Paco azzurro sceglie i feromoni della galassia rinomata da un vino spumante doc che resuscita i morti dopo la fine del mondo. Uno stappo nucleare rimette i cordoni della borsa in una situazione analogica senza saper usare l’informatica correttamente. Un parlo mi tarla la cervice e mangia l’insalata delle mie sinapsi croniche mentre ragni escono dalle orecchie e devitalizzano i nervi ottici il cui liquido seminale è succhiato da vampire orride che segnalano il fruscio dell’onda dissanguata tra un cestello di vimini e un Viminale stampato in fronte alle ghiandole surrenali.
Pazzamente pazzo il delirio si spalma su una zolletta di zucchero oleoso. Una canna traduce gli effetti del gracile Minotauro che stura le orecchie da un’allegra banda bassotti. Il riso allegro di una banda di serpenti bambini rinvigorisce il clavicembalo di sarde aggrappate al canotto di salvataggio di un’elica municipale che associa pazzia e accattonaggio. Mentre il sonno cala. E la pensione diminuisce di valore. Ma la ripresa è dietro l’angolo, che aspetta e aspira, mangia e ride come un maiale e come un maiale alla fine diventerà salsicce alla griglia.
Una capretta s’immagina di volare nel cielo di un cardigan di lana di capra che la porterà dritta fino allo spazio siderale là dove un’astronave l’aspetta a pranzo. Per diventare l’agnello sacrificale che urina sui peccati del mondo.
Il pesce si asfissia abbronzandosi al sole cocente.
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Tabulé di rose 5 – Il plagio
Un plagio di un pertugio incosciente. Questa è stata l’iniziazione all’amore ai tempi dell’adolescenza di una quindicenne zebrata. Ziggy come si faceva chiamare mio fratello si appropriava del mio sesso e della mia identità ricordandomi che darmi a lui era mio dovere di buona cristiana.
Tutto cominciò con una cosa che facevo con la mia grassa cugina adottiva Tatiana, di origini albanesi. Ce ne andavamo nella sua casa nella campagna di Reggio Calabro in un vecchio casolare della sua famiglia, tra l’odore di rosa muschiata e di rabarbaro. Ci mettevamo davanti allo specchio. Nude. Ci depilavamo da cima a fondo. Anche lì. Soprattutto lì. Ci facevamo il bagno nel torrente che faceva andare un mulino attaccato alla casa e tornavamo correndo sotto il sole. Poi ci mettevamo a letto e ci masturbavamo davanti allo specchio. Ma meglio dire che ci scoprivamo. Io volevo sapere quello che sentiva lei e lei quello che sentivo io. E imparavamo l’una dall’altra. Baciandoci e toccandoci i nostri seni sodi che la pelle faticava a contenere senza esplodere. Femmina con femmina. Labbra con labbra. Dolci baci e calde carezze mentre i grilli cantavano così forte che ogni tanto pensavo che volessero attirare l’attenzione delle nostre famiglie.
Tatiana non piaceva a mio fratello. A lui interessavo io.
Un giorno mi seguì e poi mi seguì di nuovo con il necessario per riprendere tutto.
Poi entro’ nella mia camera, una sera in cui m’ero addormentata mezza nuda. Era un caldo che non si respirava
“Irina svegliati – mi disse – ho una cosa da dirti” inizio’ sottovoce e poi “Lo sai che ti amo tanto” “Sì, anche io ti amo” “Ti amo e vorrei averti” “Sai che non è possibile” “Lo sarebbe se tu lo volessi” “Ma io non voglio” “Ma sei cristiana e non devi essere egoista” “Non c’entra niente lo sai” “E allora non mi lasci altra scelta” e mi mostrò le foto e i video “Se non fai tutto quello che ti dico, tutta questa roba finirà in rete” “Ma sei pazzo. Distruggerai tutta la famiglia. Papà ti ammazzerà” “No, ammazzerà solo te, lo sai, anche perché non sarò certo io a dirgli chi ha fatto le foto” “Non puoi farlo, non lo farai” “Beh allora guarda qui” e mi mostro’ un sito che aveva fatto lui e che era già in rete e nel quale c’era già la metà delle foto ma che per ora era criptato “Ora se vuoi tolgo il criptaggio e lo rendo visibile a tutti.
Poi si tratta di caricare tutto su youtube eccetera e mandare qualche mail a qualcuno qui in giro”.
I grilli cantavano ancora ma meno forte di quando io e Tatiana facevamo l’amore e sentivo piuttosto l’odore dello spezzatino di carne di mia madre.
Ero in silenzio e seduta sul letto.
Lui in piedi davanti a me e lo guardavo negli occhi “Ti prego, lascia perdere. Certe cose è meglio che restino una fantasia” “Perché?” “Perché sì, perché lo dicono i genitori e i preti” “Sì proprio loro. E comunque non m’interessa voglio te e ti avrò “Lasciami un po’ di tempo”.
Per tutta risposta mi fisso’ e si tiro’ giù la lampo dei pantaloni e mi sbatté in faccia il suo coso, tra l’altro di discrete dimensioni.
Io lo guardai. Aveva diciotto anni, io quindici. Era alto e biondo che sembrava un angelo. E quello era per me. Un angelo protettore.
Mi aveva sempre protetto. Dove non c’era mio padre, c’era lui.
Mi ero sempre confidata. Dove non c’era mia madre, c’era lui.
Deglutii.
Lui aveva sempre deciso per me. Fare quello che voleva lui era un’abitudine e un piacere. A volte pensavo che se fossimo sposati non ci sarebbe bisogno di cercarsi un uomo e che insieme saremmo stati felici per sempre. Forse lo pensava anche lui. Forse anche questa volta aveva ragione lui.
“Che Dio mi perdoni” pensai stringendo le gambe e le palpebre.
Socchiusi le labbra e feci un grosso sospiro dalla bocca.
Sarà che avevo già in bocca il sapore dello spezzatino di carne. Sarà che volevo proteggere la mia amica Tatiana. O sarà quel che sarà. Io iniziai a succhiare e lui a godere accarezzando la nuca. Accompagnando i movimenti della mia testa e bloccandola al momento dell’orgasmo.
Mentre lo facevo sentivo scendere in gola il calore del piacere e della vergogna.
Mentre lo facevo lui mi accarezzava la testa e mi diceva parole dolci tipo “Sarai sempre la mia cagnolina” che col tempo sarebbe diventato “Cagna”.
Lui si era tirato su la lampo, mi aveva dato un bacio sulle labbra e se n’era andato senza dire una parola. Lasciandomi sola col senso del peccato.
Alla fine ero stesa sul letto eccitata e sporca.
Sporca perché eccitata.
Eccitata perché sporca.
Pregavo la Madonna quasi ad appropriarmi della sua purezza. Per il momento la verginità, l’avevamo ancora in comune, ma avevo la sensazione che la cosa sarebbe durata poco.
E avevo ragione.
Durante la notte sognai e risognai quella fellazione incestuosa e sentii mio Ziggy dentro di me come un feto e sognai di essere incinta e di dargli una figlia con la coda di dinosauro che si trasformava in un monaco cistercense che organizzava orge con animali con tonaca romana su bighe romane. E arcobaleni di melassa che si scioglievano al coro di tamburi africani su cui ballavano adolescenti zebrate con un collare e un guinzaglio.
Sentivo di annegare in una pozza di sangue e sperma e sudavo. Aprii gli occhi, credo e vidi un diavolo, credo, masturbarsi sopra di me, ma continuai a dormire.
Il giorno dopo avevo i capelli incollati a ciocche.
Topi fuggono verso una città di pere mature
Corre una squadra di calcio dietro a un torrone rosso liquido. Diviene una porta di assegnazione il molliccio stronzo da tirare per segnare un punto in una torre di fango che scivola sotto i piedi di ventidue ragazzini con pelo e corna. I loro cuori hanno paura. Temono il Dio. Sopportano la malattia carnale con uno sforzo titanico. Una guerra ormonale si scatena all’interno dei loro corpi scoperti e denudati. Dei della stanchezza sommergono lacrime condensate di ornitorinchi grigi. Una storia di verdi foreste e alberi abbattuti come pilastri di una chiesa travolti da un maremoto grida la propria gloria passata e la linfa scorticata da una terra ancestrale che muta e si rivolta a chi non l’apprezza.
Piedi callosi tirano gli ultimi calci a una palla ferrosa di ruggine incandescente tagliandosi calli corrosi dalla lebbra. E ululiamo insieme a loro: mummie che governano il tempio della solitudine artistica. Una folla di gobbi applaude la sfinge che guarda tristemente una stella lontana pensando “casa” e aspettando di parlare alla sua mamma.
Mangio un cane arrosto nell’attesa di un pazzo intelligente che mi racconti una barzelletta che non mi faccia piangere e ascolto musica elettrica che stimoli le mie narici verso odori equipollenti a logaritmi che leccano seni e coseni.
Svengo.
Succo di pomodoro e basilico
Ora Giustino si ritrova a correre con una sedia in mano per salvare almeno qualcosa dall’incendio del suo ristorante. Sta cercando di portare fuori anche il frigorifero e la carne buttata lì sul marciapiede tanto poi si laverà e intanto le fiamme mangiano metro dopo metro e il fumo distrugge anni di lavoro e di risotto. Ma ora non c’è tempo. Non può pensare a ricominciare e non si ricorda se ha pagato l’ultima rata dell’assicurazione. Ora sta portando fuori un cameriere quasi in coma dalla tosse e una cliente bionda con i capelli in fuoco e la pelliccia piena di pomodoro. Mentre la sua camicia bianca sembra un colabrodo cerca di asciugarsi anche le lacrime che sgorgano da un disastro annunciato. Quella bombola di gas andava, andava cambiata. Ma forse non era stata la bombola. Da quando si era rifiutato di pagare la tangente alla mafia era stato avvertito. Ora che guardava da fuori vedeva che stranamente il fuoco si era spento prima di distruggere tutto e forse, forse permettergli di ricominciare, pagando, ma di ricominciare. Ma no, non avrebbe ricominciato per dare tutto a dei cani.
Un mese dopo puntuali come la morte arrivarono.
“Ciao Giustino, mi spiace per l’incendio”
“Dimmi che vuoi e lasciami in pace”
“Lo sai cosa voglio”
“Lo sai cosa avrai, no?”
“Giustino, ascolta, hai una famiglia”
“Appunto che mantengo a malapena, se pago voi chiudo”
“Non puoi non pagare, tutti pagano”
“Allora va’ da tutti”
“Giustino, io sono tuo amico”
“Allora ascolta. Tu non sei mai stato mio amico, lo sei ora perché devi fare l’esattore. Se no tanti saluti. Comunque ora guarda qui”
“E’ una pistola, scherzi?”
“Guarda te lo spiego subito”
Gli sparò a una spalla, così, senza tante storie, ma senza ammazzarlo, non si ammazza per così poco. Forse l’avrebbero ucciso. Forse no. Anzi si’.
“Sei pazzo Giustino, ti ammazzeranno”
“Lo so, lo so. Ma se non sgommi in tre secondi morirai prima tu”
“Pazzo, pazzo”
“Ciao Amerigo. Ciao, saluta a casa da parte mia, mi raccomando”
Se ne andò. E lui prese il treno e se ne andò in campagna. Quant’era fresca l’aria e caldi i raggi di sole. Che strano. Queste cose le vedeva da giovane. Era da almeno vent’anni che non ci faceva più caso. Ma se non fai caso a queste cose come puoi dire che vivi. No, non è vita. E non è niente. E per chi e cosa era morto? Sua moglie non vedeva l’ora di divorziare e avrebbe passato la vita a passarle alimenti. Allora sia che c’è? Perché un’esistenza da schiavo invece che una vita. Una sola. Quel poco che resta. A fare il cuoco da qualche parte. Che in fondo il ristorante l’aveva aperto perché era un bravo cuoco. Aveva voluto fare il manager, ma sai che rogne, poi? Se ne andava a fare il cuoco italiano da qualche parte, in Russia, poi in Giappone, perché no?
Non scese dal treno, non andò a casa a prendere i suoi affari, troppo pericoloso e troppe cose da spiegare. Una telefonata al figlio ogni tanto, ma era già grande, poteva prendere l’aereo per andare a trovarlo.
E allora via. Verso la libertà. Da quanti decenni. Da quant’eternità. Anzi, perché darsi la pena di scendere dal treno, poi? Tanto il vagone ristorante c’era da qualche parte e anche qualche cuccetta. E allora ciao. Ciao amore. Ciao terra. Ciao mafia. Ciao a tutti. Di cuore. Giustino.
Tanto per cambiare
Aulico bulimico si diverte nella pioggia dei colori bianco e nero in una musica psicadelica che sa di merda. Giuseppe non sapeva che sua moglie lo tradiva e che si faceva di coca. Cola s’intende.
Le erinni consumano il loro piatto abbondante di cevice peruviano e mollano peti senza pudore e sudano senza fetore. Il giro dei venti si interseca al pollo allo spiedo di mia madre che si ritorce le budella dal ridere mentre lei lo spenna lentamente. Penna rossa penna bianca, caro amico mi sento bene oggi, cerca di tirarti su il morale anche se muori in un’esplosione nucleare. Vedi che le cose cambiano prima o poi? Lo so moriranno anche tutti quelli che conosci, poco male, io no, e quello è importante quindi siine contento.
Allegramente il pazzo ride e va al cine Se va al cine guadagna un pollo spennato e arrostito, che ride. Non ha voglia di andare al cine. Ha la febbre alta, ma ha voglia di pollo che ride. Si alza e si trascina al cine. Ma davanti alla cassa scopre che s’è scordato i soldi. Torna a casa per prendere i soldi. Torna al cine ma il film è già iniziato, allora ne cerca un altro ma non ce n’è più. Piove e si bagna. Prende una polmonite. Torna a casa e cerca almeno di guardare la tele ma si addormenta e sogna un film. È la storia di una vacca che si chiama Vittoria che vuole rompere il muro del suono. Prende la rincorsa e si scorna contro il muro dove sopra c’è scritto “suono”. Ma si rompe testa e corna. E il muro le mostra il ditino. E ride. E anche il pazzo si sveglia ridendo alla grandissima. Tutto passato, polmonite eccetera. Allora va al mercato e si compra un pollo arrosto e la risata se la fa lui. Ora vado a lavarmi i capelli. Che puzzano. E anche tu faresti meglio a lavarteli. E anche a lavarti il culo.
Va beh.
Crampo alle dita
Il trillo azzurro di una vacca che si muove con fatica, zoppa e guercia, mi solleticano l’intestino e ruoto su me stesso per chiamare una storia che mi gratti e dopo mi dica bravo. Audino si masturba in volo, mentre pilota un aereo tra Shangai e Hong Kong. Sorride Audino e parla con la hostess che lo guarda pensando se si è ricordata o no il regalo di compleanno di un’amica a Livorno. Una volta finita l’eiaculazione durante un vuoto d’aria Audino riprende i comandi ed evita di schiantarsi mentre i passeggeri stanno urlando canti della resistenza polacca. Il divin bambino s’insinua nella tana di una volpe e la cavalca per ore e giorni. Mentre un orologio scandisce la sequenza delle nuvole che passano io mi domando cosa ci fanno gli aquiloni radunati a coprire il sole di mezzogiorno a forma di rombo blu. Ma gli aquiloni sparano. Pallotole di zucchero e lecca lecca. E tutto finisce in vacca.
Diciamo che una forma di caffè si trasforma in pappa per neonati e il neonato in questione pensi alla risoluzione del problema di fondo della meccanica quantistica, ma muore prima di poterlo rivelare al mondo per una semplice influenza convertita in polmonite e poi ciao. E allora? Dove sarebbero i muri d’acciaio? Gli verrebbe un crampo alle dita? Ma se così fosse allora il pianoforte di mia figlia non suonerebbe più le musiche di Beethoven. E allora mi rifarei con le formule di Einstein. Dov’eravamo? Ah, alle palle del pilota. Che messo su il pilota automatico mette le mani addosso alla hostess che si lascia fare sempre pensando al regalo di compleanno dell’amica. Quando si accorge di quel che sta succedendo è troppo tardi. Questo è il prezzo da pagare per una cattiva memoria. Un pazzo a cavallo ride per il troppo galoppo ma scuote il cervello per ricavarne una zuppa già pronta.
Brucano le orchidee nel prato del re
Un rumore di rockoccodrillo tambura i miei timpani di un suono gravitazionale che aumenta di volta in volta gli elettroni in maniera ascendente fino a toccare punte che gridano con voce stridente.
Una zuppa annacquata imperversa nel mio palato. Mille odori scherzano tra loro. E una montagna di panna cotta ride a crepapelle. Afferro una castagna e la passo sinuosamente sulle labbra molli che sanguinano. Sangue di pesce spada. Un sale nero che sa di cacao.
Esplode.
Il pazzo ride.
E semina olio di fegato di sé.
Un rumore di Ferrari semina funghi sul giardino di Carotenuto che si sollazza il sesso nell’attesa di essere colpito da un sasso che sta cadendo dal tetto. Non muore, ma si diverte. “Non capita tutti i giorni” dice. E dopo andrà in manicomio.
Rullano i tamburi, strepita lo streptococco. Invita tutti i bacilli a una festa di casa di Attilio Mengara che si sta devitalizzando un dente molare. “Da lì al cervello” annuncia agli amici “il passo è breve”.
Sentieri di montagna crescono. Fatiscenti mucche bruccano l’erba profumata di gelsomino. E cadono le formiche come onde portate dal vento. Dolci come polvere bianca di cocaina. Si distendono felicemente e condiscono un tiramisù di patate lesse.
Il sessuale abbraccio delle parole
Una stringa di caratteri si avvolge al mio corpo e ne cerca i meandri più genitali. Mente sapendo di mentire e sussurra all’orecchio quello che voglio sentire. Maestra della strada e cibo di un fantasma che si materializza in mezzo a neuroni cerebrali finché morte non ci separi.
Una mente che serpeggia sinuosa intorno all’albero della vita tra i pilastri di Salomone che ascende al cielo in mezzo a strade tortuose di tartarughe lente e sagge.
Dio mente perché solo così può farti arrivare alla verità. Disse luce e luce fu. In principio fu la parola. L’abbraccio mistico di un delirio onnipotente. Un pazzo bambino che giocava con una penna a sfera. Un orgasmo liquido che ha creato il vino e lo spirito. Un abbraccio rettilineo che ci guida verso una luce orgasmica. Una luce che gioca con Dio riformulandolo geneticamente.
E io scrivo una marea di cazzate. Ma divine. No?
Ho riscaldato il mio cervello al microonde
Scoppio nell’ambito di un fantasma. Mi lascio andare alla follia che alberga sempre più padrona della mia mente e lo spazio mi sembra un grande vallata di fumo e alcol. Un grande buco dove il niente diventa e basta. M’abbandono alla lanterna dell’amore che scivola dolcemente su uno zucchero a velo di alito positivo. Un ambiente diverso. Fatto di gruppi elettrogeni e allucinogeni. Dove il sonno non alberga più. La notte è un immenso soffitto bianco mentre faccio l’amore con una chitarra elettrica e fondo i miei testicoli nell’assolo di una canzone che spacca i timpani ridondando come una campana a morto. La televisione continua a trasmettere mentre chiudo gli occhi e il telecomando cade dalla mia mano sinistra. Gli occhi finalmente si chiudono sul sipario dello sbarco di Normandia. Che ha trasformato un’Europa nel cinquantaduesimo stato degli Stati Uniti. Vedo un dentista che opera una bambina. Vedo il sangue schizzargli negli occhi. Vedo Che il sangue è il suo. Vedo che il dentista muore e la bambina scende e se ne va.
E il silenzio scende sulla mia notte insonne.
Gruppi di mosche s’insinuano intorno alla mia cena scaldata al microonde.
Onde radio si mescolano alle pustole d’alloro che circondano il pazzo che si aggira nella mia stanza mentre dormo e mi guarda e mi osserva e mi seziona come se mi conoscesse, come se fosse una parte di me.
Mi bacia e mi risveglio. M’illumino e vedo. Sciami di luci in una’arcobaleno di suoni color della cenere. Insieme ripuliamo i morti del cimitero. Finché la morte non viene a seppellire il bambino e la trinità divina.
Buon Natale toilette mia cara. Che ogni mattino accogli il putrido fiele che alberga il corpo di un pazzo.
Buon Natale a te, orifizio da cui scende un’ira molle color cenere.
Buon Natale a tutti voi, pazzi. Che sciogliete una mela nella bocca del demonio e fate sesso con un’aranciata di birra semovente.
Mi agito e scopro che il mio sonno altro non è che un insieme d’incubi e sogni agitati dalle note sgangherate di una sedia elettrica. Mi chiudo e mi rinchiudo nel caldo abbraccio delle mie lacrime che pensano a una seconda vita cullate dall’atmosfera di Marte e Venere.
Esco da una passerella fatta di angeli e plano su nuvole di smog al contrario e passo da una nuvola all’altra con le liane come tarzan e urlo un urlo agghiacciante che spezza il mio cuore e mi fa passare dal sonno alla morte.
E mentre osservo il mio funerale penso e ricordo a un tempo in chi non dormivo e sognavo di morire. E sciami di amare mosche lacrimavano in mia compagnia e di una toilette natalizia, forse un regalo di un parente pazzo.
Ora sento che la mia pazzia ride e piange e ama e lotta e siede alla destra del padre e della madre. Prego che la nonna si masturbi sul ventre di una balena rotta.
Solo così troveremo la pace nei sensi di una chitarra rock.
Another brick in The Wall
Mi fai schifo. È la verità. Tu che mi guardi mentre deformo i puntini neri davanti ai tuoi occhi. Mi fai vomitare. Sei una merda. E lo sai. In questo momento quello che ti interessa è solo sapere se sto meglio o peggio di te. Dentro di te posso sentire palpitare la paura che io possa leggere nella tua anima. Che possa leggere la tua paura. Di vivere. E di morire. Quell’angoscia che ti marcisce dentro. Che non vuoi sentire. E più marcisce e più puzza e non sai più come nasconderne il fetore. Per quello mi fai schifo. Perché puzzi. Sei un vigliacco. E non vedi l’ora di scappare via e voltare pagina. E allora vattene. Scappa. Vai a masturbarti da un’altra parte dove qualcuno ti faccia godere dell’oblio. E mi raccomando, non farti più vedere e non guardarti più allo specchio.
Perché quando lo farai ti ritorneranno in mente le mie parole e sarai costretto a pensare. A sentire. A odorare i miasmi che emetti. E diventeranno insopportabili. E avrai voglia di scoppiare. Ma non ci riuscirai. Dovrei vomitarti in bocca perché tu senta quanto fai schifo. Sei una fontana di odio e lo sai, ma non lo vuoi sapere sul serio, vero? Hai paura del diavolo, no? Hai paura di quel demone che si aggira là dentro, senza guinzaglio. Ed è per quello che ti comporti come gli altri, e stai al gioco. Che succede se gli altri scoprono quello che sei veramente? Hai paura di scoprirlo, vero? Scoprire che nessuno ti ha mai amato per quello che sei, nemmeno tu. Paura di essere solo? Abbandonato? Povera stellina, piangi, coccolino, piangi. E muori senza aver mai vissuto veramente. Senz’aver assaporato il piacere della verità, l’amore vero. Muori nel tuo fetore. Muori ora. Falla finita se tanto sai già che non ce la farai. O tutto o niente. Domani rompilo quello specchio e tagliati le vene. Vattene alla grande in una pozza di sangue che inonda le scale. E ringrazia me. Che per la prima volta ho parlato alla tua pazzia e l’ho amata come tu non hai mai saputo fare.
Odo un urlo
di gioia di vita
Odio un pazzo che m’a insegnato ad amare
Alzati e cammina o buttati via
nella fiera feroce
delle vanità
nascoste
dentro il muro di facebook
E Dio disse “C…”.
E Dio disse “C…”.
Un occhio vede al di là della porta. La chiave è il segreto.
Un miracolo si compie nella strada in mezzo al deserto e ascende alla quinta dimensione.
Un sogno erotico si stampa nel mio corpo e ne porto i segni di fuoco.
Evito di farmi portare dal vento della passione e l’istinto procede senza ragione.
Felicemente mi siedo della radura, in una sabbia bianca di dune scoscese, dove il mio piede affonda, bruciando. Non c’è spazio nel calore. Il fuoco arde e mi consuma l’ossigeno. Il ritmo mi possiede e batte il mio timpano contro una parete sussurrandogli parole oscene, mentre i pesci mi danzano in testa.
Amami pazzo che balli il tango al suono di un sintetizzatore.
Amami e devastami il suono dell’universo. Balliamo al suono della parola diddio. Il nostro amore si nutre di sesso. Uniamoci al nostro dio in un amplesso solare. E ridiamo con lui in un rapporto a tre, in un atto d’amore divino, mentre ci perdoniamo i nostri peccati di gioventù.
Esco dalla porta dell’universo e la chiudo a chiave dopo aver bevuto la linfa degli dei da cui partorirò il figlio dell’uomo.
Chiedimi, pazzo, se l’amore ha un sesso.
Dimmi, pazzo, se il limbo è uno strato di sabbia rovente.
Dimmi, pazzo, che cazzo sei venuto a fare tra gli uomini.
Uccidimi pazzo, perché così saremo liberi di volare via dalle feci di un angelo con la diarrea.
Mi muoio d’amore
Una nota d’amore scheggia l’armonia degli dei. Una musica celeste si strugge all’idea del pianto. Una danza dolce che mi trascina fuori dal filo spinato mi sussurra parole di vento e di nubi, mentre la notte scende nel museo degli orrori.
Mi guardo in giro e vedo la paura di esistere che critica il giudizio universale e il pubblico applaude quando scroscia il sangue dei morti. Una nota d’amore devasta il sonno divino e fa titillare il palato al sapore di un lupo che azzanna il latte di pecora.
Odino mi parla e mi suggerisce di cambiare e di nuotare verso lidi avventati ma io gli rispondo che anche suo figlio era un po’ frocio “Non dirmi che le nubi diventano rosse” “no, ma che il Gesù si rivolta nella tomba sì” “scopa!” “hai vinto, bastardo” “gioco da dio” “hai culo e basta” anzi ha barato ma navigare in acque tempestose non è facile per nessuno e allora andiamo a farci un giro di valzer viennese al ballo delle quindicenni. Fu lì che sua figlia baciò il tempo e fu lì che io scoppiai di pazzia e di amore.
Il resto è pioggia, solo ruggine piovuta da nuvole di letame violaceo.