Una faina piange nel bosco disperata. Ha perso l’unghia della mano destra. Ha perso una gamba e si aggira dentro se stessa prima di impazzire liberamente per l’ultima volta in mezzo ad una dorsale appenninica. O stronzo che leggi, prega per noi. Ave gesuita che logori il pertugio impertinente togli il fetido alito della gloria di dio nell’alto dei peli di un orso con gli stafilococchi alterati. Una penna nera s’intrufola impertinente nel mio cervello e scrive dardi di seta pelosa.
Mungo una spazzola di latte odoroso e aromi di effluvi deodoranti si spargono per la stanza e ricoprono di ceralacca una mantide religiosa che fa ragnatele velenose di bile frustrata.
Tra cielo e terra, tra terra e le mie demoni divaricate. S’insinuano nella mia pelle per grattarmi e solleticarmi tra vene varicose e sudici pensieri di scavatrici e prostitute pelose. Stride il suono di un urlo bambino mentre scrivo lettere grondanti di sangue e penso che la lirica di un castoro vale più di un debito bancario con preavviso di un adipe adiacente.
Volo tra larve sconosciute e vedo farfalle di colori a venti megapixel. M’immergo tra pulzelle diafane per fotografarne le posizioni combacianti. Erigo statue di pongo alla divinità greca per celebrarne la bellezza triste.
Mi sparo.