Palle di piede


Mi sveglio dalle quindici mani che mi toccano durante la notte e sogno palle di spiedini arrostini che mi imbavagliano i piedi e impediscono loro di urlare intanto la sveglia grida e gracchia come un corvo stupido. Melenso si iscrive a un corso di scrittura e veleggia verso lidi incantati da lucciole a pagamento. Per forza mi siedo ai piedi di un tronco di senzatetto e raschio la mostarda dalle ghiandole salivari di una pantegana zoppa. Grido nel buio di un deserto delle salse tartare e guardo le bolle di pus scoppiare nel silenzio dello spazio di una tempesta solare.
Leggendo l’odissea galleggio nella flottiglia di asparagi che trasmettono alfabeti Morse agli egiziani in guerra con la patatina fritta che li ingloba in un tubo di cemento che misura ventisette once di farina all’uovo. M’infilo quindi in una doccia dissacrante e controllo il capostipite delle lettere dell’alfabeto sotto vuoto spinto. Un Eros saltellante e una Psiche sull’orlo di una crisi di nervi ma saldamente.
E tu amico mio. E tu e noi. E voi che ci guardate giocare con le carte da tressette. Un movimento assurdo ma contento. Che si crogiola di sedicenti avvenimenti che portano a reggersi sulla punta di una sedia. Che un rivolo di cacca scivoli dalle tue labbra mentre porti sulle spalle i peccati del mondo, ma non capisco perché perdonarli, solo perché non sanno quello che fanno all’interno di un codice binario. Solo gli idrovolanti sanno quello che fanno. Allora perdonami sempre.

Polline


Venusa ritaglia un angolo di tempo nel telaio storto di un’icona che ride dal riquadro color prugna appeso nel corno d’Africa sotto i bombardamenti francesi alla ricerca dell’uranio per far funzionare centrali nucleari da smantellare. Ridono dietro di loro le iene che portano sangue al mulino dello sputo di una chitarra saxofonica del dio barbaro.
Non potrei sentirmi meglio dice la ragazza alzandosi dal letto di diodi elettrici dopo una notte d’amore intenso sotto i rododendri della sua casa in stile coloniale. Suono il piffero magico di Antalenio che me l’ha prestato e mieto un seguito di rosmarini abbagliati dal fetore che spargo senza pietà alcuna e rido in una latrina militare perché i gusci di noce che escono dal culo bruciano di sale al peperoncino rosso.
Le Erinni si alzano un mattino e chiamano Medusa per lisciarle il pelo del pube e rincuorarla sull’ultimo amante morto ammazzato da lei.
All’inferno queste cose succedono ogni giorno e non c’è niente di male.
È questa una delle cose belle dell’inferno, il male non esiste più.
Così come non esiste umiliazione nel mondo di Marylin Manson.
Se hai raggiunto il punto più basso dell’umanità sei libero perché non hai nulla da perdere. Se hai raggiunto la libertà allora sei pronto per andare all’inferno. E il modo migliore è quello di morire dal ridere sopra una pila di legna da ardere.
Un abbraccio a te e una carezza a me.

Frittata d’inchiostro


In un battello di negri le cui urla si potevano sentire a chilometri di distanza nell’oceano indiano il sangue colava dalle fruste e i mercanti marinai.
Yussuf si rese conto che era meglio buttarsi nell’oceano che finire così. Non era legato perché si pensava che nessuno avrebbe fatto una pazzia così, ma li aveva sentiti dire che un’isola era vicina in direzione del sole che tramonta.
Forse avrebbe potuto aspettare la notte, ma allora lì sarebbe stato nella stiva in catene. Prese la rincorsa e due uomini gli si buttarono addosso all’altezza del bacino, ma se l’aspettava e girò su se stesso e riuscì a sgusciare via, perse l’equilibrio, ma non cadde, ma rallentò la corsa e altri stavano arrivando, a occhio, non ce l’avrebbe fatta, ma non aveva più niente da perdere, con la coda dell’occhio vide qualcuno alzare il fucile.
C’erano ancora due uomini tra lui e il mare, due della sua tribù che si scansarono.
Saltò, per l’ultima volta vide la luce del sole che lo colpì in pieno volto e
per l’ultima volta udì un colpo di fucile.
Fu un momento d’amore per sé. Stava librando nel vuoto. E ricordò le parole del suo sciamano “Segui la via dell’aquila”.
La pallottola attraversò il cranio di uno dei suoi che e lui toccò l’acqua gelida dell’oceano mentre altri fucili lo aspettavano al varco.
Lo sapeva, e restò in apnea per dieci minuti, da buon cacciatore di coralli. In quei dieci minuti successero molte cose sulla nave e molti corpi vennero gettati giù dalla nave. Non erano corpi neri. Ed affondavano direttamente tirati giù dalla corazza e dai vestiti impregnati d’acqua. Quando riemerse si ritrovò a nuotare da solo in direzione della palla di fuoco, mentre la notte stava arrivando e i suoi compagni si trovavano con una nave alla deriva, dato che non c’era più nessuno che sapesse farla navigare.

Bing bang bang!


Esplodo

e nasco con un rutto.

Un rantolio gorgogliante che determina la mia prima esistenza in questa dimensione.

E piango le prime e ultime lacrime.

E mi assento temporaneamente dalla vita.

E dalla morte.

Vago in un interstizio dimenticato dove passa una metropolitana rassegnata al fatto di non morire.

M’immergo in una bolla d’elio respirando a pieni polmoni, atrofizzati, mentre il pianto di un bambino lontano perseguita il silenzio dei miei cordoni ombelicali.

Vago nella città di un Dio minorato mentalmente che si serve delle sue serve per dormire sonni erotici praticando archi magici per esplorare il suo inconscio.

Fuggo davanti alle ancelle divine per rincorrere lo spirito santo sottoforma di patatine fritte.

Rido e m’ingrasso al pensiero di un rampollo di dio che salta e formalizza la sua libido in formati ergonomici tridimensionali.

Mi preparo un pesto alla parmigiana facendo fondere echi di trombe di eustachio.

Mi scende una lacrima e mi preparo a morire ballando il can can insieme alle majorette di Odino che si sta pulendo le ascelle col filo interdentale per assumere la forma di un orango tigrato con lo smoking ora che conosce i balli celtici.

Scende la notte e dorme il fato e io mi distendo serenamente per sempre con in bocca sapore di cioccolato fondente.