L’atto del proletariato


Mi cibo di rotoli di spazzatura eterna. La sapienza ci viene da boccioli di alberi morti che respiriamo in un attacco lancinante di diarrea. Sono quelli che portano avanti il progresso dell’umanità. Là dove il sangue si mescola alle feci vengono poste le basi di ogni sana rivoluzione del proletariato. Gay compresi. Meno male che c’è What’s Up. Che ci libera dal peccato. Perché i dieci comandamenti sono fatti per riunirci davanti ad una pietra tombale di margherite che sanno di divina commedia.
Sento un sapore di arrosto di sberle e mi chiedo se anche questo Natale sarà come gli altri e Google ci manderà un sacco di torte sulla testa mentre dormiamo e sogniamo polli allo sbando che si gettano fango in faccia e usano le gengive per dominare sul creato color cioccolato in lacrime.
Chatto con il Che che mi racconta del suo viaggio in Colombia, tra cascate di piombo e tortellini alla panna affinché la fuliggine di una mietitrebbia si coccoli con carezze di una santa bevitrice che vede la Madonna scendere dal pelo pubico. Preghiamo insieme e diciamo Pane e Volpe la mattina per aprire lo stomaco e digerire i rospi della giornata così che il pavimento non sia più verde metallo. Il Che si affanna e mi appanna il parabrezza col fiato fetido del suo sudore. Un calcio nelle palle di un asino che si affatica sul tornio di un gelataio che sa di ragù di pollo fritto.

Un fiato tutto d’un fiato.


Il fiato di un pesce lesso puzza. Non lo sapevo, ma è così. Se ti rutta addosso diventi blu cobalto. Tutto è dovuto al piombo che si masticano con i chewingum americani in palestra. Anche Donatella credeva che la pizza fosse fatta di pomodoro ma ha dovuto piangere lacrime feroci scoprendo che il giudizio universale è solo una barzelletta per froci adulteri.
Sedici mazzette al pio Greganti che difende con onore il comunismo dei pescivendoli. Ma votiamo uniti davanti a dio e alla corona che difendiamo con orrore dalla Svizzera. Con una mano antropomorfa mi seggo davanti alla luna e leggo pezzi di poesia marittima alla Musa che mangia un piatto di pastasciutta col ragù che le cola dagli angoli delle labbra e si pulisce con la sottana liquida. Votiamo e vogliamo e gorgogliamo nel mare della puzza sotto il naso i rappresentanti del mondo dell’aldilà per andare all’inferno con convinzione democratica. E tanta, tanta, rinnovata speranza in un mondo migliore che si rinnova a ogni nuova elezione.
Per perpetuare il ciclo occorre grattarsi la panza con stuzzicadenti carnivori ed è quello che faccio davanti al consolato delle pere tirolesi che mi sorridono suadenti togliendosi la minigonna dalla faccia. Mi butto in un lago di ceretta e pesco il mostro di loch ness che si era perso e stava annegando. Per cui mi premia con un annegamento rapido in questo cesso di verità a poco prezzo per te amico mio e per lei tua moglie che è un finocchio come te, ma oramai siamo moderni e dipingiamo tele di televisione spastica a olio extravergine.
M’ingarbuglio e m’intruglio con sommo piacere
In questa estate
Mai cominciata
Ma sempre
Partorita

Mallo collaterale


Un vacuo odore assale le narici. Chiudo gli occhi. Sono una farfalla israeliana. Sbatto le ali su ghetti di donnole in calore. La farfalla vomita un grido divino su litri di latte di pecora divisa in settori di attività su pescatori di cinghiali in umido radioattivo. I quali ringraziano il Signore pregandolo di mandare anche sciroppo di noci e prostitute di mandorle affumicate al gusto di vacca boia.
Il merlo indurito dalla lunga castità soffre di priapismo laterale, quindi se la passa tutta la giornata coll’erezione del becco a sinistra, verso il PD.
Un semaforo rosso mi regala una pianta di rosmarino per guardare al di là della mia ombra, ma non mi trovo. E non trovo neanche te, ma sento il tuo sguardo e vedo la tua anima saltellare da un punto all’altro dell’universo in una cantilena di gioia incantata e rabbia repressa.
Un ramo di alloro vola senza ragione dal tuo cuoio capelluto al mondo dell’aldilà per assassinare i valori morali e la morale del valore in uno specchio d’acqua scintillante sotto le spore di alluminio che piovono assurde da un cielo negro e razzista, giù per il midollo spinale della freccia nera.
Un grido di dolore riassume in centinaia di parole la purga della mezzanina in uno iato finale della caccia al tesoro di un’umanità che si rinnova come pulci in un universo cane. Il senso è senza senso a meno che non ci si gratti ogni tanto e si faccia pulizia delle pantofole che guardano una televisione immortale come Dio.
Mi rifugio in un sottoscala cadaverico mentre mi isolo dalla società accorata in una sifilide assassina e sorridente che mi guarda dal filo spinato mentre si mastica le unghie piene di smalto corrosivo. Un iconico latente si profila a mezzo posta e lava i vetri dell’ufficio mentre possiede il grano con un afflato di spavento nero.
Mi appendo alla parete in una crocifissione con chiodi di ragù al salmone e resuscito in una torta di compleanno per una beata mucca fatta di diodi e transistor che viene montata da un dirigente profumato di tangenti e liquidazioni milionarie. Mentre i militari muoiono nel deserto dell’India, là dove le belve si compiacciono della loro immagine dai toni fecondi e suonano la lira per comunicare il loro amore all’amato pan grattato.

Placido, ma perché?


Un erotico sciogliersi dei vegetali in questione mi porrebbe l’interrogativo di sottostare al placido dentista in questione. Il che è una questione da definire in quanto tale. Una preghiera all’Altissimo mi purga lo stomaco.
Un’autoipnosi intestinale che parla col colon-nello che impartisce ordini di merda a un battaglione di suocere in pacchetto regalo che abbaia come un branco di lupi impazziti. Notevole. Ma insufficiente per garantire lo svolgersi corretto delle elezioni. In una dittatura delle banane.
Sento un odore di cracker alla vaniglia. Fritta. Discorro d’ipotenuse ed ipotetiche sintesi delle grandi battaglie che hanno agevolato il fisco italiano nella preparazione del ragù alla bolognese.
Un ritmo di patate che non concede niente alla sufficienza del vento freddo che viene dal polo. Addio corrente del Golfo. Una nuova glaciazione testicolare si affaccia in un corpo affamato di energia.
Un gerbillo errante nella faccia di una vedova bambina che piange al ricordo triste della sorella morta in un tragico incidente d’acqua e freddo.
Una pantomima fredda e turgida si masturba il nasello cantando canzoni della resistenza.
Addio sirenetta che tu possa tornare nella terra della lupara bianca.
Una poesia che rutta sangue nuota nell’alveare del mio cuore e annega in un lago di petrolio condensatosi per resistere al freddo di una colica renale. Un arrosto di maiale richiede un apostrofo, il che è eccezionale ma normale nella sede centrale della banca dei peschi della monaca di Monza.
La carica di ben hur si staglia nel cielo di una balena bianca che piange e rivolge le sue spire verso un polipo marino che suggella un’ambientazione color corallo rosso sangue che ride e piange e va fuori di testa per una manica di barattoli alla ricerca della verità.
Un polo unito di prostitute e gay e mamme borghesi dell’alta società manifesta di fronte al parlamento per la liberalizzazione delle droghe pesanti, mentre il tamburo batte. E mi assorda la mente.
Mi metto il casco e muoio.
Per sempre.
Senza senso.

Pus di sogliola verginale in calore liquido.


Sigola partoriente di uno sperma inflitto da secoli di barba ispida che si scontra con occhi azzurri che scendono dal cielo. Forma di stelle. E di marzapane. Godi puttana essenza di un’esca torbida e vogliosa. Tradisci la tua anima e mieti vittime di polvere da speranza. Un’anima in pena. Un’anima di panna.
Voglio l’erba voglio. Una farina bianca che si aspira come un palloncino.
Vedo e non vedo. Una foglia rossa di sangue. E di sperma liquido. Evapora in mille pezzi. Davanti al fiume rosa. Di petali cadenti dalle stelle di letame appariscente. A-E-I-O-U.
E ficcano le dita su per il naso.
E I O U.
E Fondono il retto decadente in sordide minchiate. Di roba sparsa in mezzo ad un garage. Martelli pneumatici.
Pneumi e aneurismi sono sdraiati su un pezzo di sciopero. Mano tagliata che disturbi il sonno dei cadaveri. Buoni per la zuppa. Elettroshock che si scioglie come amianto liquido. Un’alchimia inseguo. Una foglia verde rame che si trasformi nel mio oro elegantemente acceso a tavola.
Aristocraticamente. Balla il rock. E impazzisce di tagliatelle in grasso d’oca e sperma di cavallo.
Un cammello insegue una tartaruga e si accoppia con lei.
Una suora esigua si masturba con un righetto e una penna a sfera a forma di croce uncinata.
Una zingara piange sulla pioggia di una finanziaria che decapita persone e miete sanguesu ebrei e zingari.
Zingari ripieni di libertà verde pisello.
Sì, certo, mi ricordo Amir, ricordo che sparavi cannonate ai nemici, da piccolo, ma ora sei grande e ora devi sparare i missili. Ora sei un uomo. Un vero soldato agli ordini del grande Godzilla. Godzilla di guarda.
Godzilla ti vuole. Prendere con sé. E tu obbedisci e lanci i missili di mais e matate. E ridi a crepapelle, mentre coinvolgi seguiti di sciami di zanzare che si muovono come ballerine drogate di sperma liquido e vaginale.
Non pensare. Non uccidere. Abbraccia una monaca fuggente. E fuggitiva.
Schioda la fantasia dalla realtà e trucida le sette capinere.
Assali il sesso di un Dio demiurgo.
E quello di un Dio bestiale che sente di appartenere ad una setta di credenti impazziti.
La tastiera si muove e sa di bomba ad orologeria. Lo sento con la lingua. Lo amo con la milza. Amami amore mio e il mio cuore di mamma si tufferà nel profondo della primavera. In mezzo a stagni liquidi. E danzerà mietendo vittime di realtà multidimensionali che non guardano il satellite dal buco di una serratura ma bensì da una cioccolata a forma di sfera arrugginita. Fu così che finì il mondo, mio caro. Dietro al sole.
I pianeti si mettono il rossetto. E adocchiano il sole dietro una cortina di stalle che sta mangiando il crack per flippare di energia cosmica e soddisfare la propria lussuria plateale. Il tutto davanti ad un pubblico gaudente che applaude e ride. Tira pomodori al sole e si scioglie in un’orgia di tuberi e patate pericolose che esplodono ad una certa ora schizzando il sangue tra piatti di pasta e uccelli del pleistocene.
Un periodo d’oro per il ragù. Fiori esplodono d’amore e tirano le funi tra miseri soldi e attrezzi da lavoro di contadini liquidi. Dosando accuratamente la fonduta al formaggio mio accorgo della difficile missione del decano della spiritualità che accondiscende alla contraddittoria allusione di Platone sulla meritocrazia delle pillole di Aragosta. Liquida. E rock. E tardo. E plop. Un plot che non ruggisce. Una stronza strada di stradivari.
Esco e non esco.
Un piatto di lupini. Liquidi.
Una grande volta storta si riempie di pus.
Al rimpianto di una storia d’amore mi reggo e mi aggrappo ad una liceale in minigonna.

Pop


In una sequenza di lombrichi avvelenati Irona sceglie i propri partner per una eternità di erotismo completamente sciolta in un mare di ceneri tombali. Creta nelle mani di un dio creatore fa e disfa il lungo alimento di granuli di passione arrossita di brufoli che danzano una metallica rock. Granuli di festa esplodono nelle nostre bocche assetate d’amore di carnevale. Una maschera resta distesa dopo il passaggio dei carri da fieno e lentamente si libra nel cielo.
Un aquilone di zucchero filato passa piangendo davanti al negozio di scarpe per bambini urlanti. Il suono gracchia nelle mie orecchie solleticando il timpano come una campana di vetro sorda che uccide i figli e li riduce a briciole di vetro.
Sciarada di pane imbocca il midollo spinale di una zanzara forgiata per resistere nei secoli a pesticidi e pesti bubboniche assetate di petrolchimica.
Aspetta, Cosima, aspetta lenta il passo del cane Lepido e si accolla i lacci delle scarpe con gesti posati e corretti che suonano invisibili a chi non li sa interpretare, come un mimo in calore.
Un urlo di cane si sparge insieme agli spruzzi di ketchup contro le vetrate di mosaici arrostiti alla brace. Carne di capra mescolata a fette di pene in insalata vengono sciolte in una salsa africana al peperoncino e mangiate ingozzandosi.
Canarini silenziosi si accendono una sigaretta prima di mescolare il Cristo con la santa pozzanghera.
Signori e signore vi presento la valigia rossa, raccolta nel campo di patate insieme al ragù della nonna.
Una pioggia diafana che punge le zanzare e provoca una ridarella incontenibile e la dissenteria. La cacca di zanzara è peggio delle punture, ma oramai la frittata ambientale è stata fatta e ora speriamo che non inventino anche le zanzare giganti.
Mi accendo un accendino col fuoco di tante mogli e grilli che cantano musica pop.
“Quante patate raccogli tanti occhi hai liberato dalla prigione” “Cazzo hai fumato?” una risata incontinente si sparge assetata di pomodori verdi fritti alla fermata del treno.

Il grido di un’aquila


L’abbraccio d’un’anaconda è flessibile in termini di baci e di limoni. Io metto in subbuglio una parte del mio cuore per gridare al mattino una favola d’agosto che possa penetrare nel lavello di un capostipite calvo. Esprimo in termini di succo d’arancia una cantilena d’autunno sciorinata da una lavandaia durante una pioggia settembrina. Le parole scorrono come sci in una cascata di ribes e le immagini si fondono. Dissociamoci da vulcani di maccheroni al ragù e proniamo la causa della capinera di ritorno dal senso di una sibilla in calore. Perizomi aritmetici stimolano le mie papille gustative che si prostituiscono con gioia davanti al sesso di una cioccolata fondente.
Mi accarezzo il mulino a vento che si trova all’altezza di un capello che muore dal sonno e piango per la gioia di un giorno di riposo, un lungo riposo, un giorno lungo un’eternità che vale un crisantemo.