Un grano di polvere grande come una mano di vernice


Una piscina aleggia sul cielo di Bologna e accende una speranza per l’umanità. Un tuffo nel vuoto molleggia la pinna. Molleggia una spanna di panna di perle che scendono per la mia fronte tra gocce di sangue e preghiere di cori gregoriani, mentre balliamo la salsa la mattina in riva al mare di Comacchio. Resta con noi, non scender dal cielo. Resta lì e non ti muover o dio beato. Che stavamo meglio prima. Ma se non puoi proprio farne a meno non raccontarci che c’hai fatto un piacere.
Meglio l’urina di un sacco di merda. Meglio la merda di un oro colato. Meglio la rita pavone che la diga di un gattopardo in calore. Metti poi che ci si frigga lo sperma ed ecco fatto il becco a l’oca. Giuliva. Nella grande schiera delle gatte delle nevi ci fregiamo di caldi arrosti che scendono a valle e mangiamo grandini di pettini argentati che pattinano violenti in un’aura di stroboscopi illuminati. E’ lì che Artisia si masturba in mezzo a tanti bambini che scivolano via urlando a mosca cieca tra musiche colorate e gomme da masticare a culo sul ghiaccio ardente.
Ma riesce a venire dopo tanto masticare le gocce di tempo che non sembrano voler darle tregua mentre fuori impervia la tempesta di sassi e preservativi contro le finestre di sale del palazzo dello sport che non lascia spazio ai neuroni di Godzilla anche perché non ci sono senza sberle. Vedi? È per questo che cerco di spiegarti l’origine della vita. Per sapere dove finisce anche se prima che finisce campa cavallo che non storna perché anche se storna non incorna nemmeno a pregare in greco. Che tra Atene e Sparta ne hanno fatte di cotte e di crude come la bresaola che non è come la mortadella, anzi. Che poi, anche se lo fosse, ma comunque.

Polipo pulp


Livido sesso di una membrana di sangue si staglia sulla tela di un pittore bambino che succhia il pennello come fosse un pollice per bere il succo della materia divina. Si staglia sulla tela il processo effimero di una donna elefante che corre nuda nel deserto di amori e sapori laceranti e urlanti. Gode la città di spiriti maligni che voracemente ne mangiano l’anima e mangiandola diventano santi e sassi e rocce di smeraldo che dorme il sonno di un bambino defunto e risorto.

Prega mia bella la sorte rapita in un polipo multicolore che si mescola con se stesso in un universo senza tempo. Dove lo spazio racchiuso in una tela dipinge il seno di una puttana. I sentimenti si fulminano indecenti e carichi di alloro e spezie d’oriente che caricano un cavallo di putrido letame e ne affumicano l’incenso che sa di origano e cannella.

Walter si soffia nella pipa e aspira il sacro desiderio di una stella bruciante e immortale nei polmoni densi del fumo che droga il cervello e il cuore, mentre si spegne il cerino acceso dalla madonna di tutte le tele vergini e colorate.

Walter sogna il tempo che fu, un dio benestante dai mille coriandoli mentre ballava il carnevale insieme alla dorata criniera della sua bella Maria e l’amplesso godeva del momento senza un respiro che potesse librarli nel cielo di fuoco. Piangeva Walter nel mezzo di una masturbazione e l’amplesso fu un grido di dolore che fuggì dalle labbra e dalla gola, dallo stomaco e dal petto facendo tremare gli oggetti che ne temevano la potenza distruttrice.

Fumava, Walter la droga del cuore e della mente inebriata di follia alla sua massima potenza, mentre origano e cannella si spargevano nel seno della sua bella immortalata nella sua tela ad eterna memoria, a defunta memoria di vivi che non si danno pace, di morti che sono sereni. In una tela assente e presente a quel momento di vita, come un morto che ti guarda. E si chiede perplesso il perché del dolore.

La nostalgia di un ricordo si sparge nel vuoto di una camera oscura e rischiarata dalla luna che penetra nell’intimità di una grotta dei sensi. Mucillaggini di sterco la ricevono e sembrano più puzzosi che mai mentre Walter giace svenuto sperando di esser morto per stringer Maria almeno un momento. E la tela si anima e gli fa una grazia.

Risplende alla luna ed entrambi splendono nell’abbraccio immortale di un’anima che ora vive e si addormenta col suo sposo per un momento, calmandogli il cuore, calmandogli il dolore, benigno tumore di un tempo che fu e non tornerà mai più. E una lacrima scende solitaria, una lacrima di pace, una lacrima di sereno abbandono.