Mi sveglio dalle quindici mani che mi toccano durante la notte e sogno palle di spiedini arrostini che mi imbavagliano i piedi e impediscono loro di urlare intanto la sveglia grida e gracchia come un corvo stupido. Melenso si iscrive a un corso di scrittura e veleggia verso lidi incantati da lucciole a pagamento. Per forza mi siedo ai piedi di un tronco di senzatetto e raschio la mostarda dalle ghiandole salivari di una pantegana zoppa. Grido nel buio di un deserto delle salse tartare e guardo le bolle di pus scoppiare nel silenzio dello spazio di una tempesta solare.
Leggendo l’odissea galleggio nella flottiglia di asparagi che trasmettono alfabeti Morse agli egiziani in guerra con la patatina fritta che li ingloba in un tubo di cemento che misura ventisette once di farina all’uovo. M’infilo quindi in una doccia dissacrante e controllo il capostipite delle lettere dell’alfabeto sotto vuoto spinto. Un Eros saltellante e una Psiche sull’orlo di una crisi di nervi ma saldamente.
E tu amico mio. E tu e noi. E voi che ci guardate giocare con le carte da tressette. Un movimento assurdo ma contento. Che si crogiola di sedicenti avvenimenti che portano a reggersi sulla punta di una sedia. Che un rivolo di cacca scivoli dalle tue labbra mentre porti sulle spalle i peccati del mondo, ma non capisco perché perdonarli, solo perché non sanno quello che fanno all’interno di un codice binario. Solo gli idrovolanti sanno quello che fanno. Allora perdonami sempre.
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Mi stiracchio in una giungla disabitata
Mi guardo i piedi gonfi di orgoglio e me li massaggio con striature di grigio. Ormai “sfumature di grigio” ” forza Italia” non si possono più dire senza evocare strani sentimenti a curvatura nucleare. Durante un chewingum di strutto rosa penso alle cazzate di pinguini arrostiti in sale semicurve che sgommano su processi di prostitute organizzate e amanti urogenitali che si prostrano al Priapo di turno. Guardo le mie unghie colorate di verde pisello e mi chiedo dove saranno spostati i canguri di domani e se potrò mai guardare la luna da un pianeta del sistema solare di Alpha Centauri. Che bel nome. Chiamerò così mio figlio, un giorno. Quello che avrò da una formica aliena in un’astronave di miele cosmico col quale leccherò e mi farò leccare in un fuoco artificiale di vulcani e ossimori adiacenti.
Perché mi mordo il labbro superiore destro e intingo le parti genitali su carboni spenti di lava che non lava? Perché non demordo dal rincorrere una berlina bionda e aitante che sparge il sugo del proprio pomodoro su calli veneziane tra sparvieri neri e gondole in ricordo di felliniane capinere (giusto per Tilla).
Armi di Teodorici villano nel viatico suburbio in cerca di molle aspidi che segano corpi mutanti di coleotteri gay. Io li osservo entrando e uscendo dalla loro storia per andare in bagno a provare orgasmi anali in posizioni tricolori. Cerco di convincere i miei eroi a condire un’insalata di struzzi con armi leggere che possono vincere la guerra dei mondi infernali tra Erinni lesbiche e esodi di ebrei sciolti in una giungla di acido solforico.
Andamento lento
Il ramo pitarro fa una sega alla scopa benedetta mentre prega per la pace dell’anima sua. Vedo un lampione suburbano che naviga bellamente sulle strade di new york e canta le lodi del signore.
Nell’anno duemila dodici si sperava che la fine del mondo portasse almeno ad una eliminazione degli stronzi, invece manco quello.
Mina si suicidava un po’ tutti i giorni tramite l’uso eccessivo delle sigarette e voleva disperatamente morire e cinquant’anni, ma non ci fu verso, e diventò centenaria, quando smise, morì.
Ernesto si masturba davanti ad una colonna in piazza centrale, sotto la cattedrale, mentre il generale a cavallo lo guarda a bocca aperta, lo lascia finire e lo arresta.
Pedalo in una bicicletta d’oro, la quale lentamente comincia a sciogliersi al sole finché non diventa burro e io la lecco sull’asfalto.
Mi addormento lentamente mentre i miei piedi scoppiano caldamente in una ciminiera accesa che scarica bitume diventando olio di frittura.
I piedi tristi
Ho i piedi malinconici. Ho gli unici piedi malinconici dell’umanità.
Nessun piede è più malinconico del mio.
È un piede carino, giovane, soffice e vellutato come quello di un bambino, e come un bambino è triste e piange e quando piange tutto il mio corpo piange: fegato, cistifellea, stomaco, bile, succhi gastrici, intestino, ossa, gola, capelli, naso e unghie, eccetera, tutti inconsolabili, come una ridarella al contrario. E in più sono in due E non so cosa fare per convincerli e non è che posso picchiarli, pure peggio.
Ho provato a massaggiarli, e proprio così si sono rattristiti; potrei andare in negozio e lamentarmi, ma oramai sono fuori garanzia e poi mi ci sono affezionato tanto che oramai li considero parte di me. Nel manuale delle istruzioni c’è scritto di accarezzarli con affetto. Forse non ci so fare tanto con i piedi, come con le piante d’altronde. Ora li ho lavati e sanno di mandarino sovietico, ma fanno il solletico e li gratto con foglie di rosmarino e lavanda, forse sarebbe meglio un po’ di orticaria tremens.
Chiedo ad un alieno di passaggio se per caso sa come risolvere il problema ma mi risponde balbettando che lui i piedi non ce li ha mica mai avuti e se per caso posso prestargli i miei. Io gli dico che posso prestarglieli ma solo se li tratta bene e me li restituisce domani mattina. Lui mi promette che sicuramente. Io allora cammino sulle mani e aspetto che mi restituisca i piedi.
Glieli ho dati perché era un povero barbone e mi faceva pena e per un giorno l’avrei reso felice anche se i piedi sono un po’ tristi. Il giorno dopo non si fa vedere e io penso che verrà il giorno dopo. Invece viene effettivamente e mi restituisce i piedi piangendo e mi dice che non è mai stato così triste in tutta la sua vita e che mi li tenga io per sempre. E allora me li rimetto, ma a questo punto ridono e sorridono e sono contenti di avermi ritrovato e anch’io e non pensavamo di essere così contenti di ritrovarci e da allora viviamo per sempre felici e contenti.