Cadaveri in lotta per la sopravvivenza stappano una bottiglia di champagne


In una serie di alterchi una testa mozzata si smarca dalle isole del Madagascar e sposa una turckmena in nozze coniugali per lettera epistolare. Una voce dal nulla canta una musica country lounge e mi racconta le sue esperienze di sesso nella prateria danese tra chitarra e mandolino, birra e pisellino. Ma è in Botswana che sono nati i Watussi? Così. Mi suona. Ma magari non c’entra un Kenya.
Scrosciano gli applausi tra spire di libidini biforcute e la voce suona e intona una marcia nuziale per cadaveri smartphonizzati che comunicano ma non comunicano, parlano e ascoltano il suono del silenzio rimbombare a campana in echi vuoti e spazi siderali senza ritorno né alla vita né alla morte e senza sapere se l’aldilà è ora o tra un mese e in fondo chi se ne frega.
Quindi balliamo la salsa di pera tra siringhe di pace e spruzzi di liquidi riproduttivi e lecchiamoci le orecchie mormorando parole d’amore bastardo per ritornare alle origini di un baccalà beccamorto che dipinge volti sereni prima di seppellirli e non riesce a dipingere quelli viventi che si muovono troppo s’innamora di una in coma. Una passione che dura una vita. E una morte.
Ma, in fondo, piango?

Specchio delle mie brame


Specchio delle mie brame
Un urlo spacca i codici genetici di una squadra di capi cantiere e azzanna il marcio generale della repubblica della pera matura. Da lì nacque …
Rana, questo è il suo nome, non è stupida, anche la mattina marcia al suono delle trombe sulle uova marce, ma ha una sua intelligenza. Specie quando balla il flamenco con i suoi cento chili, rotondi, rotondi. In sottofondo una voce di donna mi dice che è pronto il pranzo.
Ma Rana mi parla di un deserto di dolore e di una vita di sopravvivenza che le hanno insegnato a fregarsene del dolore e dell’angoscia e fraternizzare con il nemico per usarlo e abusarlo.
Mi parla, Rana, con la sua facciona da pesce palla triste con gli angoli della bocca che piegano all’ingiù. Con i suoi capelli neri e grassi e grossi e corti in quello che normalmente sarebbe un “caschetto”, ma che su di lei sembra la caricatura di un maxi toys.
E sento una voce rotta come un gesso che stride sulla lavagna.
E allora sono io che piango.
Ma senza lacrime.
E allora ci scherzo su e le chiedo come va la sua bambina, sì perché diversamente da me, è anche riuscita ad averne una con qualcuno, ma chi?
In teoria io non sono così brutta, anzi, né ho una voce così stridente e non ho vissuto una dittatura militare, no, sono anche bionda, però quando i nostri occhi s’incrociano non vedo una persona tanto diversa.
Vedo la mia stessa paura farsi persona e mi spavento ancora di più.
Forse per quello che anni fa non potevo neanche sopportarne la presenza.
Ieri, bevendoci un caffè negli uffici asettici della Federazione guardavamo giù dalla finestra e ho avuto un vento gelido nella schiena dopo che ci siamo guardate sorridendo.
Avevamo guardato giù e, inutile mentirsi, avevamo pensato tutt’e due a come sarebbe stato bello farla finita. L’idea, solo l’idea di essere così intima dello Specchio di Tutte le mie Angosce mi dà l’insonnia, che già non basta quella che ho.
E mi vedo già volare nella nebbia grigio nera della notte passata a guardare il soffitto e a sentire l’amore sbocciare per lei.