca che lascivamente si lascia cadere sotto i raggi di un sole passionale.

È primavera e i germogli di canguro nano hanno un colore sanguigno nell’aiuola di casa mia e non vedo l’ora di metterne qualcuno nel mio frullato mattutino.

Ascolto l’Aida che scorre nelle vene del mio termosifone di sangue blu.

Mentre raccolgo pomodori bellici dallo scroto di un cavallo da circo la vecchia matrona si masturba e cade dalla finestra, si spappola sul cancello appuntito e…