Il delirio del manzo


Metto il piede su un delirio di Alfonso che urla la propria pazzia in un deserto di formiche morte. Si chiama cimitero, mi fa con aria di monello e occhi iniettati di ketchup. È un odore che fende l’aria con un sapore di piede tumefatto dal pongo marrone scuro, molto scuro come se fosse stato soffritto per dieci lunghi anni. Sa di aglio. E pesa. Il tumore inserito nell’ugola di un soprano da circo si rivela una ricetrasmittente di Dio che ascolta i meandri del diavolo alla radio mentre si sofferma nel perenne orgasmo che libera agenzie di viaggio per trip di eroina.
Scimmie danzano nel mio cervello per battere una discoteca di monete d’oro in fondo al pisello di un pulcino adiacente. Mi sparo attorno a un quadro che si assopisce alla vista del sangue di un toro deforme mentre la poolvere di corna si sparge nella sala del museo di marionette veneziane che singolarmente profumano di api punk. Gli uffici colorati si riempiono di tacchi a spillo che corrono tra mazzi di fiori blu da un giardino di cemento all’altro togliendosi occhiali e inginocchiandosi davanti a pannolini sporchi di sesso e potere. Giovenche si pesano le mammelle di terracotta per liberarsi l’anima da secoli di vestigia dorate.
Durante feste di mausolei anemici porgo le mie scuse a maggiordomi in livrea argentata che schiude funamboli omosessuali tra le viscere di un drago a due teste e due croci. Palandrane di manzo in scatola si muovono tra feroci puttane in calore che violano il segreto del piacere tra un’ottava di godimento e una sinfonia di Sciubert.
Ciaikovschi era gay, ma questo si sa.

Attimi persi


Mettere un piede in fallo non vuol dire sempre sbagliare, così Irina pensò mentre schiacciava il pene del marito con la punta del piede. E l’erezione mica diminuiva, anzi. Gli passò il piede tra i testicoli accarezzandoli e schiacciandoli leggermente. Lì sì che poteva fargli male. Lì sì che poteva vendicarsi, ma quello era amore, non odio. Era potere, non solo amore. Era tutta una vita in un solo gesto. Tanto odio accumulato e tanto amore stuzzicato. Mentre lo baciava in bocca e sentiva la sua lingua ruvida come il tronco di un albero sentiva che doveva fidarsi ancora una volta, doveva darsi e ricevere e riceverlo, un uomo, quell’uomo, il suo uomo.
Dopo dieci anni di matrimonio erano ancora lì, a cercarsi senza trovarsi in un’esplorazione di attimo in attimo. Attimi persi nel conoscere troppo bene, o troppo male, il corpo dell’altro.
Mentre la baciava ed era invasa da un odore d’aghi di pino, insieme al caffé nero che lui beveva a litri, lei sentiva che era come se ancora non sapesse come e dove toccarla. Soprattutto come. E quando. E in fondo non avesse la voglia di ricominciare a cercarla per conoscere la nuova Irina, non quella di dieci anni fa.
Anche, ora, mentre la stava colpendo da dentro dolcemente, troppo lentamente. Imbecille, hai paura di rompermi? Ma non glielo diceva, da dieci anni non glielo diceva. Perché in fondo lei aveva paura di rompersi e allora preferiva, (oppure no?) quella fiammella che le invadeva dolcemente lo stomaco e il ventre, piuttosto che una vampata incontrollabile che poteva lasciarla in lacrime e con il corpo che sussultava per ore come un epilettico.
E allora, sì, ti amo, zucchero caro, accarezzami, sì, baciami lì, dietro l’orecchio, come fai sempre, quando stai per venire e mordimi il collo, così, senza troppi complimenti, più forte magari, e come te lo spiego che anche stavolta sto fingendo, ma che mi piace anche così, con te. Come te lo spiego che voglio che tra noi sia tutto vero, ma che ho una paura fottuta che lo sia, come te?
E allora vieni, caro, vieni così, convinto di avermi posseduta. Ma domani, no, domani dobbiamo parlare, un giorno ne parleremo e capiremo come siamo finiti così lontani. Eravamo così vicini, prima, o pensavamo di esserlo. E gli orgasmi, sì, quelli mi portavano lontano, tra le stelle che mi sembrava che ci osservassero. Ora baciami e addormentati su di me e io mi adagerò dentro il tuo cuore.