Justine


Una notte stellata mi circoncide attorno a un circo di capinere che mi parlano un linguaggio watusso e saltano da un ufficio all’altro per gabbie elettroniche che rispondono al nome di bit. Sparo a uccelli di manzo argentato e mi masturbo pensando alle rogne di Calcutta. Lebbrosi masticano chewingum acetato. Una bolla di sapone si sfrega contro una vagina epilettica e gusta il succo di limone di vacca boia. Mi strizzo il pene per guadagnare un tozzo di pane per guardare dalla finestra Justine. Sono Justine De Sade e vengo dal fornaio per mungere la moglie in cambio di due cornetti alla crema.

Prego la santa saporita perché mi dia la forza di far fiorire petali d’argento da culi di stronzi. Ma non sarà facile, perché? Una ruota di scorza mi pone l’ardua sentenza tra una jeep cherokee e un indiano pelato che suona l’arpa e il mandolino acerbo. Elisa si bene una frutta sciroppata, uno schifo di stufato che si agita nel suo stomaco peloso di zitella ripiena di kebab. Essa soffia e stuffa come uno stantuffo suonato in pieno oceano mare che recita una poesia di comodo per evaporare decine di miliardi di interessi sul debito.

Mi impicco come un derivato sfittico e m’inginocchi davanti a una banca centrale egiziana che sforna piccoli dinosauri sull’altare dell’unione mondiale delle scorze di limone e getto un tappeto in direzione della Mecca in cambio di due cammelli.

L’ira del delirio.


L’ira del delirio è una vacca boia che si accoppia con dodici fatiche e pesa un catetere pieno di carne e vene varicose. Il pianto del delirio è diverso. Seducente e incazzato. Ti violenta con debolezza. Ti ama e non ti succhia. Ma erode l’anima di lucida droga che penetra i capezzoli tra fumi di sperma ipocondriaco e larghe intese.

Ma non è una cosa seria. È una cosa dovizia. Una di quelle che tu pensi che sia e non è proprio. Ma fatti sentire. Che ci vediamo per una pizza. Mi faccio sentire io. Tra pesci azzurri e pescherecci targati Armani. Su cui saliamo sopra a una bicicletta sfittica per pedalare in mezzo a piogge di acidi digestivi.

Mi ritengo. Dal soffiare su una testiera di testicoli triturati con pepe e cipolla. Per una luce di lucertola che morde il freno di una Ferrari che luccica ignobile e arrogante. Con quella pelliccia che ricopre sedili e anime di locuste. Austria e Francia sedute a guardarsi nella spiaggia della costa d’Avorio in un pianeta disperso e solo nella galassia di Andromeda dove soffia un vento caldo.

E buio.

Il dipinto varesotto


Mi fa male il calcagno e soffio su un fiammifero acceso per farmi passare il mal di testa e il senso di fallimento che frana dalla montagna come un rotolo di carta igienica. La luce negli occhi di persone coraggiose si accende in una stanza poco illuminata da neon digitalizzati che restano sospesi in una nuvola di cazzate spaventose e risvegliano il sonno di un letargo orsante nel budello di una capra.
Il giudizio di un tonno si unisce al delirio di una vacca boia. E insieme costituiscono l’allegra brigata di ministri della Repubblica degli asparagi consenzienti. Al fine di arginare la diga e impedire l’assalto alla cittadella dorata in tungsteno cinese. Sabbie rare si spargono nel nostro respiro ansimante e viaggiano su treni di paglia fritta da dove il Commodoro si sollazza la frutta del glande spremendo e vaporando.
Una nera capinera mangia aglio crudo per riparare i denti persi da una cornacchia di pastafrolla gaudente. Mi impicco alla sedia in una sera di pan di stelle e rido al pensiero di una zia stanca che trova i nipoti nei banconi di frutta del supermercato e li compra insieme allo spermatozoo di balena per il vecchio gallo di casamatta che in una croce uncinata si sforza di espellere i pallini di sterco dalla catena dell’acqua calda.
Una preghiera rivolgo ai governanti e ai governati, che si facciano badare dalle struzze australiane per fare una finanziaria col portafoglio in mano che viene diretta alle utenze sparviere per recuperare qualche briciolo di anima putrefatta e continuare a nutrire i vampiri.