Il grande spirito morde l’acqua


Lo spirito della santa sede fischia tra i rivoli dell’inferno. E butta le proprie scarpe rotte in mezzo alla gola profonda di un coro dell’antoniano che urla le proprie urla al ritmo di un tamburo col raffreddore. Sento una voce rauca dentro le mie corde vocali sotto un tetto di stronzi col riflusso acido.
Scende un’acqua azzurra e allora mi chiedo Perché ? perché le aquile volano di sbieco e noi camminiamo in un altro posto libero dalla fortuna e riempito di sfighe che ci fanno volare da un becco di canarino all’altro là dove volano le aquile, ma perché poi. Non si sa. Se si sapesse. Ma non si sa. E le parole sostituiscono i pensieri che colano da un barattolo di Nutella riempiendoci la bocca e lo stomaco di essenza divina.
Benzine liquide s’incendiano nei miei timpani che rimbombano di cerchi acustici sotto sottane di ricotta di pus di bubboni di peste. Divento una cozza liquida in un oceano di stucchi e cerbottane che usavamo quando eravamo piccoli per farci la guerra e crederci pirati di capitan uncino in un sogno che diventa realtà solo quando l’hai persa dietro lo schermo a cristalli liquidi. E diventi la cerbottana di qualcun altro.

L’atto del proletariato


Mi cibo di rotoli di spazzatura eterna. La sapienza ci viene da boccioli di alberi morti che respiriamo in un attacco lancinante di diarrea. Sono quelli che portano avanti il progresso dell’umanità. Là dove il sangue si mescola alle feci vengono poste le basi di ogni sana rivoluzione del proletariato. Gay compresi. Meno male che c’è What’s Up. Che ci libera dal peccato. Perché i dieci comandamenti sono fatti per riunirci davanti ad una pietra tombale di margherite che sanno di divina commedia.
Sento un sapore di arrosto di sberle e mi chiedo se anche questo Natale sarà come gli altri e Google ci manderà un sacco di torte sulla testa mentre dormiamo e sogniamo polli allo sbando che si gettano fango in faccia e usano le gengive per dominare sul creato color cioccolato in lacrime.
Chatto con il Che che mi racconta del suo viaggio in Colombia, tra cascate di piombo e tortellini alla panna affinché la fuliggine di una mietitrebbia si coccoli con carezze di una santa bevitrice che vede la Madonna scendere dal pelo pubico. Preghiamo insieme e diciamo Pane e Volpe la mattina per aprire lo stomaco e digerire i rospi della giornata così che il pavimento non sia più verde metallo. Il Che si affanna e mi appanna il parabrezza col fiato fetido del suo sudore. Un calcio nelle palle di un asino che si affatica sul tornio di un gelataio che sa di ragù di pollo fritto.

Justine


Una notte stellata mi circoncide attorno a un circo di capinere che mi parlano un linguaggio watusso e saltano da un ufficio all’altro per gabbie elettroniche che rispondono al nome di bit. Sparo a uccelli di manzo argentato e mi masturbo pensando alle rogne di Calcutta. Lebbrosi masticano chewingum acetato. Una bolla di sapone si sfrega contro una vagina epilettica e gusta il succo di limone di vacca boia. Mi strizzo il pene per guadagnare un tozzo di pane per guardare dalla finestra Justine. Sono Justine De Sade e vengo dal fornaio per mungere la moglie in cambio di due cornetti alla crema.

Prego la santa saporita perché mi dia la forza di far fiorire petali d’argento da culi di stronzi. Ma non sarà facile, perché? Una ruota di scorza mi pone l’ardua sentenza tra una jeep cherokee e un indiano pelato che suona l’arpa e il mandolino acerbo. Elisa si bene una frutta sciroppata, uno schifo di stufato che si agita nel suo stomaco peloso di zitella ripiena di kebab. Essa soffia e stuffa come uno stantuffo suonato in pieno oceano mare che recita una poesia di comodo per evaporare decine di miliardi di interessi sul debito.

Mi impicco come un derivato sfittico e m’inginocchi davanti a una banca centrale egiziana che sforna piccoli dinosauri sull’altare dell’unione mondiale delle scorze di limone e getto un tappeto in direzione della Mecca in cambio di due cammelli.

Mi gratto le palle di iodio


Un toro si dipinge l’anima con colore blu e pennello di salsa di tonno in olio d’oliva. Desidero una crosta extraterrestre per mangiarmi una chioma bionda che sorride davanti ad un nano con la barba che balla il rap in mezzo ad una piazza oscura e bagnata di sperma alieno.
Il puzzo di rettile emerge dalle gengive di un vichingo musulmano in camicia da notte. È per questo che la balena si fa la barba tutte le mattine. Se non fosse soffritta in padella non soffrirebbe tanto da farsi venire un’ernia al midollo osseo.
Per cui si tritura in padella una chiazza notturna e si fa prendere la mano ripiena di orecchini e dice al suo fidanzato che la porti a ballare in mezzo ad un alimentari arabo tra testicoli di Cosimo e campane che suonano a morto una ballata di Monna Llisa.
Un leone la guarda impietrito e brinda al generale Montgomery ridotto ad una fontana di lacrime che circonda le auto che sfrecciano notturne su una padella dentro a una balena dove Pinocchia impara l’arte del sesso orale. Percio’ declama la divina gloria nell’alto dei cieli e sparge la pece come estrema unzione agli arabi che piangono al muro del pianto buttandosi dal ponte dei sospiri con un mazzolin di fiori in mezzo alle unghie dei piedi.
Una lacrima scende nel mio stomaco e lo chiude per chiedergli la mano per un matrimonio in punta di piedi. Mi getto in una piscina di sospetti e pesci con l’occhio guercio.

Cazzo!


Una furia di larghe vedute si ere in piedi sulle suole delle scarpe e per provare la propria sessualità si allunga le orecchie infilandosele nella vagina. Ritaglio il groppo in gola al ritmo forsennato di un sintetizzatore di musica gotica che mi fa vibrare le gengive e rivoltare lo stomaco. Desidero la pace nel mondo e lo stomaco pieno. Sorrido mentre preparo un’insalata di moscerini spremuti al limone. Una cena di oli essenziali evapora in presenza di un mistico che canta le lodi del signor Mario in un’epoca storica che sfugge al mio palato.
Olga si preoccupava della salute di suo marito e mentre gli faceva un pompino pregava la Madonna di restare incinta. In una singola orazione Olga riuscì a compiere il miracolo e ad ingravidare il marito. Comunque furono due gemelli.
Un’ultima zolla di terra sconvolge i miei neuroni e ludicamente ne proietta l’ologramma in cielo. In un ballo tecno di gabbiani acidi si sconvolge il ritmo della natura immonda di un pazzo che saltava fuori dalla finestra pregando di essere morto e dimenticandosi di essere al primo piano.
Una risata stridula accompagna Minea durante l’amplesso con il suo cuginetto che teneva in braccio da piccola.
Sulla sua testa un’aureola la santifica e ne benedice la posizione seduta.
Nell’aureola di un pompino a denti stretti Mariella si sturava il lobo di un orecchio senza mangiare la carne al sangue ma solo bevendo spruzzi di gengive liquide. Un atomo sfuggente la colpì al cervello un attimo prima del big bang e morì lasciando il povero Meo in balia di una morta. Dedico questo canto alla zolla di terra della prostituta che lo occupa durante le ore di lavoro per coltivare pomodori al dente.
Dentro questa casa si libera il fiato di una mucca sventrata da mille mosche e una porta cigola con violenza misurata cantando l’inno del vento di primavera e non castigando il seme dell’uomo.

Placido, ma perché?


Un erotico sciogliersi dei vegetali in questione mi porrebbe l’interrogativo di sottostare al placido dentista in questione. Il che è una questione da definire in quanto tale. Una preghiera all’Altissimo mi purga lo stomaco.
Un’autoipnosi intestinale che parla col colon-nello che impartisce ordini di merda a un battaglione di suocere in pacchetto regalo che abbaia come un branco di lupi impazziti. Notevole. Ma insufficiente per garantire lo svolgersi corretto delle elezioni. In una dittatura delle banane.
Sento un odore di cracker alla vaniglia. Fritta. Discorro d’ipotenuse ed ipotetiche sintesi delle grandi battaglie che hanno agevolato il fisco italiano nella preparazione del ragù alla bolognese.
Un ritmo di patate che non concede niente alla sufficienza del vento freddo che viene dal polo. Addio corrente del Golfo. Una nuova glaciazione testicolare si affaccia in un corpo affamato di energia.
Un gerbillo errante nella faccia di una vedova bambina che piange al ricordo triste della sorella morta in un tragico incidente d’acqua e freddo.
Una pantomima fredda e turgida si masturba il nasello cantando canzoni della resistenza.
Addio sirenetta che tu possa tornare nella terra della lupara bianca.
Una poesia che rutta sangue nuota nell’alveare del mio cuore e annega in un lago di petrolio condensatosi per resistere al freddo di una colica renale. Un arrosto di maiale richiede un apostrofo, il che è eccezionale ma normale nella sede centrale della banca dei peschi della monaca di Monza.
La carica di ben hur si staglia nel cielo di una balena bianca che piange e rivolge le sue spire verso un polipo marino che suggella un’ambientazione color corallo rosso sangue che ride e piange e va fuori di testa per una manica di barattoli alla ricerca della verità.
Un polo unito di prostitute e gay e mamme borghesi dell’alta società manifesta di fronte al parlamento per la liberalizzazione delle droghe pesanti, mentre il tamburo batte. E mi assorda la mente.
Mi metto il casco e muoio.
Per sempre.
Senza senso.

L’ultima puntata della salsa rock in un capitello sardo


Saltano in una ragnatela i nasi di un pisello e volano sorridendo in una pentola a pressione nel sugo di lenticchie di aperitivi consigliati a freddo. Denudati in una sauna, si accapigliano con le carte da gioco e mazze da baseball.
Una partita si gioca tra le superpotenze termologiche con pesci e morene colorate di iodio sfuso, il calciatore asfittico si carica di kryptonite e sfida l’arcangelo Gabriele Moreno de la Calle, il portiere del rione di Quarridabat nella campagna spagnola.
Un inatteso fulmine carica gli elettrodi del suo cervello per un abbraccio tra i peli di una formica e la sua dentiera profumata di ascella tormentata e languida.
Un occhio imbevuto di salice piangente ritorna alle origini di dinosauri nel pleistocene improvvisando una scena teatrale con i bruciori di stomaco e i gas intestinali a fare da sfondo dell’ottava meraviglia dell’apparato digerente di Dio. Siamo in una città dei balocchi e mangiamo cacao soffritto sfuso da una roccia che lo permea come una fontana di noccioline biologiche.
E logiche. Internamente logiche. Equazioni piovigginano liquorose nelle menti di Mario psicopatico e lo fanno impazzire dalle risate in una colonna sonora di chitarre dello Sri Lanka.
In un linguaggio sforbiciato i greci iniziarono a ballare tutt’in tondo girando a destra e a sinistra scalciando di qua e di là, sempre più veloce, in un turbinio furibondo finche non cascarono tuti per terra morti, secchi, e sorridenti.
Il virus si spargeva letale come un regalo agli infelici che potevano così, morire, sì, ma ridendo a crepapelle. O crepapalle.
M’immergo in un untuoso sangue misto di primavera e pubblicizzo le doglie di una partoriente esangue.
È l’Annunciazione.

La dama delle famelie – parte due


La cosa non va per il verso giusto. Avrebbe voluto una cosa serena e civile, e invece le usciva solo voglia di uccidere. Proviamo a calmarci, pensa, facendo anche una pausa di silenzio.
Lui continua a riempirsi il palato con zucchero imburrato di cacao quasi a digerire in una nuvola di dolcezza qualsiasi cosa gli venga lanciato.
“Non voglio più stare con te” “Perché?” fa bevendosi una birra come se gli avesse raccontato l’ultima notizia del telegiornale. “Perché te l’ho detto e perché …” “Perché…?” “…p-p-puzzi” “Puzzo?” “Sì, sì. Puzzi. Sì puzzi. Come una capra puzzi, non ti si sta vicino quando parli, puzzi di ascelle, di aglio, di birra, di fumo accumulato da anni nei capelli e nei vestiti, la tua pelle puzza e non parliamo del fatto che scoreggi allegramente facendo sesso” “E ti dà fastidio?” “No, non è fastidio, è agghiacciante. La metà delle volte mi tocca di fingerlo l’orgasmo, perché tanto so che non vengo più e mi chiedo se la prossima volta riuscirò ad abituarmi. Non ti sei mai chiesto perché non esco mai con te in compagnia?” “Vuoi stare con me da sola, no?” “No, no, anzi, no. È solo perché nessuna delle mie amiche resiste alla tua presenza. Dopo che sono stata con te devo andare a casa a farmi una doccia e lavarmi anche i capelli prima di poter vedere qualcun altro” “Vedi qualcun altro?” “Cosa c’entra” “C’entra visto che lo tiri fuori tu e che invece di dire di no subito cerchi di prendere tempo” “No, nel senso ‘altri’, ma no, sì, sì, vedo anche qualcun altro, tanto vale che ti dica tutto, tanto avevo già deciso di farla finita e ho cominciato a vedermi con qualcun altro, uscire e basta, s’intende…” “S’intende” “…ma mi piace e mi ha fatto pensare che …” “Che?” “Che esistono altri uomini al di fuori di te, del tuo basket, del tuo mondo delle foto e dei ranocchi e rettili che fanno schifo. Insomma non ti sopporto più. Hai capito?” “Ho capito, non c’è bisogno che alzi la voce”
“Io voglio un uomo che ci sia non che abbia mille cose da fare, che pensi a me, che posso sentire vicino, che ci sia quand’ho bisogno di lui, uno che posso presentare alle mie amiche e con cui uscire in società e che non pensi solo a due o tre cose e basta e solo a se stesso e io a fare solo quello che vuole lui, tra cui il sesso” “Il sesso?” “Sì ne ho abbastanza di farlo tre volte al giorno, è troppo, sembra un lavoro” “Mi sembrava che non ti dispiacesse” “Sì, no, all’inizio era bello, ma così è troppo, voglio qualcuno che abbia il giusto equilibrio nelle cose e che mi ascolti e che sia interessato a quello che faccio io o di cui parlo io” “Sono interessato, quelle poche volte che ne parli. Se non parli, non so cosa farci. Penso che ti faccia piacere ascoltarmi o le cose che faccio e così vado avanti. Se tu non ti mostri non posso certo farlo io per te” “Sì va bene ma…” non so cos’aggiungere “E poi non capisco perché tutte ‘ste cose non me le hai dette prima” “Prima? No, non volevo rompere una bella emozione. Ero innamorata e anche tu. E non volevo rovinare tutto arrabbiandomi per una cosa o per l’altra” “Capisco e lo fai tutto in una volta quand’è troppo tardi. Credi che sia più costruttivo?” “N-n-no, ma oramai” “Appunto oramai. Voglio dire se mi dicevi prima che puzzavo, ok, non sarà piacevole, ma la soluzione non è difficile, mi lavo e punto, problema risolto” “Sì, in effetti” “Invece di farlo montare come la panna” “…” “E se mi dicevi una cosa dopo l’altra anche quelle si risolvevano. Sono un essere umano. Ogni tanto ho bisogno di spiegazioni” “Ma te le ho spiegate” “Ma non in modo da farmele capire. Voglio dire se vedi che non ho capito, puoi rispiegare. Anche urlare è permesso, non ne esco con un trauma infantile. Non è che lanci una parolina lì e uno deve essere telepatico” mi metto a giocherellare con il cucchiaino da caffè “E poi c’è un’altra cosa. In tutto questo mi piacerebbe sapere dove sono io” “Come sarebbe tu? Il problema è proprio che non ci sei altro che tu” “No, qui non ci sei altro che tu, che la tua check list, e le tue esigenze di come dev’essere un uomo. Ti sei chiesta se anche io voglio una donna in un certo modo? Che forse anch’io ho bisogno di una donna che sia lì per me, per darmi una mano. Sembra che ci sei solo tu e le tue esigenze e stai solo mettendo delle crocette se soddisfo o no le tue esigenze” “…” “Forse tu non lo sai. Non è che lo pubblicizzo in giro eh. Ma io chiedo spesso se vado bene per te, se non ti faccio perdere tempo. Se una cosa ti piace o no, e da quello che mi dici adesso no, ma se mi pare che ti piaccia, tipo il sesso, cerco di dartene più possibile, e adesso imparo che era tutta una commedia. Per esempio” “…” “E poi mi chiedo che se questa storia finisce, se avrai un bel ricordo oppure se magari non finisce, se sarò giusto per la tua vita. Non te lo dico tutti i giorni eh. Anzi mai. Ma me lo chiedo, mentre da quello che mi dici tu non te lo poni neanche per sogno”. Silenzio. Un silenzio tanto lungo quanto assordante che devo interrompere con qualche balbettamento “Beh, non ci avevo pensato e adesso che me lo dici…” ma oramai è lanciato e non mi caga neanche “Io per esempio voglio una donna che parli subito, chiaro e relax invece di portare le cose ad un punto di non ritorno. E voglio una donna che si chieda che esigenze ho io e se può fare qualcosa per me. Ovvio che si fa un compromesso. Ma mi pare che tu sia entrata nel mio mondo per vedere se andava bene per te. Hai deciso che no. E adesso mi dici ciao” “Ecco…” “E pretenderesti pure che la responsabilità della cosa sia mia” “No, non pretendo che la responsabilità, cioè…Scusa…” faccio abbassando gli occhi e chiedendomi se potrei suicidarmi infilandomi un cucchiaino nello stomaco “…non pensavo…che…ecco, scusa, sì forse ho sbagliato e non mi sono resa conto…che pensavo, che non ho pensato a…cioè mi sembrava di pensarti e che invece tu no, e …oddio scusa”.
Silenzio. Se il silenzio può uccidere ti prego fallo ora, sì proprio in questo istante e preferisco anche affrontare il diavolo piuttosto gli occhi di questo che mi fissa e che mi fa sentire, beh, non ci sono nemmeno parole, no, neanche quella, per dire quanto mi senta un escremento dell’escremento. “E adesso, come rimaniamo?” “Rimaniamo che paghiamo il conto e ce ne andiamo. Cameriera?” “Sì, fanno 11 euro e cinquanta” “Tenga il resto” “Grazie” “Prego. Comunque la torta era uno schifo”

La dama delle famelie – Parte uno


Gira si gingilla le dita alla disperata ricerca di una pellicina da sgrattare o di un’altra unghia da mangiucchiare. È nervosa come una mosca che non riesce ad uscire dalla finestra e che impazzisce a forza di tirarci delle testate. Deve incontrarsi con Juan. Tira una di quelle arie tra di loro che non sai né come inizia né come finisce e…Beh, è anche in ritardo di venti minuti. Che già di per sé vuol dire che non la caga. No, perché lui, non dico che spacca il secondo, no, ma cinque, massimo dieci minuti e arriva, punto. Venti butta male.
Poi sorvoliamo sul fatto che lei era in anticipo di venti che ha passato a fare giri in tondo per la piazza cercando di arrivare in ritardo di almeno dieci minuti, arrivando poi col fiatone, perché poi s’è pentita e ha avuto paura che l’aspettasse lui incazzandosi.
In realtà teneva sempre d’occhio il bar anche a distanza, ma poi s’è distratta a guardare una borsetta in liquidazione e il tempo di provarsela allo specchio e parlare con la commessa e addio. È uscita ad alta velocità muovendosi come una ginnasta acrobatica per non travolgere nessuno e cercare di non dare nell’occhio (soprattutto quello). “SIGNORA LA BORSETTA!” le ha urlato la commessa davanti a tutti, mentre stava per uscire con quella nuova. Che fai, mica puoi pagarla, se no sembra che hai cercato di ciularla, meglio fare la stressata con un “Scusi, tenga, mi ridia la mia”, che vuoi farci, poi esci a velocità raddoppiata proprio per far vedere che eri proprio di fretta, mica lo facevi apposta. E poi cerchi di non pensarci e riga (ma poi ci pensi, hai voglia se ci pensi. Va beh). Poi s’è quasi slogata una caviglia tra i sanpietrini della Place St Jean.
Comunque ora è qui. Tra le luci di un bar vorrei-lounge-ma-non-posso e davanti alla sua infusione alla menta che fa digerire il niente che ha mangiato fino alle cinque di pomeriggio. Senza zucchero. Fuori piove. E fa freddo. E Juan è in ritardo di ventiquattro minuti. E trenta secondi. Venticinque, in pratica. Sì perché fa differenza tra ventiquattro e venticinque. Perché ventiquattro fa praticamente venti, ancora. Venticinque fa trenta. E trenta fa irrigidire lo stomaco ancora di più. Si guarda in giro sperando di vederlo entrare. Finché un minuto, dico, un minuto prima del fischio finale dell’arbitro sente “Ciao Gira, come stai?” “Ciao Juan, bene e tu?” traduzione, pezzo di merda ti caverei gli occhi “Cos’hai ordinato?” “Una menta” non lo vedi imbecille ci sono ancora le foglie dentro. “Buona idea, ma io ho un po’ fame. Ti va una torta al cioccolato?” “No, grazie ho già mangiato” dico non ti abbufferai mica di cioccolato davanti a me, no? di cioccolato poi. No non lo farai “Peccato, e ti va un gelato, una crêpe, o una meringa?” “No, grazie, veramente, sto bene così” “Che strano, in genere ti abbuffi, va be’ io resto sul cioccolato. Cameriera, una tarte au chocolat”. Mostro. “Di cosa volevi parlare?” “Che non sto più bene con te” “Capisco” “Credo che o la storia diventa un minimo seria o io non ho più voglia di continuare così dopo due anni” “Beh…” “E poi pensi solo a te stesso” “Perché?” “La sua torta Monsieur” “Grazie” “Ecco, per esempio” “Per esempio cosa” “Ti stai mangiando una torta di cioccolato davanti a me che non mangio niente” “Te la volevo offrire ma hai detto di no”. Lui pensa che lei è cretina. Lei pensa che con un imbecille così tocca di partire da cose più plateali anche a costo di esagerarle “E poi voti per Berlusconi” “Mi prendi per il culo?” “No quando parli di lui diventi arrogante e vuoi avere ragione a tutti i costi” “Perché, a te non capita mai di voler avere ragione” “No, mai. Cioè, non come a te” “Ah” fa continuando a inforcarsi un boccone dopo l’altro. Cosa che associata alla fame e al nervosismo fa incoscientemente flippare i diodi neuronali di Gira che vorrebbe tirargliela in faccia

Aglio, prezzemolo e…cipolla.


In una giornata di sole, Irina passeggiava col marito passeggiava per le vie del centro di Bruxelles, col marito a forma di pesce. Vagando senza meta si ritrovarono al Musée de Cinema a guardare un film a base di caramelle alla pesca vestite a festa.
Il marito le allungò una mano sulla coscia e avanzò al centro, ma lei gli rimise la mano a posto con un certo disgusto.
E videro Il film fino alla fine come due bambini che mangiano pop corn.
Il marito si fece avanti per baciarla a bocca semi aperta, ma lei si ritrasse. “Togli le tue manacce dal culo” e se ne andò via stizzita.
A casa nessuno dei due parlò e, in cucina sapevano entrambi che erano condannati a ritrovarsi nel letto.
“Perché mai due persone che non si sono parlate tutto il giorno, si devono ritrovare a dormire insieme. Voglio dire io volevo dormire insieme a qualcuno se veramente non potevo staccarmi da lui. Fondermi a lui, questo era, è la poesia del dormire insieme, non come due stoccafissi” pensava mentre tagliava le cipolle per piangere senza dare spiegazioni. False. “Siamo falsi, ecco la verità. Dieci anni e oramai siamo diventati due cartucce vuote che non hanno più polvere da sparo. Involucri. Scatole da scarpe vuoti buttati in un magazzino”.
Fu lì che le lacrime divennero talmente intense da non farle vedere più tra la cipolla e il dito e si ritrovò col dito sotto il rubinetto e un cerotto e con la voglia di ficcare il resto del coltello nella pancia di lui.
Ora che se n’era andato di sopra poteva piangere tranquillamente e odiare e uccidere.
Le emozioni si impadronirono di lei. Le emozioni, una voce dentro le disse “Obbedisci e ti farò stare bene, ma se non obbedisci non ti darò pace”. Ripensò al film, alle caramelle, ai petali di rosa che si spargevano sullo schermo di cui una volta lui le aveva ricoperto il letto e avevano fatto l’amore, veramente. Anche ora avrebbero fatto l’amore, ma il rosso non sarebbe stato quello dei petali di rosa. “Grazie, voce, m’hai dato un’idea magnifica, ti amo”. Raggiunse il marito a letto. La stanza era buia.
Sollevò le coperte. Di lino, color pesca con alcuni disegni di fantasia, comprate in India.
Lei si era innamorata della loro semplicità e della morbidezza, lui le aveva sempre odiate.
A lei faceva piacere che lui le odiasse. E ci dormisse dentro.
“Fingi di dormire, ora farò finta di svegliarti”.
Senza tanti complimenti gli prese in bocca quel piccolo verme legnoso che sapeva di piscio rancido. “Sento odore di cipolla” fece lui, “Sarà che l’ho appena tagliata”, no era il coltello che lei stringeva nella mano sinistra, mentre con la destra seguiva i movimenti avanti e indietro della bocca e gli accarezzava i testicoli “È il mio primo pompino alla cipolla” fece lui.
Non si parla con la bocca piena, pensò Irina, perché sentiva qualcosa nel tono del marito che la faceva contrarre lo stomaco di nausea.
Strinse l’impugnatura del coltello da macellaio e andò avanti.
Ci fu un lungo silenzio e lottò contro la voglia di staccarlo a morsi, mentre con la mano continuava ad accarezzargli le palle.
Sarebbe stata l’ultima volta che avrebbe assaporato il suo liquido caldo e perciò non le dispiaceva tanto, anzi, mentre lo ingoiava, si sentiva come con la coscienza a posto.
Le aveva sempre detto che desiderava morire scopando. Beh, più di così non poteva fare, in fondo meglio che niente. E poi non gliene faceva uno da almeno sei mesi.
Ora.
Dopo che gli aveva succhiato fino all’ultima goccia e che il verme era ridiventato molle come una patatina piena d’olio.
Ora.
Rialzò la schiena e gli passò la mano destra sullo stomaco peloso e prominente di chi ha già mangiato abbastanza in questa vita ed è ora che restituisca tutto alla terra.
Ora.
La voce la comandava come un soldato “Stringi il pugno, solleva il braccio, abbassa il braccio sul bersaglio con tutta la forza, con tutto l’odio, con tutta la disperazione”.
“Domani è S. Valentino e …” Irina si fermò a due millimetri dall’ombelico.
S. Valentino? Non glien’è mai fregato niente di S. Valentino, cosa vuol dire?
“E…?” fece lei?
“E ho prenotato un viaggio per noi due”,
“Un viaggio? Io e te?”
“Beh, sì, non ti va?”
“D…dove?”
“A Procida”,
A Procida s’erano conosciuti sotto un temporale in una grotta dove s’erano rifugiati e avevano parlato anche dopo che il temporale era finito
“Perché?”
“Perché ti amo ed è da un po’ che mi pare che le cose vadano così così, e magari lì abbiamo voglia di parlare di nuovo, chissà, magari durante un altro temporale”
“Uccidi o non ti darò pace” le diceva la voce, ma le emozioni non erano più quelle di prima, il braccio era già appoggiato al materasso, e le lenzuola di lino color pesca le sembrarono d’un tratto troppo belle per essere inondate di sangue.
Magari con altre lenzuola, un’altra volta.

Attimi persi


Mettere un piede in fallo non vuol dire sempre sbagliare, così Irina pensò mentre schiacciava il pene del marito con la punta del piede. E l’erezione mica diminuiva, anzi. Gli passò il piede tra i testicoli accarezzandoli e schiacciandoli leggermente. Lì sì che poteva fargli male. Lì sì che poteva vendicarsi, ma quello era amore, non odio. Era potere, non solo amore. Era tutta una vita in un solo gesto. Tanto odio accumulato e tanto amore stuzzicato. Mentre lo baciava in bocca e sentiva la sua lingua ruvida come il tronco di un albero sentiva che doveva fidarsi ancora una volta, doveva darsi e ricevere e riceverlo, un uomo, quell’uomo, il suo uomo.
Dopo dieci anni di matrimonio erano ancora lì, a cercarsi senza trovarsi in un’esplorazione di attimo in attimo. Attimi persi nel conoscere troppo bene, o troppo male, il corpo dell’altro.
Mentre la baciava ed era invasa da un odore d’aghi di pino, insieme al caffé nero che lui beveva a litri, lei sentiva che era come se ancora non sapesse come e dove toccarla. Soprattutto come. E quando. E in fondo non avesse la voglia di ricominciare a cercarla per conoscere la nuova Irina, non quella di dieci anni fa.
Anche, ora, mentre la stava colpendo da dentro dolcemente, troppo lentamente. Imbecille, hai paura di rompermi? Ma non glielo diceva, da dieci anni non glielo diceva. Perché in fondo lei aveva paura di rompersi e allora preferiva, (oppure no?) quella fiammella che le invadeva dolcemente lo stomaco e il ventre, piuttosto che una vampata incontrollabile che poteva lasciarla in lacrime e con il corpo che sussultava per ore come un epilettico.
E allora, sì, ti amo, zucchero caro, accarezzami, sì, baciami lì, dietro l’orecchio, come fai sempre, quando stai per venire e mordimi il collo, così, senza troppi complimenti, più forte magari, e come te lo spiego che anche stavolta sto fingendo, ma che mi piace anche così, con te. Come te lo spiego che voglio che tra noi sia tutto vero, ma che ho una paura fottuta che lo sia, come te?
E allora vieni, caro, vieni così, convinto di avermi posseduta. Ma domani, no, domani dobbiamo parlare, un giorno ne parleremo e capiremo come siamo finiti così lontani. Eravamo così vicini, prima, o pensavamo di esserlo. E gli orgasmi, sì, quelli mi portavano lontano, tra le stelle che mi sembrava che ci osservassero. Ora baciami e addormentati su di me e io mi adagerò dentro il tuo cuore.

Ammazzando il tempo


Delirando si pescano pezzi di assurdità.

Delirando si posticipa l’assalto alla baraonda di una sciarpa del Milan.

Scendo i gradini dell’inferno in una casamatta di autenticità pura.

Semplicemente mi distendo nella graticola della speranza di una pozzanghera di orsi verniciati di rosso porpora.

Suggello pertanto la nostra dichiarazione d’amore e liscio il velluto grigio dei marinai contorti e targati di nero femmina. Entro nei meandri del teschio di ferro e vedo colori di merluzzo andato a male fosforescenti di una puzza che ricorda un pugno in un occhio, ma all’interno dello stomaco.

Puzza di morte. Si direbbe E un orologio scandisce il tempo restante nel conto alla rovescia di padri e figli che giocano a tressette e imparano a barare nelle regole della vita.

Un destino glorioso prende il sopravvento nelle fasce dell’adolescenza ritmata da tamburi africani che battono su teste di teschi un ritmo primordiale di musica techno che si propaga nella savana deliziosa al gusto di stambecco al forno.

Odo e godo in un’eiaculazione precocemente masturbata che le viscere della terra si lecchino i baffi e facciano godere anche un setaccio di miniere d’oro. Dubito che la forma della filosofia scoppiettante si decida ad andare di corpo in tempi brevi e il culto di pietra si spacca in una risata a crepapelle. Eliminiamo le barbabietole dal corpo e depiliamoci di questi fastidiosi insetti che cantano in coro gli inni al cielo azzurro e violetto.

Enrica guardava uno scontrino fiscale mentre un singulto del volto ne accese una parte e bruciò il supermercato senza volere. Un prurito all’interno dello stomaco. Cercava di grattarsi, ma come si fa. Si massaggiava come una forsennata nel parcheggio del supermercato sotto lo sguardo attonito dei parcheggianti di cui uno si offrì di farle passare il prurito e le tirò un cazzotto che la mandò in apnea per dieci minuti. Ma funzionò.

Lui le offrì una cena e lei all’inizio voleva rifiutare perché non si era depilata ma poi decise che nel frigo non c’era niente e non aveva soldi per il supermercato, quindi accettò. Il lupo mannaro si aggirava in quei luoghi benedetti e durante la cena ne approfitto per sventrare una vetrina e assorbire più carne cotta possibile attraverso i pori e i peli. Mise le fauci al servizio di sua maestà e servì ai tavoli dei due futuri sposi un cuoco al forno con tanto di baffi e li costrinse a mangiarlo tutto.

Il cuoco pesava ottantanove chili, ma senza scheletro, pelle, frattaglie e sangue si trattava giusto di dieci chili di carne pura. Enrica si lamentò del fatto che sapeva di fumo, ma Piergigi decise che gli dava un certo non so che valeva la pena. Anche Lupo Mannaro si sedette e tra un assaggio e l’altro fu proprio quello che se ne mangiò la maggior parte.

 Enrica decise che il personaggio era sexy, forse conquistata dal fetore delle ascelle che assomigliava a quel prurito nello stomaco e in breve finì tra le braccia e le fauci di un bestione di  due metri e mezzo, ma passò la notte più stupenda della sua breve vita, anche perché non sopravvisse alla devastazione e morì dissanguata in mezzo al parcheggio di un supermercato, bruciato.

 Morì in una pozza di sangue blu che il lupo leccò fino all’ultima goccia e le succhiò quello che non uscì da solo. Pesava ottantanove chili, ma senza sangue e scheletro e pelle, alla fine il lupo ne mangiò giusto giusto una decina di chili.