Una lucertola guarda nell’occhio del silenzio mentre una partita a poker si gioca tra pavoni allupati di gioia elettrica. Una sirena si staglia nella notte della foresta. Un antifurto o un urlo disperato? Il gioco va avanti e impone ai giocatori di spurgarsi dalle loro fatiche finché non passeranno al livello successivo dopo la morte del personaggio. Supermario si raggomitola in un angolo perché non ne può più di giocare, ma è programmato per continuare ed è meglio far finta che dire la verità. Lo spettacolo deve continuare per il divertimento di Capitol City.
E tu Mario? Che fai? Ne è passato di tempo da space invaders e il commodore 64 ma il gioco continua come prima, come sempre e tu ora devi giocare. Per 300 euro al mese magari, ma a tempo pieno. Ora sei tu nel videogioco e giochi la vita. Non preoccuparti. Un giorno finirà. Quando sarà troppo tardi, ma finirà. Hai voluto diventare un burattino senza fili? No, non volevi, ma è così e basta. Mentre la lucertola si toglie la benda e vede attorno a se i fili neri della morte smette di sorridere e se la rimette e continua a ridere come prima. Cieca ma beata.
Una sessione di vene sanguinolente succhiano linfa vitale da canali scoperchiati di lingue violente che amano la tortura e guidano contromano. Un paesaggio presente, ma lontano e passato che non conosce colori ma ama, dicono, e parla d’amore, e compenetra anime e corpi di colori che non restano dipinge la nostra anima e la lascia assetata di nuovo. Ominidi in giacca e cravatta osservano stupefatti, pietrificati su trespoli di sterco essiccato e ululano alla luna un posto al sole per dimostrare che anche loro meritano il bonus di fine anno e quindi esistono.
Benvenuto tra gli insetti.
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Coca cola?
M’immergo in una genesi genetica dell’universo multiolografico e mi sento una proiezione del pensiero di altre civiltà che vanno in Spagna a curare i bambini malati di cancro danzando una danza strana e piena di luce. Il Poltergeist mi guarda e mi sfida a una partita a poker col morto ma non me la sento e gli regalo una coca cola scaduta da due anni. Lui la beve e mi fa “non è light?”. Eccomi fratello che arrivo a farti un favore illuminandoti la strada piena di buche fatte di prosciutto in carrozza. Dolcemente mi guardo intorno e scopro le interiora di una bufala che mi guarda attonita e si masturba alla mia visione divina. Potremmo fare una giocata insieme? Mi propone l’alieno che scopre la terra e giudica lento il processo civile italiano in modo che ci becchiamo una condanna anche dalla corte intergalattica. Procediamo a frattali, fratello frate e sorella luna. Nel cantico dei cantici cantiamo un amore candido ma non al divino. Alla sposa dell’umanità : la coca cola.
Perché noi l’amiamo a fondo e profondamente stappiamo e beviamo quell’estratto di coca che speriamo che nel nostro stomaco diventi cocaina che è più buona. La massa trucida di fedeli maomettani sfila educatamente per l’autostrada del sole e chiede ai padroni di essere più buoni, più buoni della coca cola e di un amaretto di saronno. Chiediamo scusa per essere fedeli alla parola di dio e della lucidatrice dei pavimenti e quindi ci beiamo (?) anzi beliamo come pecore davanti al buon pastore, chiunque egli sia e trinkiamo una nave pirata che spara ai saraceni in fuga dalla capitale dei buoni romani
Merluzzi improvvisati
Un sapore acido di giallo limone mi attraversa le vene e parla di Dio a un’Elettra confusa per la morte del padre. Le Erinni danzano in coro e vogliono sangue per placare la loro sete di vendetta in mezzo a tori scatenati. Mi ricordo delle canzoni psicadeliche che ci iniettavamo in vena ai concerti rock. Un rock di passaggio che ha marcato a fuoco mezzo secolo di umanità così come si marcano i buoi. Truppe di spazzatura che si muove agli ordini di atomi di merda dagli effluvi che fanno cadere i denti di un lupo che cerca il suo cibo in mezzo all’artico.
Nel brodo galattico nuoto in mezzo a grani di uva passa per odorare un circuito di formula uno e piangere solo perché hai cercato di scalare una partita di poker. Vuoi giocare alle mie regole. È un bel gioco. Quando si perde si cambia dimensione. Quando si vince si diventa sempre più simili a minerali. Desideriamo crogiolarci sulla sabbia di una spiaggia di un atollo nel pacifico e amarci senza granchi o meduse. Ma soprattutto in un mappamondo di diamanti che risplende e riflette la nostra saliva orgasmica.
Il fratello di Pinocchio mi parla e mi chiede uno stuzzicadenti in inox. Trovo che dovrebbe radersi ogni tanto che sembra un terrorista islamico. Gli cucio una giacca di pelle di asina e la imbottisco di piume di struzzo e sterco secco di pavone. “È la giacca più impermeabile che abbia mai avuto, grazie” mi fa mangiandosi un biscotto di marijuana insanguinato nella tazza che contiene le gengive di uno che è morto ieri di dissenteria acuta. Pesava centosei chili quando ha smesso di respirare ed è morto sulla tazza del bagno. Solo che ha continuato a defecare e l’hanno trovato solo per il tanfo che emanava il bagno. Una volta nella bara ne pesava quarantasei. “Ciao, alla prossima” mi fa il fratello di Pinocchio e si dimentica lo stuzzicadenti che nel frattempo è diventato d’oro.
Piattaforme maleodoranti
Cambio marcia in un’ironia elettromagnetica. Il sangue dei vinti scorre a piene mani e io mi faccio la manicure recitando una preghiera. Ave Giove che hai mandato Odino in barba a Zeus e insieme si sono leccati la figa. E noi abbiamo combattuto la battaglia dello shopping Natalizio per le vie maestre che ci hai mostrato tramite l’illuminazione dei lampioni. Ave cugino che passi per la mia casa e scorreggi a più non posso dopo una cipollata di fagioli. E ave a te Vergine della danza che monti i cavalli all’aria aperta di via Monte Napoleone. Negozi sfarzosi ammiccano alle fotomodelle e le abbracciano in una morsa letale. Succhiano il sangue e restano ad aspettare la prossima vittima. Ragni della moda sempre vigili e pronti ad una partitina a poker.
Mentre leggiamo scivoliamo su carote che ridono a crepapelle su mozzarelle in carrozza che cavalcano capresi imbufalite. Crediamo di rovistare tra falene che nuotano e pantegane che volano in mezzo alle nostre pupille fatte di spazzatura antiatomica. E troviamo solo zanzare impaurite che si erano nascoste tra il tartaro e le gengive di Gengis Khan.
Il punto è: Moana Pozzi fa parte degli archetipi junghiani?
Tutto si risolve in una melassa di cioccolato. Truccunidda si scioglie in uno scherzo allegretto andante ma mica troppo e svuota lo stomaco di lattine di coca cola accumulatesi nel corso dei suoi trecentotrentatré anni di pettegolezzi e maldicenze. Mi sdraio su una lattuga di marionette e mi dissolvo nell’etere radiotelevisivo. Appaio in spettacoli di cabaret e documentari sui cinghiali poliformi.
E applaudo il pubblico. Che scappa dalle sue pene.
Callivari s’incolla
Callivari al galoppo vince per un’incollatura. Una magnifica corsa al recupero della velocità si scioglie in un amplesso collettivo, mentre la folla belante porta un cavallo in spalla per massaggiargli la cresta e adorarne la coda.
In un candido sorriso, Callivari si lascia intercalare tra una foto e una magnificenza.
Cavallina cavallina storna, canta il cantico di colui che non ritorna e leccami l’ascella di mandido sudor che s’incolla, ma non si sforna. E accoppiati col Callivari che fuma un sigaro mentre gioca a poker col cavallo morto d’infarto sul traguardo.
Un traguardo di rabbia e sangue infetto si sparge sulla testa di cavalli e vecchi, vestiti da guerrieri con chewingum nell’orecchio a mo’ di orecchino. Una spremitura di mucca munge il malfattore nell’arena del sole e viola il patto generazionale senza togliere un ragno dal buco e una nuvola nera di fumo allucinogeno si estende dal falò di sterco di pelo nero.
Nuvole di peto di cavallo partecipano alla messa degli spiriti equini che si riuniscono alle nozze di Callivari e della Cavallina storna che formeranno una nuova famiglia di sangue puro per vincere e far impazzire, piangere e amplessare masse di unicorni sotto il sole di un mezzogiorno di fuoco che marchieranno a sangue puledri di un campione vichingo che ora guarda con gli occhi spalancati e sorpresi il tempo che scorre anche per lui e ammazza i suoi amici e fratelli.
Dimmi Cavallina storna dove sta colui che non tornerà, tu che parli con la morte e cerchi le ceneri del tuo defunto marito
in un sonno eterno che tra tre giorni e due minuti ti farà ricongiungere alla nuvola di peto nero e allora saprai, saprò e sapremo cosa cercavamo, ma allora, forse, sarà un po’ tardi.
Un sostegno nella vecchiaia
Divo sostieni una montagna di carta igienica e voli sottendendo la piantina asburgica di un tetto che ti casca sopra la testa e crolla in lacrime fendenti la materia che impasto come la pizza. Io narratore onnisciente mi diverto a giocare a fare il creatore e il disfare del semaforo della vita eterna.
Il polipo a mille braccia si stura il naso e si masturba il buco del culo mentre una nuvola di fumo intercetta le sue papille digestive e lo fa vomitare zucchero filato. Un vomito più dolce del miele. Ore diciassette e quarantaquattro, e mezzo. Il tempo fila come un rasoio sulla mia faccia da culo. Imberbe e scatenata.
Il rasoio scorre. Liscio come l’olio d’oliva psicodelico. Creature del pianeta marmellata si misurano i seni caducei e appendono le loro memorie a damigiane di birra che scatta fotografie di momenti d’incoscienza psicodelica. Penetra in tamburi di mente onirica e senza alcun significato. Rumore assorda le mie orecchie.
E dio disse, e dio disse, e dio emise un suono. Prima il tuono, poi, poi, poi il fulmine. E luce fu. Il senso di spazio s’impadronisce di locali notturni mentre un’identità violenta s’impossessa della mia coscienza inconscia e comunque non raggiungerà mai il nirvana. Sono solo un carnivoro puzzolente che non significa niente in un grande nero appeso alla galassia che vomita pece nera in ogni secondo che collassa in buchi neri, nero è nero ritornerà. Segmenti di bit cercano di trovare un equilibrio all’interno di televisori di transistor per cercare di raggiungere la divinità e colmare il digital divide tra nord e sud Italia. Marocchini si lisciano il pelo tra marmotte ricorrenti un piato di sugo al basilico.
Fino alla fine del tempo. Fino alla fine del tempo. Un suono di note stonate s’intrecciano ai miei neutroni e piantano chiodi nei crateri lunari formatisi tra le giovani marmotte. Mentre un cucchiaio di pasta si masturba pensando alle cozze bollite nello strutto di liposuzione. Una scia rossa di sangue scarlatto si tinge di blu pensando a quante carte da poker ha distribuito nella sia corta vita da broker. Scommesse e cavalli. Cavalli e scommesse nitriscono insieme in un coro dell’Antoniano gridando a squarciagola “la vendo per un franco”.
Una mucca bela come un tacchino spremuto a viva voce su una roccia di bromuro espanso e la toilette tira l’acqua insieme a uno stronzo cotto a spuntino. Salsiccia domestica che violi il territorio dell’acerrimo nemico joker in modo che finalmente Batman sfoghi la sua omosessualità altrimenti che su Robin. Oggetti a volo pindarico s’insinuano ridendo nello spazio tra due transenne di una manifestazione di polizia che carica se stessa a cavallo.
Esogenesi letale. Vita da Marte scende vistosamente. Alieni abbronzatissimi si distendono sulla spiaggia in attesa di formare una comitiva di asparagi body builder.
Marmellata di prugne
In una cannonata Iago perse una gamba. Svolazzò via che sembrava un palloncino per i bambini e lui, prima di sentire il dolore, stette a guardarla volare ricordandosi quando da bambino faceva volare gli aquiloni. La sua gamba. Che roteava. Poi sentì il dolore.
Un bruciore da far fondere il cervello come marmellata e quell’imbecille (di cervello) non staccava la spina. Non lo faceva svenire, no. Fino in fondo gliela faceva godere. Quando passò la croce rossa delirava, ma i combattimenti continuavano e lui non sentiva più suoni, sentiva freddo. Si stava svuotando come una damigiana di vino rosso. Con le vene che sembravano autostrade che finiscono nel vuoto. Mentre lo rammendavano alla meno peggio sperava veramente di lasciarci la pelle dato che comunque la vita non sarebbe più stata nemmeno lontanamente decente. Diciamocela chiaro, nella guerra all’Iran c’era voluto andare di suo. Spirito patriottico e riga. E soldi. Ma non solo. Anche spirito patriottico. Volato via in una nuvole di spruzzi. Ora sì che la cosa si faceva interessante. Avrebbe giocato a poker con Dio, il premio, la morte. Ma se Dio non ci fosse stato allora sì che gli avrebbe fatto del male. Gli avrebbe sconquassato paradisi e inferni e quinte e seste dimensioni. Gli avrebbe spappolato la gamba anche a lui, così vede com’è restare senza una. Ma avrebbe vinto. Era sicuro.
Con tutto quel po’ di sangue che gli rimaneva in corpo approfittò di una distrazione dell’infermiere mentre l’ambulanza correva tra le bombe e lo sballottava di qua e di là e gli sparò. Un’ultima cartuccia. E si sparò. Cioè, forse non c’era bisogno di far fuori l’infermiere, pensò due secondi prima. Ma va beh era venuta così. Non c’era tanto da pensarci più.
Ok Dio ho barato, ma non sto certo a fidarmi di te. Poi la pallottola attraversò la scatola cranica, da tempia a tempia. Un attimo, ma una distorsione del tempo gli fece ricordare un cioccolato al limone che aveva mangiato con suo fratello Giangiacomo il giorno del matrimonio (di Giangiacomo). Quel sapore gli esplose in bocca, che se lo sapeva prima, mica ci pensava tanto a spararsi.
Puttana triste sul lavello
Valvole di gioia spremuta zampillano dentro brache di seta nera a forma di ermellino. Una fumata nera ondeggia sinuosa sulla costa della California. E un’ondata gigantesca sforma le facce illibate che osservano ipnotiche il colore del sangue che si abbatte su di loro. Un’entità lasciva. Una morbida essenza d’aria. Un’oscuro fetore di assenzio che droga le narici di un eroinomane mi convincono a giocare la mia ultima partita a poker col morto. Un cadavere di speak si muove dentro lo stomaco ed esplode in un pianto dirotto che mi fa giocare al rialzo. Il morto vede. Poker d’assi, anche lui ha un poker d’assi. Ci abbracciamo e ce ne andiamo a fare l’amore.
Un’aguzzino gira per le strade di Napoli urlando a squarciagola “vi vendo per un tallero, pezzi di prosciutto”. Ave o Cesare, ave centurione, che i morituri ti sturino il naso.
Nella foresta magica mi sciolgo in un barile di Nutella. I ricordi di dolore in salsa d’acciuga mi stritolano i nervi come fili elettrici in corto circuito. Un elettroshock mi attraversa i pori del culo e descrivo al telefono un ritratto di Picasso. Odi Odino i battiti automatici di questa tastiera che ti assassina le budella a forma di vongola.
E applaudiamo il cantico di una cicala triste che muore, mentre noi voltiamo pagina e pensiamo.
Il gatto con gli stivali?
Un gatto siamese si stende tra le stelle e si liscia i lunghi capelli da hippy.
Era Ontario: il gatto OGM di miei vicini che l’avevano raccolto dal porto dei Servi dell’Ancora Galleggiante.
S’era perso dopo che l’avevano scaricato in mare insieme ai rifiuti di noci di cocco. Arrivato a riva a forza di zampe, il prete della Parrocchia di Cristo Lungimirante lo regalò a de poveri cristi. Ed eccolo qui. Biondo, occhi azzurri, una coda a forma di parallelepipedo e zampe che volendo, possono girare di 360 gradi e fare da elica permettendogli di gareggiare con qualsiasi barca a vela.
Riuscivo sempre a batterlo scacchi, ma mai a poker e sapeva recitare a memoria i primi tredici canti dell’Inferno.
Eravamo diventati amici perché io lo consideravo intelligente per essere un gatto e lui mi considerava simpatico per essere un umano. Mia sorella lo trovava persino sexy e, col fatto che era un gatto, nessuno ci trovava niente da ridire sul fatto che ci dormisse insieme. Solo che nessuno aveva mai visto il cetriolo che gli veniva in mezzo alle zampe quando la guardava o parlava di lei.
Io sono uno che vive e lascia vivere e non lo raccontavo a nessuno, almeno per ora.