Mi sveglio dalle quindici mani che mi toccano durante la notte e sogno palle di spiedini arrostini che mi imbavagliano i piedi e impediscono loro di urlare intanto la sveglia grida e gracchia come un corvo stupido. Melenso si iscrive a un corso di scrittura e veleggia verso lidi incantati da lucciole a pagamento. Per forza mi siedo ai piedi di un tronco di senzatetto e raschio la mostarda dalle ghiandole salivari di una pantegana zoppa. Grido nel buio di un deserto delle salse tartare e guardo le bolle di pus scoppiare nel silenzio dello spazio di una tempesta solare.
Leggendo l’odissea galleggio nella flottiglia di asparagi che trasmettono alfabeti Morse agli egiziani in guerra con la patatina fritta che li ingloba in un tubo di cemento che misura ventisette once di farina all’uovo. M’infilo quindi in una doccia dissacrante e controllo il capostipite delle lettere dell’alfabeto sotto vuoto spinto. Un Eros saltellante e una Psiche sull’orlo di una crisi di nervi ma saldamente.
E tu amico mio. E tu e noi. E voi che ci guardate giocare con le carte da tressette. Un movimento assurdo ma contento. Che si crogiola di sedicenti avvenimenti che portano a reggersi sulla punta di una sedia. Che un rivolo di cacca scivoli dalle tue labbra mentre porti sulle spalle i peccati del mondo, ma non capisco perché perdonarli, solo perché non sanno quello che fanno all’interno di un codice binario. Solo gli idrovolanti sanno quello che fanno. Allora perdonami sempre.
Archivi tag: patatina
Sciuri di periferia
Una fila di scrondi si delinea in una tenaglia di risate epilettiche.
Sono acceso in un sonno profondo e annoiato dalla realtà sensibile. Mi spaventa il turpiloquio dei pidocchi della mia vicina di sedia nella sala d’attesa dell’umanità. Mi chiedo se il peccato originale non sia una app dell’ipad di Dio.
La saliva scivola via tra le gambe della mia sposa che teme di avere un cancrino alle tette e sale l’orgasmo di un sospiro di una cavalla in calore.
Il divano della sala è adibito alla pazzia erotica di una coppia di cadaveri francesi sotterrati dalle loro paure.
Scivola un corno assoluto tra i peli di una negra che respira a ritmo di mantra. Il suono mi porta via e corregge le imperfezioni della mia pelle e sottende all’etica professionale senza gradire la folla bisbetica. Ci si ammazza per pochi spiccioli di saliva nel deserto di una sinfonia d’autore. A forma di pizza quattro stagioni.
Anche la pizza diventerà una app a pagamento.
Ho sete. Di marmo in polvere che disseta la mia anima con un segno di croce uncinata. Cetrioli in minigonna mi osservano succulenti fingendo un interesse per il mio tessuto adiposo piccante. Mi spargo una maionese di tonno e caprioli in una fetta di pane mentre osservo i ceci e le capinere volteggiare nell’aria di un capo tribù.
Vedo olive verdi che preparano la cena e un grasso pazzo che volteggia osteggiando una pancia deforme e che si chiama Enrico Melamamma. Dinovio si sputa addosso una patatina scadente per abbracciare Palmira in un abbraccio penetrante cavalcando struzzi drogati di oppio.
E croci benedicono l’umanità. E noi scendiamo dal cielo. Diamanti volteggiano con gli angeli coperti di melma oleosa che gli sbatte le ali.
Ma ve’.
Cipolle soffritte mi prudono il naso. E il concerto di capodanno si strugge il pollice per scaccolarsi la salsa maionese a cascata libera. Un fazzoletto di Saronno, ordino al bar. Mi serve un cocktail di peli di bue e sangue di coccodrillo. Niente male, ma manca un quid. Capisce e mi aggiunge un pizzico di sale. Io gli tiro un pugno in un occhio e una forchetta nel naso. Oggi ce l’ho col naso. Anzi, ce l’avevo dato che con un diretto lui me lo riduce a una patatina fritta. Gli rispiego in un orecchio che decido io se mettere il sale o no, logico che poi dopo gli sanguini. Finché la polizia ci guida dolcemente alla centrale per festeggiare i nostri compleanni con un soggiorno gratuito al loro hotel. Be’, la sauna c’è, allora perché no. Anche il cibo è meglio di quello che serve quel pirla al suo bar. A quel punto ho preso una pistola di un agente e gli ho sparato. Nel naso. Erano così contenti che mi ospiteranno per anni ancora. Non hanno ancora deciso quando ci separeremo ma spero che sia tra mooolto tempo.
Aglio, prezzemolo e…cipolla.
In una giornata di sole, Irina passeggiava col marito passeggiava per le vie del centro di Bruxelles, col marito a forma di pesce. Vagando senza meta si ritrovarono al Musée de Cinema a guardare un film a base di caramelle alla pesca vestite a festa.
Il marito le allungò una mano sulla coscia e avanzò al centro, ma lei gli rimise la mano a posto con un certo disgusto.
E videro Il film fino alla fine come due bambini che mangiano pop corn.
Il marito si fece avanti per baciarla a bocca semi aperta, ma lei si ritrasse. “Togli le tue manacce dal culo” e se ne andò via stizzita.
A casa nessuno dei due parlò e, in cucina sapevano entrambi che erano condannati a ritrovarsi nel letto.
“Perché mai due persone che non si sono parlate tutto il giorno, si devono ritrovare a dormire insieme. Voglio dire io volevo dormire insieme a qualcuno se veramente non potevo staccarmi da lui. Fondermi a lui, questo era, è la poesia del dormire insieme, non come due stoccafissi” pensava mentre tagliava le cipolle per piangere senza dare spiegazioni. False. “Siamo falsi, ecco la verità. Dieci anni e oramai siamo diventati due cartucce vuote che non hanno più polvere da sparo. Involucri. Scatole da scarpe vuoti buttati in un magazzino”.
Fu lì che le lacrime divennero talmente intense da non farle vedere più tra la cipolla e il dito e si ritrovò col dito sotto il rubinetto e un cerotto e con la voglia di ficcare il resto del coltello nella pancia di lui.
Ora che se n’era andato di sopra poteva piangere tranquillamente e odiare e uccidere.
Le emozioni si impadronirono di lei. Le emozioni, una voce dentro le disse “Obbedisci e ti farò stare bene, ma se non obbedisci non ti darò pace”. Ripensò al film, alle caramelle, ai petali di rosa che si spargevano sullo schermo di cui una volta lui le aveva ricoperto il letto e avevano fatto l’amore, veramente. Anche ora avrebbero fatto l’amore, ma il rosso non sarebbe stato quello dei petali di rosa. “Grazie, voce, m’hai dato un’idea magnifica, ti amo”. Raggiunse il marito a letto. La stanza era buia.
Sollevò le coperte. Di lino, color pesca con alcuni disegni di fantasia, comprate in India.
Lei si era innamorata della loro semplicità e della morbidezza, lui le aveva sempre odiate.
A lei faceva piacere che lui le odiasse. E ci dormisse dentro.
“Fingi di dormire, ora farò finta di svegliarti”.
Senza tanti complimenti gli prese in bocca quel piccolo verme legnoso che sapeva di piscio rancido. “Sento odore di cipolla” fece lui, “Sarà che l’ho appena tagliata”, no era il coltello che lei stringeva nella mano sinistra, mentre con la destra seguiva i movimenti avanti e indietro della bocca e gli accarezzava i testicoli “È il mio primo pompino alla cipolla” fece lui.
Non si parla con la bocca piena, pensò Irina, perché sentiva qualcosa nel tono del marito che la faceva contrarre lo stomaco di nausea.
Strinse l’impugnatura del coltello da macellaio e andò avanti.
Ci fu un lungo silenzio e lottò contro la voglia di staccarlo a morsi, mentre con la mano continuava ad accarezzargli le palle.
Sarebbe stata l’ultima volta che avrebbe assaporato il suo liquido caldo e perciò non le dispiaceva tanto, anzi, mentre lo ingoiava, si sentiva come con la coscienza a posto.
Le aveva sempre detto che desiderava morire scopando. Beh, più di così non poteva fare, in fondo meglio che niente. E poi non gliene faceva uno da almeno sei mesi.
Ora.
Dopo che gli aveva succhiato fino all’ultima goccia e che il verme era ridiventato molle come una patatina piena d’olio.
Ora.
Rialzò la schiena e gli passò la mano destra sullo stomaco peloso e prominente di chi ha già mangiato abbastanza in questa vita ed è ora che restituisca tutto alla terra.
Ora.
La voce la comandava come un soldato “Stringi il pugno, solleva il braccio, abbassa il braccio sul bersaglio con tutta la forza, con tutto l’odio, con tutta la disperazione”.
“Domani è S. Valentino e …” Irina si fermò a due millimetri dall’ombelico.
S. Valentino? Non glien’è mai fregato niente di S. Valentino, cosa vuol dire?
“E…?” fece lei?
“E ho prenotato un viaggio per noi due”,
“Un viaggio? Io e te?”
“Beh, sì, non ti va?”
“D…dove?”
“A Procida”,
A Procida s’erano conosciuti sotto un temporale in una grotta dove s’erano rifugiati e avevano parlato anche dopo che il temporale era finito
“Perché?”
“Perché ti amo ed è da un po’ che mi pare che le cose vadano così così, e magari lì abbiamo voglia di parlare di nuovo, chissà, magari durante un altro temporale”
“Uccidi o non ti darò pace” le diceva la voce, ma le emozioni non erano più quelle di prima, il braccio era già appoggiato al materasso, e le lenzuola di lino color pesca le sembrarono d’un tratto troppo belle per essere inondate di sangue.
Magari con altre lenzuola, un’altra volta.