Prozac


Un lunedì delle ceneri mi ruota attorno alla testa. Un giorno da Prozac. Il santo Graal di fine ventesimo secolo insieme al Viagra. Oggi è una giornata in pillole. C’è da prendersi anche un po’ di testosterone e tutto il mix ormonale che possa metterti di buon umore, ma in fondo hai solo voglia di morire.
In una scatola di cellophane.
E quando ti chiedono quella domanda stronza “come va?” cioè “Fanculo”.
Ma voglio dire “cazzi tuoi mai?”.
Questo è il lunedì vero. Non quello che finisce su facebook con le faccione stronzamente felici, anche di lunedì, anche sotto la pioggia, anche in una gabbia elettronica.
Cazzo ridi, idiota.
Con le foto delle vacanze?
Fatti una foto ora, in questo momento con una webcam e dimmi com’è la vita.
E quando torni a casa per ridiventare umano non avrai due giorni, no, avrai qualche oretta durante la quale cucini, mangi, fai i compiti dei figli, litighi con un’eventuale moglie o compagna o marito o compagno, poi dopo di scopare se ne parla, poi vai su facebook a dire due cagate e far vedere quant’è fica la vita.
E domani di nuovo “come va?”
“Bene. Figata” mentre ti riempi la tazza di caffè facendo commenti sul culo di qualcuno, se ci sei in confidenza o su chi va su e chi va giù per le scale del “si salvi chi può”.
E allora affondiamo in fondo all’oceano mare sognando una vita migliore finché semplicemente questa non se ne sarà andata. Che faccia di palta quelli a chiamare la prossima “miglior vita”. Ci sono stati?
Io ce li manderei tutti, quelli che usano quest’espressione. Così, per farli contenti. Non occorre neanche l’eutanasia. Botta in testa e via. Lavoro pulito.
Votiamo il partito dell’amore, arruoliamoci nell’esercito di Silvio.
E conquistiamo la luna di traverso di una contabile che è diventata miss USA e che d’ora in poi sarà nella “vita migliore”.
Ha creduto in un progetto. Ed è uscita dalla merda dei “lunedì'”.

Pus di sogliola verginale in calore liquido.


Sigola partoriente di uno sperma inflitto da secoli di barba ispida che si scontra con occhi azzurri che scendono dal cielo. Forma di stelle. E di marzapane. Godi puttana essenza di un’esca torbida e vogliosa. Tradisci la tua anima e mieti vittime di polvere da speranza. Un’anima in pena. Un’anima di panna.
Voglio l’erba voglio. Una farina bianca che si aspira come un palloncino.
Vedo e non vedo. Una foglia rossa di sangue. E di sperma liquido. Evapora in mille pezzi. Davanti al fiume rosa. Di petali cadenti dalle stelle di letame appariscente. A-E-I-O-U.
E ficcano le dita su per il naso.
E I O U.
E Fondono il retto decadente in sordide minchiate. Di roba sparsa in mezzo ad un garage. Martelli pneumatici.
Pneumi e aneurismi sono sdraiati su un pezzo di sciopero. Mano tagliata che disturbi il sonno dei cadaveri. Buoni per la zuppa. Elettroshock che si scioglie come amianto liquido. Un’alchimia inseguo. Una foglia verde rame che si trasformi nel mio oro elegantemente acceso a tavola.
Aristocraticamente. Balla il rock. E impazzisce di tagliatelle in grasso d’oca e sperma di cavallo.
Un cammello insegue una tartaruga e si accoppia con lei.
Una suora esigua si masturba con un righetto e una penna a sfera a forma di croce uncinata.
Una zingara piange sulla pioggia di una finanziaria che decapita persone e miete sanguesu ebrei e zingari.
Zingari ripieni di libertà verde pisello.
Sì, certo, mi ricordo Amir, ricordo che sparavi cannonate ai nemici, da piccolo, ma ora sei grande e ora devi sparare i missili. Ora sei un uomo. Un vero soldato agli ordini del grande Godzilla. Godzilla di guarda.
Godzilla ti vuole. Prendere con sé. E tu obbedisci e lanci i missili di mais e matate. E ridi a crepapelle, mentre coinvolgi seguiti di sciami di zanzare che si muovono come ballerine drogate di sperma liquido e vaginale.
Non pensare. Non uccidere. Abbraccia una monaca fuggente. E fuggitiva.
Schioda la fantasia dalla realtà e trucida le sette capinere.
Assali il sesso di un Dio demiurgo.
E quello di un Dio bestiale che sente di appartenere ad una setta di credenti impazziti.
La tastiera si muove e sa di bomba ad orologeria. Lo sento con la lingua. Lo amo con la milza. Amami amore mio e il mio cuore di mamma si tufferà nel profondo della primavera. In mezzo a stagni liquidi. E danzerà mietendo vittime di realtà multidimensionali che non guardano il satellite dal buco di una serratura ma bensì da una cioccolata a forma di sfera arrugginita. Fu così che finì il mondo, mio caro. Dietro al sole.
I pianeti si mettono il rossetto. E adocchiano il sole dietro una cortina di stalle che sta mangiando il crack per flippare di energia cosmica e soddisfare la propria lussuria plateale. Il tutto davanti ad un pubblico gaudente che applaude e ride. Tira pomodori al sole e si scioglie in un’orgia di tuberi e patate pericolose che esplodono ad una certa ora schizzando il sangue tra piatti di pasta e uccelli del pleistocene.
Un periodo d’oro per il ragù. Fiori esplodono d’amore e tirano le funi tra miseri soldi e attrezzi da lavoro di contadini liquidi. Dosando accuratamente la fonduta al formaggio mio accorgo della difficile missione del decano della spiritualità che accondiscende alla contraddittoria allusione di Platone sulla meritocrazia delle pillole di Aragosta. Liquida. E rock. E tardo. E plop. Un plot che non ruggisce. Una stronza strada di stradivari.
Esco e non esco.
Un piatto di lupini. Liquidi.
Una grande volta storta si riempie di pus.
Al rimpianto di una storia d’amore mi reggo e mi aggrappo ad una liceale in minigonna.

Nell’antro d’un Dio.


Una pietra galattica si spreme di invidia e beve la limonata acida della verità. Mi chiedo se capirà il profondo senso dello scherzo, in effetti è l’unica cosa che dà senso a quella condanna a morte che è la vita. Insieme all’illusione, s’intende. Cammino lento e piango per assaporare almeno un’emozione vera, e penso che forse dovrei farla finita. C’è un ponte qui vicino, usato spesso per buttarsi giù. Mi sa che prima o poi…

Mentro cammino nello spazio, mi fermo a guardare una boutique di umori in vendita, quello che costa meno è la “totale assenza di emozioni”,  la “gioia di vivere” invece ha talmente tanti zeri da diventare antipatica, poi c’è la “gioia di morire” nella quale ci sono nove zeri in più, chissà perché, magari perché quando uno è vecchio deve decidere un po’ come buttare i soldi risparmiati in una vita. Mi stupisce il “senso dell’ironia” che è scontato del 50%, già, in fondo, a che serve? Decido di entrare e chiedo alla commessa se posso provarne qualcuno. Lei mi guarda dall’alto al basso e, tirando gli angoli della bocca verso le orecchie, mi fa “Tanto non se ne può permettere neanche mezzo” “No e nemmeno lei” poi le faccio “Ma ce l’avete ‘il senso della vita’?” “No, non è un umore” “Ma si starebbe meglio, no?” mi degna di uno sguardo che potresti dare a un barbone che t’invita a cena.

Me ne vado e ritorno tra i miei sogni assaporando il piacere gratuito dell’illusione mentre mi strofino il naso con l’unguento di “violenza sanguinaria” che ho grattato alla commessa stronza mentre era china sullo smartphone per far la finta di non cagarmi.

Dieci giorni dopo.

Non mi sono mai divertito tanto nella mia vita. Ho fatto tutto l’immaginabile e l’inimmaginabile e lo rifarei ancora e ancora e ancora. Un’ebbrezza più alcolica del suicidio.

La prima vittima fu la commessa a cui ho incendiato il negozio, con lei dentro ovviamente. Poi ho scoperto che era l’unico negozio del genere in tutto l’universo e che ero l’unico ad avere ancora un po’ di prodotto che ho messo all’asta e sono diventato ricco. Così mi sono potuto comprare l’impunità per i prossimi secoli dei secoli.

Dio (padre) sarebbe orgoglioso di me, sono stato meglio dei suoi flagelli e dei suoi stermini di massa. Anche Belzebù mi ha fatto i complimenti a Porta a Porta. Ed ora penso e ascolto musica. E faccio a gara con i piraña a chi sbrana più velocemente il corpo del solito esistenzialista che s’è buttato dal ponte. Forse non pensava di morire a pezzettini piccoli piccoli, sperava di affogare prima. È uno scherzetto che ho fatto io a mettere piraña. È perché così, ‘sti stronzi di suicidi assaporano meglio quanto brucia quello che hanno lasciato, imparano cosa stanno facendo. Ma troppo tardi per tornare indietro.

Mi sento un messia. Sì perché m’è rimasto ancora un po’ di “delirio d’onnipotenza” che ho arraffato mentre il negozio prendeva fuoco davanti alla commessa legata alla sedia di cui ho ovviamente gustato lo sguardo. Ma non sono ancora soddisfatto. Tutto l’universo deve poter assaporare il senso della vita. E ho deciso che riprodurrò e spargerò questi prodotti in tutto il cosmo. È più bello fare le cose insieme.

In fondo io amo l’umanità.

Bisogna fare qualcosa per gli altri e non restare rinchiusi nel proprio egoismo. Redimere ed evangelizzare e spargere il seme del verbo del profeta. Nei secoli dei secoli.