Ma in fondo, perché?


Giro e rigiro in una fattura rigirata di metalli dorati in mezzo a due soli splendenti mi tolgo la faccia e la espongo in una pubblicità di Mc Donald. Così è più bella. Così è più figa. Quindi mi tolgo il cappello e mostro una faccia barbuta a torso nudo, depilato e tatuato con una bottiglia di ketchup. Che sorride con una faccia da schiaffi. Il nostro mostro quotidiano ci impone una battaglia per le patatine fritte che sguazzano nello sperma bollente.
È così che scende la rugiada sul mio cuore fallito. È così che urlano le capinere quando migrano da un pene all’altro e non riuniscono lo zucchero di un complimento con le pinne di un delfino che non serve a niente. Faccio la lavatrice.
È il bello di una rasatura perfetta. Che la lama possa fare un taglio perfetto sulla gola di uno scoiattolo e lasciare vivo un assassino. È il bello di un esperimento alieno su popolazioni di scimmie che ora esplorano lo spazio e cercano i loro creatori. Ma cos’è l’anima. È quello che siamo quando siamo ubriachi o fumati. Il resto è sterco di vacca. E va in paradiso in mezzo ai martiri di Inshallah (ma come diavolo si scrive?).
Quindi cosa dobbiamo fare oggi per guadagnarci il nostro pane quotidiano? Mangiare aria e respirare oggetti di metallo che ci guardano con il termometro in mano. Giocando a tressette col morto mentre cercano la cassa con il tesoro del pirata Filippo.
Un cane abbaia, il sipario si chiude, mentre la cagna giace al suolo in una pozza di sangue e nel fondo si sente l’ululare di un lupo di montagna che ha avuto il suo tributo.

Delirio pazzo


Paco azzurro sceglie i feromoni della galassia rinomata da un vino spumante doc che resuscita i morti dopo la fine del mondo. Uno stappo nucleare rimette i cordoni della borsa in una situazione analogica senza saper usare l’informatica correttamente. Un parlo mi tarla la cervice e mangia l’insalata delle mie sinapsi croniche mentre ragni escono dalle orecchie e devitalizzano i nervi ottici il cui liquido seminale è succhiato da vampire orride che segnalano il fruscio dell’onda dissanguata tra un cestello di vimini e un Viminale stampato in fronte alle ghiandole surrenali.
Pazzamente pazzo il delirio si spalma su una zolletta di zucchero oleoso. Una canna traduce gli effetti del gracile Minotauro che stura le orecchie da un’allegra banda bassotti. Il riso allegro di una banda di serpenti bambini rinvigorisce il clavicembalo di sarde aggrappate al canotto di salvataggio di un’elica municipale che associa pazzia e accattonaggio. Mentre il sonno cala. E la pensione diminuisce di valore. Ma la ripresa è dietro l’angolo, che aspetta e aspira, mangia e ride come un maiale e come un maiale alla fine diventerà salsicce alla griglia.
Una capretta s’immagina di volare nel cielo di un cardigan di lana di capra che la porterà dritta fino allo spazio siderale là dove un’astronave l’aspetta a pranzo. Per diventare l’agnello sacrificale che urina sui peccati del mondo.
Il pesce si asfissia abbronzandosi al sole cocente.

La dama delle famelie – parte due


La cosa non va per il verso giusto. Avrebbe voluto una cosa serena e civile, e invece le usciva solo voglia di uccidere. Proviamo a calmarci, pensa, facendo anche una pausa di silenzio.
Lui continua a riempirsi il palato con zucchero imburrato di cacao quasi a digerire in una nuvola di dolcezza qualsiasi cosa gli venga lanciato.
“Non voglio più stare con te” “Perché?” fa bevendosi una birra come se gli avesse raccontato l’ultima notizia del telegiornale. “Perché te l’ho detto e perché …” “Perché…?” “…p-p-puzzi” “Puzzo?” “Sì, sì. Puzzi. Sì puzzi. Come una capra puzzi, non ti si sta vicino quando parli, puzzi di ascelle, di aglio, di birra, di fumo accumulato da anni nei capelli e nei vestiti, la tua pelle puzza e non parliamo del fatto che scoreggi allegramente facendo sesso” “E ti dà fastidio?” “No, non è fastidio, è agghiacciante. La metà delle volte mi tocca di fingerlo l’orgasmo, perché tanto so che non vengo più e mi chiedo se la prossima volta riuscirò ad abituarmi. Non ti sei mai chiesto perché non esco mai con te in compagnia?” “Vuoi stare con me da sola, no?” “No, no, anzi, no. È solo perché nessuna delle mie amiche resiste alla tua presenza. Dopo che sono stata con te devo andare a casa a farmi una doccia e lavarmi anche i capelli prima di poter vedere qualcun altro” “Vedi qualcun altro?” “Cosa c’entra” “C’entra visto che lo tiri fuori tu e che invece di dire di no subito cerchi di prendere tempo” “No, nel senso ‘altri’, ma no, sì, sì, vedo anche qualcun altro, tanto vale che ti dica tutto, tanto avevo già deciso di farla finita e ho cominciato a vedermi con qualcun altro, uscire e basta, s’intende…” “S’intende” “…ma mi piace e mi ha fatto pensare che …” “Che?” “Che esistono altri uomini al di fuori di te, del tuo basket, del tuo mondo delle foto e dei ranocchi e rettili che fanno schifo. Insomma non ti sopporto più. Hai capito?” “Ho capito, non c’è bisogno che alzi la voce”
“Io voglio un uomo che ci sia non che abbia mille cose da fare, che pensi a me, che posso sentire vicino, che ci sia quand’ho bisogno di lui, uno che posso presentare alle mie amiche e con cui uscire in società e che non pensi solo a due o tre cose e basta e solo a se stesso e io a fare solo quello che vuole lui, tra cui il sesso” “Il sesso?” “Sì ne ho abbastanza di farlo tre volte al giorno, è troppo, sembra un lavoro” “Mi sembrava che non ti dispiacesse” “Sì, no, all’inizio era bello, ma così è troppo, voglio qualcuno che abbia il giusto equilibrio nelle cose e che mi ascolti e che sia interessato a quello che faccio io o di cui parlo io” “Sono interessato, quelle poche volte che ne parli. Se non parli, non so cosa farci. Penso che ti faccia piacere ascoltarmi o le cose che faccio e così vado avanti. Se tu non ti mostri non posso certo farlo io per te” “Sì va bene ma…” non so cos’aggiungere “E poi non capisco perché tutte ‘ste cose non me le hai dette prima” “Prima? No, non volevo rompere una bella emozione. Ero innamorata e anche tu. E non volevo rovinare tutto arrabbiandomi per una cosa o per l’altra” “Capisco e lo fai tutto in una volta quand’è troppo tardi. Credi che sia più costruttivo?” “N-n-no, ma oramai” “Appunto oramai. Voglio dire se mi dicevi prima che puzzavo, ok, non sarà piacevole, ma la soluzione non è difficile, mi lavo e punto, problema risolto” “Sì, in effetti” “Invece di farlo montare come la panna” “…” “E se mi dicevi una cosa dopo l’altra anche quelle si risolvevano. Sono un essere umano. Ogni tanto ho bisogno di spiegazioni” “Ma te le ho spiegate” “Ma non in modo da farmele capire. Voglio dire se vedi che non ho capito, puoi rispiegare. Anche urlare è permesso, non ne esco con un trauma infantile. Non è che lanci una parolina lì e uno deve essere telepatico” mi metto a giocherellare con il cucchiaino da caffè “E poi c’è un’altra cosa. In tutto questo mi piacerebbe sapere dove sono io” “Come sarebbe tu? Il problema è proprio che non ci sei altro che tu” “No, qui non ci sei altro che tu, che la tua check list, e le tue esigenze di come dev’essere un uomo. Ti sei chiesta se anche io voglio una donna in un certo modo? Che forse anch’io ho bisogno di una donna che sia lì per me, per darmi una mano. Sembra che ci sei solo tu e le tue esigenze e stai solo mettendo delle crocette se soddisfo o no le tue esigenze” “…” “Forse tu non lo sai. Non è che lo pubblicizzo in giro eh. Ma io chiedo spesso se vado bene per te, se non ti faccio perdere tempo. Se una cosa ti piace o no, e da quello che mi dici adesso no, ma se mi pare che ti piaccia, tipo il sesso, cerco di dartene più possibile, e adesso imparo che era tutta una commedia. Per esempio” “…” “E poi mi chiedo che se questa storia finisce, se avrai un bel ricordo oppure se magari non finisce, se sarò giusto per la tua vita. Non te lo dico tutti i giorni eh. Anzi mai. Ma me lo chiedo, mentre da quello che mi dici tu non te lo poni neanche per sogno”. Silenzio. Un silenzio tanto lungo quanto assordante che devo interrompere con qualche balbettamento “Beh, non ci avevo pensato e adesso che me lo dici…” ma oramai è lanciato e non mi caga neanche “Io per esempio voglio una donna che parli subito, chiaro e relax invece di portare le cose ad un punto di non ritorno. E voglio una donna che si chieda che esigenze ho io e se può fare qualcosa per me. Ovvio che si fa un compromesso. Ma mi pare che tu sia entrata nel mio mondo per vedere se andava bene per te. Hai deciso che no. E adesso mi dici ciao” “Ecco…” “E pretenderesti pure che la responsabilità della cosa sia mia” “No, non pretendo che la responsabilità, cioè…Scusa…” faccio abbassando gli occhi e chiedendomi se potrei suicidarmi infilandomi un cucchiaino nello stomaco “…non pensavo…che…ecco, scusa, sì forse ho sbagliato e non mi sono resa conto…che pensavo, che non ho pensato a…cioè mi sembrava di pensarti e che invece tu no, e …oddio scusa”.
Silenzio. Se il silenzio può uccidere ti prego fallo ora, sì proprio in questo istante e preferisco anche affrontare il diavolo piuttosto gli occhi di questo che mi fissa e che mi fa sentire, beh, non ci sono nemmeno parole, no, neanche quella, per dire quanto mi senta un escremento dell’escremento. “E adesso, come rimaniamo?” “Rimaniamo che paghiamo il conto e ce ne andiamo. Cameriera?” “Sì, fanno 11 euro e cinquanta” “Tenga il resto” “Grazie” “Prego. Comunque la torta era uno schifo”

Un ganglio insorge nella navetta del piede arricciato


Nel tempo di Natale scende la pioggia dalle nevi del Kilimangiaro e un cecchino nero spara all’orizzonte senza sapere che un risotto gli cadrà sulla testa. Mi piego e mi spezzo sull’altare di un pasticciere gay. Uno sparo nel vuoto di un deserto di pietra. Riecheggia l’eco di una musica punk. Un violino si diverte a nitrire e una preghiera ne semina il cuore in tutta la valle. Ereditiamo una follia con lo sconto sulla quantità e un manipolo d’indiani d’america controlla la valle. Al suono del tamburo riflettono la luce di un libro di 36 zollette di zucchero. Quindi invitiamo il presidente degli italiani in una mangiatoia nel fienile di un casinò. Che fischietta dipingendosi la stanza rococò. Una pungente atmosfera di api scivola via nelle mie vene infettose e gongola obesamente tra le palle di Giuda per una piccola palla di pelo che sa di frutta candita. Un immenso rutto di maiale esala l’ultimo respiro nelle viscere della carrozza del principe Pavone.

Attimi persi


Mettere un piede in fallo non vuol dire sempre sbagliare, così Irina pensò mentre schiacciava il pene del marito con la punta del piede. E l’erezione mica diminuiva, anzi. Gli passò il piede tra i testicoli accarezzandoli e schiacciandoli leggermente. Lì sì che poteva fargli male. Lì sì che poteva vendicarsi, ma quello era amore, non odio. Era potere, non solo amore. Era tutta una vita in un solo gesto. Tanto odio accumulato e tanto amore stuzzicato. Mentre lo baciava in bocca e sentiva la sua lingua ruvida come il tronco di un albero sentiva che doveva fidarsi ancora una volta, doveva darsi e ricevere e riceverlo, un uomo, quell’uomo, il suo uomo.
Dopo dieci anni di matrimonio erano ancora lì, a cercarsi senza trovarsi in un’esplorazione di attimo in attimo. Attimi persi nel conoscere troppo bene, o troppo male, il corpo dell’altro.
Mentre la baciava ed era invasa da un odore d’aghi di pino, insieme al caffé nero che lui beveva a litri, lei sentiva che era come se ancora non sapesse come e dove toccarla. Soprattutto come. E quando. E in fondo non avesse la voglia di ricominciare a cercarla per conoscere la nuova Irina, non quella di dieci anni fa.
Anche, ora, mentre la stava colpendo da dentro dolcemente, troppo lentamente. Imbecille, hai paura di rompermi? Ma non glielo diceva, da dieci anni non glielo diceva. Perché in fondo lei aveva paura di rompersi e allora preferiva, (oppure no?) quella fiammella che le invadeva dolcemente lo stomaco e il ventre, piuttosto che una vampata incontrollabile che poteva lasciarla in lacrime e con il corpo che sussultava per ore come un epilettico.
E allora, sì, ti amo, zucchero caro, accarezzami, sì, baciami lì, dietro l’orecchio, come fai sempre, quando stai per venire e mordimi il collo, così, senza troppi complimenti, più forte magari, e come te lo spiego che anche stavolta sto fingendo, ma che mi piace anche così, con te. Come te lo spiego che voglio che tra noi sia tutto vero, ma che ho una paura fottuta che lo sia, come te?
E allora vieni, caro, vieni così, convinto di avermi posseduta. Ma domani, no, domani dobbiamo parlare, un giorno ne parleremo e capiremo come siamo finiti così lontani. Eravamo così vicini, prima, o pensavamo di esserlo. E gli orgasmi, sì, quelli mi portavano lontano, tra le stelle che mi sembrava che ci osservassero. Ora baciami e addormentati su di me e io mi adagerò dentro il tuo cuore.

Pane e vino


Dolce miele che scendi. Dalla finestra di una zucca gigante fotografo le tue gocce memorabili. Una pioggia di sensualità che vede Filomena sognante e appoggiata col gomito alla finestra. Capelli castani, corti con i boccoli e occhi grandi e sognanti che occupano un terzo del viso lasciando uno spaziettino al naso e un posto decente alla bocca per un bel sorriso di denti bianchi come la sua verginità. Seduta a cucire pensava a chi invitare per il pranzo di domani tra cui Roberto Ascagni il cugino di una duchessa che aveva incontrato un mese prima e con cui era già uscita diverse volte. Mandandolo regolarmente in bianco e più lo mandava in bianco più lui insisteva. Non le ci voleva un gran sforzo per dargli picche tutte le volte. Simpatico, ma più basso di lei, e con una testa ovale occhi piccoli e un riporto a forma di Girella Motta. Vestiva sempre di nero con cravatta nera su camicia bianca e parlava troppo forbito per i suoi gusti, anche se lei finiva sempre per ridere più di lui che delle sue battute. L’avrebbe invitato, e poi chi vivrà vedrà. Scese in giardino a raccogliere la pentola con il miele che era caduto dal cielo. Sì perché da quelle parti il miele pioveva sul serio. Ed era un casino perché quando spuntava il sole che verso mezzogiorno diventava cocente, finiva per caramellizzare lo zucchero e quindi tutta la casa e i tetti e le bestie in giardino e pure le piante. Insomma una tragedia.

To be continued (forse).