Saltano in una ragnatela i nasi di un pisello e volano sorridendo in una pentola a pressione nel sugo di lenticchie di aperitivi consigliati a freddo. Denudati in una sauna, si accapigliano con le carte da gioco e mazze da baseball.
Una partita si gioca tra le superpotenze termologiche con pesci e morene colorate di iodio sfuso, il calciatore asfittico si carica di kryptonite e sfida l’arcangelo Gabriele Moreno de la Calle, il portiere del rione di Quarridabat nella campagna spagnola.
Un inatteso fulmine carica gli elettrodi del suo cervello per un abbraccio tra i peli di una formica e la sua dentiera profumata di ascella tormentata e languida.
Un occhio imbevuto di salice piangente ritorna alle origini di dinosauri nel pleistocene improvvisando una scena teatrale con i bruciori di stomaco e i gas intestinali a fare da sfondo dell’ottava meraviglia dell’apparato digerente di Dio. Siamo in una città dei balocchi e mangiamo cacao soffritto sfuso da una roccia che lo permea come una fontana di noccioline biologiche.
E logiche. Internamente logiche. Equazioni piovigginano liquorose nelle menti di Mario psicopatico e lo fanno impazzire dalle risate in una colonna sonora di chitarre dello Sri Lanka.
In un linguaggio sforbiciato i greci iniziarono a ballare tutt’in tondo girando a destra e a sinistra scalciando di qua e di là, sempre più veloce, in un turbinio furibondo finche non cascarono tuti per terra morti, secchi, e sorridenti.
Il virus si spargeva letale come un regalo agli infelici che potevano così, morire, sì, ma ridendo a crepapelle. O crepapalle.
M’immergo in un untuoso sangue misto di primavera e pubblicizzo le doglie di una partoriente esangue.
È l’Annunciazione.
Archivi tag: occhio
Ma ve’.
Cipolle soffritte mi prudono il naso. E il concerto di capodanno si strugge il pollice per scaccolarsi la salsa maionese a cascata libera. Un fazzoletto di Saronno, ordino al bar. Mi serve un cocktail di peli di bue e sangue di coccodrillo. Niente male, ma manca un quid. Capisce e mi aggiunge un pizzico di sale. Io gli tiro un pugno in un occhio e una forchetta nel naso. Oggi ce l’ho col naso. Anzi, ce l’avevo dato che con un diretto lui me lo riduce a una patatina fritta. Gli rispiego in un orecchio che decido io se mettere il sale o no, logico che poi dopo gli sanguini. Finché la polizia ci guida dolcemente alla centrale per festeggiare i nostri compleanni con un soggiorno gratuito al loro hotel. Be’, la sauna c’è, allora perché no. Anche il cibo è meglio di quello che serve quel pirla al suo bar. A quel punto ho preso una pistola di un agente e gli ho sparato. Nel naso. Erano così contenti che mi ospiteranno per anni ancora. Non hanno ancora deciso quando ci separeremo ma spero che sia tra mooolto tempo.
Odi l’odio d’Odino
Ode alla lirica. Nello stato di vano vacuo nel quale Ammannia vive una vita silenziosamente un grido fugace si staglia contro una carotide innocente.
Vagheggia nel vago pensiero di una stella cadente sul suolo natio. E fugge. Fugge e rifugge lontanamente accecata dal ricordo dell’angoscia disperata di una bambina mutilata di capelli sinuosi come serpenti.
Si strappa parrucche e vesti sottili come l’occhio d’un gatto e corre nell’autostrada della vita e della morte. Contro un pianeta che guarda la notte con un occhio solo.
La sua vita fugace e verace prosegue per poco e un condor insozzato di nero la rapisce per portarla in un sudicio pendio per approvvigionarsi.
I sogni rinvengono alla memoria di una sonnambula e evaporano come una bistecca al sole d’agosto e la testa le gira dalla fame. Si alza prende una penna e scrive e scrive e scrive…
E Dio disse “C…”.
E Dio disse “C…”.
Un occhio vede al di là della porta. La chiave è il segreto.
Un miracolo si compie nella strada in mezzo al deserto e ascende alla quinta dimensione.
Un sogno erotico si stampa nel mio corpo e ne porto i segni di fuoco.
Evito di farmi portare dal vento della passione e l’istinto procede senza ragione.
Felicemente mi siedo della radura, in una sabbia bianca di dune scoscese, dove il mio piede affonda, bruciando. Non c’è spazio nel calore. Il fuoco arde e mi consuma l’ossigeno. Il ritmo mi possiede e batte il mio timpano contro una parete sussurrandogli parole oscene, mentre i pesci mi danzano in testa.
Amami pazzo che balli il tango al suono di un sintetizzatore.
Amami e devastami il suono dell’universo. Balliamo al suono della parola diddio. Il nostro amore si nutre di sesso. Uniamoci al nostro dio in un amplesso solare. E ridiamo con lui in un rapporto a tre, in un atto d’amore divino, mentre ci perdoniamo i nostri peccati di gioventù.
Esco dalla porta dell’universo e la chiudo a chiave dopo aver bevuto la linfa degli dei da cui partorirò il figlio dell’uomo.
Chiedimi, pazzo, se l’amore ha un sesso.
Dimmi, pazzo, se il limbo è uno strato di sabbia rovente.
Dimmi, pazzo, che cazzo sei venuto a fare tra gli uomini.
Uccidimi pazzo, perché così saremo liberi di volare via dalle feci di un angelo con la diarrea.