Il bagno del toporagno


Nella tundra di un semi pazzo urlante mi libero della vulva capillare e rintuzzo gli attacchi di un sedicente gigolo. Cotasti mio caro, cotasti e calmati da quella bava altisonante che fruga negli artigli di un corvo le tempeste di colla che si attaccano alle mascelle di un conte della montagna incantata per fare magie ricurvo su un ramo secco nella notte dei tempi. Mi masturbo nella segola di una pianta argentata ricca di gemme e di escrementi di toporagno con l’alito fetido. Un rombo di aeroplano stellare distrugge le emozioni di un orgasmo a cinque stelle per portare in parlamento un barboncino seguito da mille sgombri.
È così che fumo una sigaretta di cavolfiore: per immaginarmi la protuberanza di un bosone sanguinario in mezzo a genti in mezzo al traffico che pensa a come fare sesso con la diga di un frutto di bosco balsamico in padella. È così che ritiro l’arrosto dal forno. Con barbabietole ridenti e giocose che gli danzano intorno per sedurlo e canzonarlo. Il salvagente di un popolo non si misura in monete di bisonte polare. Ma con la luce degli occhi che sprizzano sperma in mezzo alla folla vetusta.
Ecco come fare la rivoluzione. Basta che la non violenza diventi una forma di pazzia e liberi le corde del cemento armato che lega le fronti insieme a una vocale e una consonante. Nel muto silenzio ascoltiamo il suono di Dio in amore. Che ingravida anime di fumo in forno a preghiere che si levano alte e poi cadono tra gridolini soddisfatti.

My name is Aigor


Occhi scintillanti mi guardano di sottecchi. Occhi di tigre che azzannano sorci bianchi mentre vecchie con le scope rincorrono i ragazzi per la strada. Un estro viene dalla campagna saltellando sopra un comodino dove la lingua attraversa il borgo di un’insegna luminosa.

Ieri il vigile Arturo Spigolante fece una multa ad un camionista che si impiccò allo specchietto retrovisore del suo camion.

Cavalletta, cavalletta storna dimmi chi fu colui che non ritorna?

Elisa si avvolse con la schiuma dentro la spugna. In mezzo ad una nuvola di lucciole che esplodono da un missile patriot. E fuochi d’artificio svolazzano allegramente sui teschi vuoti di mummie di città.

Una voce femminile rauca canta l’ave maria in mezzo a gruppi di soldati agli ordini di capitani pazzi in giacca e cravatta e rolex d’oro.

Culi di neve se ne stanno attorno ai fuochi insieme alle guardie dell’armata rossa che guardano la grazia divina seduta sui gradini di una chiesa.

Vicino alla finestra mi affaccio e incontro Igor Stravinsky che piscia addosso alla rivoluzione mentre Einstein ride sul cesso infiammato da un’infezione intestinale. Una risata intensa, ma svuotata di significato, un significato moltiplicato per la costante al quadrato del divertimento.

Inshallah, che allah sia il tuo destino mio fedele maomettano, che allah ti benedica e si assenti dalla tua mente e ti lasci perso nel tuo canestro ad affogare nella merda e a ridere di una risata sincera come quando la domenica la tua squadra vince.

Au revoir amore mio. Michelle, ma belle, sbracciata su una giardiniera decapottabile mi sembri una fatina ammaliante che fa l’ingenua sapendo di essere una puttana, o una puttanella, a seconda del sorriso. Che la luce eterna splenda su di te e sulle tue ninfette bagnate nell’acqua dello stagno di casa mia.

Cimitero rock


Un killer della memoria si sparge come olio su una farfalla araba e a occhi chiusi spira tra le fauci di Odino. Voci di ragazzi implorano il cielo per una rivoluzione silenziosa mentre gli occhi scoppiettano come fuochi artificiali. E il pubblico osanna. Osanna nell’alto del cielo. Un concerto di voci spaccano il fondo di una bottiglia mentre io scoppio a piangere. Il dolore del mondo celebra la propria gloria. Mentre il cuore scoppia di risate allegre e si consola con una palla di chewingum.

Andiamo e vinciamo al suono di una chitarra. Ma andiamo dove? Andiamo e preghiamo una poesia rock.

Evviva Bambi e Babbo Natale.  Fluida energia che scorri dalle mie mani e purifichi la mia anima come acqua benedetta. Un suono d’amore sa di cioccolato.

Rose rosse e cioccolato sono il profumo dell’amore. Un amore rock.

Divino verme che strisci sotto la terra e ti nutri d escrementi putrefatti. Sei il suono silenzioso della natura che lacrima e vive. Tu mangi i morti e vieni mangiato dalle piante che ci nutrono. Senza di te non ci sarei io. Non posso non amarti, anche se mi fai oggettivamente schifo. Ma questo è l’amore. Sangue di lacrime riflesse sull’acqua.

Cimici che scorrono in un pozzo di petrolio che canta un inno nazionale della nazionale di calcio. Forse un giorno potremmo urlare di nuovo Forza Italia.

Al grido di un osanna che ritma una musica tecno io vi saluto vermi della terra che leggete queste divine stronzate e viaggiate con me nei meandri della pazzia.

E ridete piangete e godete e morite e vivete. Nell’immenso gioco di un verme. Col silenzio di un blues balla dentro di noi e ride. Come un pazzo che ci mangia il cervello a uso e consumo del dio dell’infinito. Bevo vino e schiaccio pesci con i piedi.

E mi curo con il ghiaccio dei sensi.

Ed ecco che la luce divina soffoca l’immensità del corno di un rinoceronte alla carica.

Mentre lo guardo mi domando come mai i programmi televisivi della fine del mondo sono finiti. In fondo, chi non si è addormentato la sera prima con quel dubbio solleticante che chissà, forse forse, non si sa mai, e se fosse vero? E se fosse per domani. Perché un giorno la morte arriverà. Ridendo come una pazza. Ma arriverà. E allora siamo, pazzi. Siamo, quello che siamo. E basta. Solo così potremo fregarla. Diventando più pazzi di lei. E di quel verme che mangia. Che ci mangia. E che ci caga. Escrementi di verme siamo. Merda di verme ritorneremo. Ridendo. Sotto la pioggia di un cimitero.

Benvenuti nel delirio.

Benvenuti nel sospiro di un alito di birra.