Il compagno di scuola
Bomba o non bomba mi travesto da vello dorato dopo aver sconfitto gli arcangeli che scendono e salgono nelle scale di marmellata alle prugne. In un sottofondo di urla da baccanti, Valentina si sfiora leggera e solletica la propria voglia di cantare le lodi del Signore con un orgasmo in suo onore.
Respira in una damigiana di petali di rosa nera per trasformare il mare in libellula sofferta. Quell’attimo di dolore e sapore di spremuta la porta a dipingere la faccia di una maschera veneziana in cima al monte degli dei bevendo un caffè.
Dipinge il giorno dopo un compagno di merende che mangia con la bocca dentro alla pasta ed emerge solo quando il sugo gli ha dipinto tutta la faccia fino ai capelli e non si accorge che quello è il suo sangue e che da lì a poco morirà. Ricorda quella scena e pensa che la venderà a caro prezzo.
Poi studia per il proprio esame di diritto che è domani. Si legge le domande che le ha passato stanotte il professore. Ieri le aveva allungato una mano in ufficio mentre lei pensava che non c’è ragione di fare le cose difficili quando si possono fare facili.
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Sugo di delirio
Un delirio sfugge alla costante di Heysel e volge le sue corna contro un cratere di segatura arrugginita. Mi muovo nell’incomprensione di un cavallo impazzito. I colori del cielo ballano tra presidenti di cartapesta al suono dei violini Stradivari. I colori di un videogioco si baciano i culi senza pudore di storie di pazzia rossa.
Le cheer leader applaudono orchi e draghi che giocano a carte nella cortina di ferro.
Sbadiglia. Tu. Sbadiglia. è un gioco al massacro. Sbadiglia. Di noia. E di sugo di pomodoro che esce dal petto durante un’opera lirica.
Soldi cascano da cuffie radiosferiche che nascono dai tuoi sentimenti verso il Dio delle grazie.
Ti fai la doccia per vedere l’oro colare dai neuroni dopo l’elettroshock e lotti per mantenere un pelo di dignità dovuto alla schiavitù del sale.
Il lavoro rende liberi.
Diabolik ti guarda. Devi essere cauto. Sbadiglia per addormentarlo.
Con la pazzia urinaria di una statua di un principe dei poveri.
Mi succhio l’uccello da un paio di gambe che corrono attorno a un tavolo verde che si muove sulle sue unghie. Una forza muscolosa separa i miei occhi e chiude le palpebre. Sbadiglia. Cucina. E leggi. Il delirio di un sangue fresco che digerisce un pasto copioso.
Suoni rimbalzano nella mia mente.
Venti statuette applaudono sedicenti mausolei che annunciano la fine del mondo.
Angeli sbattono le ali e covano le uova
L’ultima puntata della salsa rock in un capitello sardo
Saltano in una ragnatela i nasi di un pisello e volano sorridendo in una pentola a pressione nel sugo di lenticchie di aperitivi consigliati a freddo. Denudati in una sauna, si accapigliano con le carte da gioco e mazze da baseball.
Una partita si gioca tra le superpotenze termologiche con pesci e morene colorate di iodio sfuso, il calciatore asfittico si carica di kryptonite e sfida l’arcangelo Gabriele Moreno de la Calle, il portiere del rione di Quarridabat nella campagna spagnola.
Un inatteso fulmine carica gli elettrodi del suo cervello per un abbraccio tra i peli di una formica e la sua dentiera profumata di ascella tormentata e languida.
Un occhio imbevuto di salice piangente ritorna alle origini di dinosauri nel pleistocene improvvisando una scena teatrale con i bruciori di stomaco e i gas intestinali a fare da sfondo dell’ottava meraviglia dell’apparato digerente di Dio. Siamo in una città dei balocchi e mangiamo cacao soffritto sfuso da una roccia che lo permea come una fontana di noccioline biologiche.
E logiche. Internamente logiche. Equazioni piovigginano liquorose nelle menti di Mario psicopatico e lo fanno impazzire dalle risate in una colonna sonora di chitarre dello Sri Lanka.
In un linguaggio sforbiciato i greci iniziarono a ballare tutt’in tondo girando a destra e a sinistra scalciando di qua e di là, sempre più veloce, in un turbinio furibondo finche non cascarono tuti per terra morti, secchi, e sorridenti.
Il virus si spargeva letale come un regalo agli infelici che potevano così, morire, sì, ma ridendo a crepapelle. O crepapalle.
M’immergo in un untuoso sangue misto di primavera e pubblicizzo le doglie di una partoriente esangue.
È l’Annunciazione.