Filigrane di metallo in salsa blob


Gocce martellano il mio cervello che chiude occhi e cieli aperti per acqua a catinelle. Il sangue piove e l’urina scorre tra paesi siculi ottocenteschi in un quadro rurale esposto in un museo di parigi che si sporca e cola sangue piano piano, ma non è sangue, sono lacrime del mio cuore che si staccano dai muri e imbrattano gli i-phone dei turisti giapponesi attaccando loro il virus della pellagra.
Ho fatto l’amore col diavolo. Era vestito di nero ed assomigliava ad una cagna mora e silenziosa. Un brivido mi ha percorso quando l’ho presa da dietro. Ho visto allo specchio il fumo rosso uscire dalla bocca e ho visto i suoi occhi diventare così neri che nemmeno un buco nero può essere così scuro. E mi sono eccitato e una follia mi ha spinto ad affondare un coltello nelle sue vene mentre mi ringraziava di farla morire e mi sono dimenticato il mio fallo dentro di lei e l’orgasmo è stato una scossa talmente elettrica che sono morto. Ho visto il diavolo ed è una gnocca pazzesca. Il diavolo gira qui vicino ed è assetato di roba bianca da bere. È grazie a lui che posso delirare e svenire. È grazie a lui che amo scrivere.
La ferita sgorga piena di liquido denso rosso porpora e imbratta le facce dei turisti del Louvre che corrono via e più corrono e più schizzano sangue da occhi e da orecchie e da tutti i buchi e anche dai pori e lasciano la scia come lumache finché anche il museo comincia a sanguinare da muri e pareti e tutti i quadri sembrano essere imbrattati dal virus. Solo lì, solo allora i giardini di Dio rilasciano il loro vapore azzurro che beve e lecca sangue e saliva e come vampiri ripuliscono la città dal sangue scarlatto che ha invaso tutta la terra come un diluvio per settimane senza mai fermarsi. Tutta la Terra ha cambiato colore.
E io scrivo. E tu leggi. E ora aspira l’odore del sangue.

Specchio delle mie brame


Specchio delle mie brame
Un urlo spacca i codici genetici di una squadra di capi cantiere e azzanna il marcio generale della repubblica della pera matura. Da lì nacque …
Rana, questo è il suo nome, non è stupida, anche la mattina marcia al suono delle trombe sulle uova marce, ma ha una sua intelligenza. Specie quando balla il flamenco con i suoi cento chili, rotondi, rotondi. In sottofondo una voce di donna mi dice che è pronto il pranzo.
Ma Rana mi parla di un deserto di dolore e di una vita di sopravvivenza che le hanno insegnato a fregarsene del dolore e dell’angoscia e fraternizzare con il nemico per usarlo e abusarlo.
Mi parla, Rana, con la sua facciona da pesce palla triste con gli angoli della bocca che piegano all’ingiù. Con i suoi capelli neri e grassi e grossi e corti in quello che normalmente sarebbe un “caschetto”, ma che su di lei sembra la caricatura di un maxi toys.
E sento una voce rotta come un gesso che stride sulla lavagna.
E allora sono io che piango.
Ma senza lacrime.
E allora ci scherzo su e le chiedo come va la sua bambina, sì perché diversamente da me, è anche riuscita ad averne una con qualcuno, ma chi?
In teoria io non sono così brutta, anzi, né ho una voce così stridente e non ho vissuto una dittatura militare, no, sono anche bionda, però quando i nostri occhi s’incrociano non vedo una persona tanto diversa.
Vedo la mia stessa paura farsi persona e mi spavento ancora di più.
Forse per quello che anni fa non potevo neanche sopportarne la presenza.
Ieri, bevendoci un caffè negli uffici asettici della Federazione guardavamo giù dalla finestra e ho avuto un vento gelido nella schiena dopo che ci siamo guardate sorridendo.
Avevamo guardato giù e, inutile mentirsi, avevamo pensato tutt’e due a come sarebbe stato bello farla finita. L’idea, solo l’idea di essere così intima dello Specchio di Tutte le mie Angosce mi dà l’insonnia, che già non basta quella che ho.
E mi vedo già volare nella nebbia grigio nera della notte passata a guardare il soffitto e a sentire l’amore sbocciare per lei.

Frittata d’inchiostro


In un battello di negri le cui urla si potevano sentire a chilometri di distanza nell’oceano indiano il sangue colava dalle fruste e i mercanti marinai.
Yussuf si rese conto che era meglio buttarsi nell’oceano che finire così. Non era legato perché si pensava che nessuno avrebbe fatto una pazzia così, ma li aveva sentiti dire che un’isola era vicina in direzione del sole che tramonta.
Forse avrebbe potuto aspettare la notte, ma allora lì sarebbe stato nella stiva in catene. Prese la rincorsa e due uomini gli si buttarono addosso all’altezza del bacino, ma se l’aspettava e girò su se stesso e riuscì a sgusciare via, perse l’equilibrio, ma non cadde, ma rallentò la corsa e altri stavano arrivando, a occhio, non ce l’avrebbe fatta, ma non aveva più niente da perdere, con la coda dell’occhio vide qualcuno alzare il fucile.
C’erano ancora due uomini tra lui e il mare, due della sua tribù che si scansarono.
Saltò, per l’ultima volta vide la luce del sole che lo colpì in pieno volto e
per l’ultima volta udì un colpo di fucile.
Fu un momento d’amore per sé. Stava librando nel vuoto. E ricordò le parole del suo sciamano “Segui la via dell’aquila”.
La pallottola attraversò il cranio di uno dei suoi che e lui toccò l’acqua gelida dell’oceano mentre altri fucili lo aspettavano al varco.
Lo sapeva, e restò in apnea per dieci minuti, da buon cacciatore di coralli. In quei dieci minuti successero molte cose sulla nave e molti corpi vennero gettati giù dalla nave. Non erano corpi neri. Ed affondavano direttamente tirati giù dalla corazza e dai vestiti impregnati d’acqua. Quando riemerse si ritrovò a nuotare da solo in direzione della palla di fuoco, mentre la notte stava arrivando e i suoi compagni si trovavano con una nave alla deriva, dato che non c’era più nessuno che sapesse farla navigare.