Mi sparo e mi sturo


Una mano di bambino si strofina contro il muro di una degente dell’ospedale sfregateatebeneicoglioni e opera una minuta ragazza in una figa microscopica cercando di allargarle le labbra che sono chiuse da una mascella dentata. Chiama un dentista e gli dice “togli il dente del giudizio, è quello che impedisce ai cazzi di circolare liberamente”. Una luna rotonda si inserisce nel sedere di un primo ministro e comincia a girare roteando piena di sani principi e prega in una chiesa intestinale vuota in cui il centro gravitazionale modifica lo spazio tempo e permette di viaggiare con il pensiero in mezzo alla merda universale.
Sturo un lavandino con i denti e poi penso al sesso di una farfalla che galoppa insieme ai vermi e ai politici ed entrambi si nutrono di sensi alternati per distruggere i ricordi irrefrenabili che continuano a martellare in una testa malsana di capra al formaggio.
Eunuchi volano al di sopra di un toro da monta che ha perso la corrida della sua vita e ha incornato il re per sbaglio regalando la libertà a un paese in guerra spirituale tra api impollinatrici e polvere di stelle. Lacrime di morte che piovono tra gocce radioattive e pullulano di sterco che sa di cipolla soffritta. In questo contesto un arcobaleno guardato da una bambina la mattina di Natale diventa una maschera veneziana che ride di un riso sarcastico che sa di tartufo al cioccolato amaro.

Cuore di donna


Mi crogiolo nella sofferenza di un pollo fritto che fugacemente guarda una capinera che violenta un passero da strada e le mie emozioni vanno su e giù, giù e su e da est a ovest ribollono in pentola tra Erinni urlanti che piangono e avvolgono il cielo con gli occhi per farne una benda per un neonato e lo donano a un padre in fasce. Una casa nella prateria muove milioni di costole di animali stanchi di essere sospinti dal vento di un flauto magico e di ballare senza sosta. Auguri amici miei e Buon Natale, con famiglie di colori che possano liberarvi dalle paure di un topo bianco impigliato in una ragnatela notturna. E svegliarvi assonnati ma felici dopo anni di torture e pantegane e prostitute piene di salici piangenti.
Morite per rinascere in un anno di Babbi Natale che non ti faccia fuggire da responsabilità più grandi di un papavero che fuma oppio e fuliggine d’industria siderurgica in un atelier di pittura classica. La musica suona il suono delle parole che penetrano nelle mie vene sempre più lucide e portano con se stelle cadenti che colorano un Natale estivo fatto di luci e abbronzature in spiagge dai seni pelosi.
La serratura del mio cuore è un universo di donna che prega notte e giorno in ginocchio su un altare di sfighe che le trapassano il cuore con cunei appuntiti e le fanno scendere lacrime di ragù fino alla vagina che le riassorbe in un ciclo di vita e di morte e di sentimenti di sesso e foglie autunnali. E, e, e, e tante cose che passano in un’anima sporca e innocente. Una bambina che gioca nel fango e si diverte senza sapere cosa le resterà incollato addosso. Prega e si sposa senza sapere cosa le resterà incollato addosso.

L’atto del proletariato


Mi cibo di rotoli di spazzatura eterna. La sapienza ci viene da boccioli di alberi morti che respiriamo in un attacco lancinante di diarrea. Sono quelli che portano avanti il progresso dell’umanità. Là dove il sangue si mescola alle feci vengono poste le basi di ogni sana rivoluzione del proletariato. Gay compresi. Meno male che c’è What’s Up. Che ci libera dal peccato. Perché i dieci comandamenti sono fatti per riunirci davanti ad una pietra tombale di margherite che sanno di divina commedia.
Sento un sapore di arrosto di sberle e mi chiedo se anche questo Natale sarà come gli altri e Google ci manderà un sacco di torte sulla testa mentre dormiamo e sogniamo polli allo sbando che si gettano fango in faccia e usano le gengive per dominare sul creato color cioccolato in lacrime.
Chatto con il Che che mi racconta del suo viaggio in Colombia, tra cascate di piombo e tortellini alla panna affinché la fuliggine di una mietitrebbia si coccoli con carezze di una santa bevitrice che vede la Madonna scendere dal pelo pubico. Preghiamo insieme e diciamo Pane e Volpe la mattina per aprire lo stomaco e digerire i rospi della giornata così che il pavimento non sia più verde metallo. Il Che si affanna e mi appanna il parabrezza col fiato fetido del suo sudore. Un calcio nelle palle di un asino che si affatica sul tornio di un gelataio che sa di ragù di pollo fritto.

Il ballo delle quindicenni


Una grotta di merda si scioglie sulle mie braccia per cullare la via di un perizoma a cui cresce barba e baffi e un ballo al flauto di Pan di Spagna. Merletti e Merlotti scenderanno su di noi nel giorno del Natale e festeggeranno un inno alla paura del generale inverno, mentre i saraceni scorrazzano nel deserto di una mezzaluna decadente. Tra chiodi arrugginiti e figli di puttana e mogli coperte di vergogna di essere donne.
Tra i cammelli si leva un urlo in mezzo al deserto e prova a sganciare bombe di barzellette sconce che il correttore ortografico non accetta, ma prova a correggere finendo in carcere in una città costruita su un pianeta ai confini della galassia. È lì che si mangia il gelato migliore. Irrorato di raggi cosmici non filtrati, ma grezzi, ancora pieni di sali minerali e rabbia assassina in nome di Dio. Dio è unico, grande, così grasso che nessuno è più grasso di lui, o lei. O Dio è frocio. Forse per questo non si è mai sposato.
Un rinoceronte si guarda allo specchio e si mette un po’ di ombretto sugli occhi. Minigonna e pinne da sub. Stasera spopolerà al gran ballo delle quindicenni. Prende il treno per la campagna farnese e finisce di fare i gargarismi al cioccolato fondente. Si sistema il corno e gli fa una manicure. Stasera bacerà il principe azzurro?
Tra mal di denti e urla di pori scatenati una danza sciamanica inneggia al totem di plastica che rende la montagna sacra una discarica abusiva di una camorra con le penne e le pinne. E vampiri deformi danzano attorno a un fuoco. E zebre con l’aids e la varicella bruciano pongo targato adidas in mezzo a stelle cadenti per non morire di dolore.

Ruota


Mi rifocillo di coccodrilli melensi a passo di danza del ventre mentre mosche velate s’insinuano nella mia testa e la fanno a pezzi. Piedi cornuti si girano e applaudono per uno spettacolo da fine del mondo. Il mio. Clicco sul Galaxy per trovare pezzi di porco per ospedali che volano tra gli anelli di Saturno e amo follemente la femmina dell’arco coassiale. Giuda giudicò Cristo per un peccato carnale perché Maddalena piaceva a lui. Nella fossa dei leoni si penti prima di esser sbranato e il suo occhio fa parte della mia collana. La Sacra Sindrome.
Una maglia azzurra ho comprato per lo spettacolo del Carnevale. Per indossarla sopra mia moglie di centottanta chili di grasso stupefacente tra fumi di oppio e fritto di maiala. Incido sull’anello di fidanzamento i nostri nomi per giocarli alla ruota della fortuna e accoppiarci insieme al Berlusconi caprino in un giro di mazzette e pantegane al prosciutto. Nella notte di Natale ti amo mio amore cornuto. E prego per te affinché la neve scenda sui tuoi piedi scalzi e ti mostri la tenda di Toro Seduto nelle fresche vallate di pandoro Bauli. Perdonami sconosciuto lettore per i salti neuronici che ti fanno giocare con la panna montata e gettano fango in faccia alla stupidità di mamma tua. Sii una merda ogni giorno di più e vantatene. Siamo spazzatura divina. Urina di Dio che gioca con ellissi vagabonde. Materia oscura per scienziati quantici. Ma vino per i miei occhi. Che sanno perdere con estasi teutonica davanti alla Merkel al prosciutto e bacon.
Un gran finale. Una grande folla di nani inzuccherati e filati a fiato fino al collo. Un applauso scrosciante nella tempesta di martiri della grande chiesa. Un Bloody Mary che scende nelle mie vene. E diventa spirito santo.

Il gallo canta due volte (e poi rutta)


Mi rachitizzo in una rucola acida di saltimbanchi col palinsesto fuso da orecchioni vampireschi e corna fritte.
Antonia si sforuncola un abito da notte di lino pregiato e condisce la pasta di vermi froci in zuppa di lenticchie lesbiche che sognano di essere un cane pieno di pulci che si masturba davanti a uno specchio deformante. In un’orgia di pleniluni Antonia sfoggia la conturbante pelosa alla festa della civiltà che si tiene due volte l’anno alla faccia della crisi dove il vello d’oro celebra la propria sensualità davanti a una folla affamata.
Urla di avvoltoi piangono gli sfarzi dei tempi andati e rivolgono alla Madonna la preghiera di una dolce gabbana che si satolla la vagina del fuoco dell’inferno e bacia pudicamente la bocca di una vergine sifilitica.
Bravi. Complimenti vivissimi al coro di pavoni sconsiderati e allegri che raccolgono voti per contribuire a spargere la fame nel mondo e ad imbandire la propria mensa alla quale accogliere i poveri a Natale.
Antonia alleva la prole in un pollaio di sterco di bue e gioca al gratta e vinci. E canta.

Festa di Nonno Strutto


La festa comincia, la festa finisce. Torniamo alla frusta e torniamo contenti. Hai passato buone feste? No hanno fatto schifo. Perché? Cazzi miei, se permetti. Ecco la risposta al bravo soldatino. Che serve il sistema e si masturba pensando ai trans di Marazzo. Dacci oggi il nostro pane ttone quotidiano. Dacci oggi il lavoro sottopagato. Dacci oggi un lavoro. E rimetti al mondo i suoi debiti fasulli affinché i forconi non si piantino in una sodoma e gomorra della civiltà greca.
Rendiamo grazie a Dio. Rendiamo grazie. Grazie. Prego. Non c’è di che.
Tu scendi dalle stelle o dio beato. E beato te che scendi dalle stelle. E che poi ci ritorni. Tre giorni e via. Una lumaca scende dalle stelle e ti benedice col sudore della sua fronte cornuta. Affinché gli lecchi il sedere per il resto dell’anno .E allora festeggiamo e bruciamo l’anno passato e benediciamo l’anno che viene che sarà migliore, sempre meglio di ieri e peggio di domani. E mangiamo. E viviamo come fosse l’ultimo giorno. Vedo uno squarcio di nubi distese all’orizzonte in un volo stellato in cui i canguri non possono starnutire. Vedo un Nonno Natale che guarda nel sacco dei giochi. E resta dentro al sacco e ci si infila, chiude il sacco e sparisce nella montagna che va nello spazio oltre le stelle. Vibro cambiando di dimensione e bevo dal Sacro Graal l’elisir della felicità e della salute che possa scendere su di voi e con voi restare per sempre. Il karma ti perseguita. Il karma è il tuo destino. Il karma ti stringe la mano prima della nascita e ti accompagna insieme a un bicchiere di vino dal sapore organolettico. E piscia contro una parete di vermi che giocano con gli scarafaggi ballando alla musica dei Beatles.
Scendi dalle stelle e impara a dipingere di bianco le pareti di casa.

Ho sognato il naso di Cleopatra


Onestamente era spaventoso. Ma me la sono trombata lo stesso. Sogni che non ti lasciano andare, in una notte di morte senza stelle. Sogni che t’inseguono nel riposo più profondo ed evitano di farti vivere nella menzogna. Sogni che ti ricordano che sei un essere umano e non un robot. Sogni che ti fanno star male perché stai male. Sogni che sono i tuoi migliori amici perché non fanno finta di sorriderti mentre le pecore vengono scuoiate senza pietà e smettono di sognare e tu sei una pecora ma perdi i pezzi poco a poco.
Sogni che ti ricordano che forse, forse, anche tu sei una proiezione olografica di qualcuno o qualcosa o qualche punto interrogativo perso nelle varie dimensioni spaziali che giocano a nascondino con le proprie creature che ora festeggiano il Natale e festeggiano il sogno e creano l’illusione della felicità che arriva in slitta a portare felicità a buon mercato. Mica tanto a buon mercato, anzi. Pagata salata. E l’illusione che domani sarà meglio di oggi e quando lo sarà allora sarà troppo tardi.
Ho sognato il seno di Cleopatra e quello era spettacolare. Per quello non ho fatto caso al naso. Non è che il naso lo succhi o lo accarezzi. Quindi non te ne importa niente.
E l’ho baciata, la lingua di Cleopatra ed è dolce come il miele che è dolce come un sogno che poteva essere così dolce come lo sono le cose che non esistono ma per quello mi danno le emozioni più belle e in fondo è un’emozione che ci fa stringere le lacrime che soccorrono un carro di mele rovesciate in cima a un camino lento.
Ho sognato il Natale.
E mi sono svegliato urlando

Rabbia


Un vago trigonomio mi parla e mi dice “Pentiti degli zigomi di un’argilla vivente”. Peccato, perché guardavo la mia serie preferita di due zii che dormono tutto il giorno. È un grande fratello che si masturba le pere grigie. E adora il rigurgito senile di una prostituta dorata di greggio. Eloina sogna elefanti d’oro che celebrano matrimoni senza tappeti e l’immagine della Madonna che scende da una montagna su una pista da sci di fondo e si trasforma nella valanga azzurra.
È per quello che è apparsa alle pastorelle di Fatima. Che anche loro quel giorno avevano di meglio da fare che guardare una zia che faceva loro la paternale dalla luna. Il clitoride zodiacale della Madonna si situa tra labbro polare e la stella del punto G. Un santo protettore per i cornuti e le luci della metropolitana. Una corsa all’interno del treno si costituisce davanti alla polizia e finisce in prigione. Per sempre.
Aspettando i re magi. Ora è Natale. Ora arriveranno i tre stronzi. E ci martelleranno le palle fino al giorno del giudizio. A Natale saremo fuori dal tunnel. A Natale vedremo la luce. A Natale il bambin Gesù dirà Porca Madonna. A Natale succederà che i pesci faranno giardinaggio pascolando le vacche. A Natale conteremo i cadaveri. L’ultimo Natale poi la fine del tunnel. Vedo la luce diceva Monti.

Abbraccio un teschio coi pidocchi


Informazioni deliranti scivolano su un teschio aperto come una fontana di sangue che guarda milioni di telespettatori incantati alla pubblicità della morte. Una nera signora avanza e rapisce le anime di cartapesta incollate alla sua presenza tra specchi di bromuro e potassio e una logica immanente di vermi in cerca di clienti.
Una zanzara paga il pedaggio autostradale per seppellirsi in cima a una montagna che emana la luce di stella e mi guarda atterrita come una patata fritta. Sogno l’immensità dell’altare che congiunge cielo e terra. Il cielo si dipinge di rosso e viene punteggiato da teschi sorridenti che suonano violini Stradivari in una litania incessante interrotta solo dallo scroscio del mio WC. Una nuvola si ghiaccia tra sonni trascendenti e il popolo di Sion che s’immerge in una laguna blu per amarsi in una docile premura segno di tempi che cambiano verso il color arcobaleno. I colori si amalgamano in una crema pasticcera che sa di zenzero pasquale e io me la bevo con ingordigia infantile.
Altri gatti concorrono alla bandiera della vittoria e si chiedono spaventati perché si trovano qui dopo essere stati adottati dal Paradiso. Nevica e nel mio palato si formano ghiaccioli. Nevica di neve trascendente sul villaggio ingrigito in mezzo agli abeti. I bambini rincorrono il giorno di Natale in un’aria di festa che illumina le anime del cyberspazio. Vola il suono elettrico di una vampira con le ali che insegue assetata la pelle di un bambino con gli orecchioni.

Delirio di Natale


Un panico mi fissa mentre intingola le dita nel pomodoro natalizio. Hallowen è solo un antipasto. Sta arrivando il temutissimo Natale. Un grande pasto si prepara. Una intingola di prosciutti e considerazioni personali sull’anno passato. E un altro anno che arriverà. Di peste nera. Ma festeggiamo. Spendiamo. Guardiamo la pubblicità della famiglia felice. Serena. Contenta. In cui tutti, dico tutti, ridono e sorridono. La festa della sincerità. In cui tutto sarà rosso.
Rosso fuoco.
Il rosso in cui Nerone vide bruciare Roma.
Tutta roma. In un rosso Natalizio da cui la gente scappava. Il Natale è morto. Il Natale scappa. Il Natale si toglie le vesti e mostra la coda e il pelo del lupo cattivo.
Baciamoci e scambiamoci il segno di pace. La colomba che toglie il peccato. La lasciva che scorreggia via tutto lo sporco. E Roma brucia. Buon Natale amico mio. Buona fortuna. Festeggia un anno d’incazzi con lo zampone e il cotechino. Abbuffati fino a scoppiare perché grasso è bello. Grasso è spensierato. Grasso è Babbo Natale. Devi sedimentarti intorno a una spugna color Arlecchino prima di capire che la peste nera non conosce mutande a pois. Quelle rosse che la tua fidanzatina ti regala l’ultimo dell’anno e che fa tanto culattone. E soprattutto fa’ vedere agli amici quanti soldi puoi spendere, quanti ne hai. Fa’ che la tua fidanzata possa vantarsi con le amiche del tuo regalo.
Questo è il delirio del capodimonte. Un ballo del quaqua. Che finirà con i fuochi d’artificio perché un anno possa morire e uno nuovo cominciare, come prima, più di prima, finché morte non ci separi.

Un amalgama silente


Un amalgama silente. Silente amalgama di mummie di borgata romana. Lenti cadaveri che si aggirano tra vino e tarallucci. Cantano e bevono senza lasciare traccia del loro passaggio e si reincarnano in un insetto silente e volgare.
Il suono guida la mano di un poeta ardito che si tocca il dito con il naso variopinto mentre il dipinto si erge a sommo pianeta di una lavastoviglie fantasma. Nelle mie orecchie rimbomba il sonno di una lavasciuga liquida di colore verde ramarro tipo pus che mi ronza nelle orecchie come un sommergibile fantasma.
Un punto e virgola mi guarda perplessa e finché mi fissa non riesco a fare pipi’. Mi sciolgo il decolté in una sfilata di moda e resto nuda in una scena madre del film sulla vita dei pesci dell’oceano pacifico.
Una mano scivola sul pene e non sai cosa farà perché dipende da una dimensione aliena in salsa erotica e Marte predica l’amore universale. Un corno scivola nel solstizio d’estate e preghiamo insieme perché Natale venga schiacciato da una balena blu.

Tutto in vacca


Un paio di tuguri infinitesimali brindano davanti al cespuglio degli errori. Sprizzano coppe di champagne di liquidi odorosi e hanno paura della manna infernale. Il brivido dell’incognito s’impadronisce degli astanti che ansimano dai torrioni in pietra mentre la battaglia infuria. Il capodivento s’impolvera di stelle natalizie e il conto alla rovescia comincerà tra poco. Sarà Natale, un altro mondo, un altro incubo incombe su di noi affinché il pil aumenti e le vene si esauriscano del sangue del popolo bue che impegna l’oro d’Italia.
Il mio cuore ruzzola nel fango di una pallottola puntata allo specchio del rinascimento lento. Il grosso dell’esercito si è perso in un bicchier d’acqua multiforme senza batter ciglio ed è annegato silenziosamente suonando il silenzio. Mandragola si sfrega le dita in calore e sviene tra le braccia di una serpe maculata e ridente. Arthur si mangia un vaso di fiori senza godere di una giornata all’aperto sul suo terrazzo dal sedicesimo piano di un attico romano. In realtà è una collina di periferia. I piani sono quelli dei rifiuti formatisi nel corso dei decenni in una discarica abusiva. È quello che pensano tutti su facebook è questo basta a trasformarlo in realtà.
Il mio cuore piange
Il sesso ride
Nell’iride una lacrima non osa uscire. La notte scende urlando le sue ragioni. E mi pento di esser vissuto in un mondo. La pazza ha ragione e urla a modo suo strappandosi i vestiti. Piango per una vita sprecata a morire ogni giorno mentre fuori splende la luce di un dio che non ti vede nemmeno nell’urna. Spengo una candela alla mia luna storta e accetto i doni dell’universo in una sala adiacente alla fortuna di un discendente degli dei. Una pazzia d’amore frusta le mie vene e il mio cuore dalla nascita al motore. Un tamburo batte nel mio torace e fulmina l’amore in una tazza da thé (o come diavolo si scrive).

Un ganglio insorge nella navetta del piede arricciato


Nel tempo di Natale scende la pioggia dalle nevi del Kilimangiaro e un cecchino nero spara all’orizzonte senza sapere che un risotto gli cadrà sulla testa. Mi piego e mi spezzo sull’altare di un pasticciere gay. Uno sparo nel vuoto di un deserto di pietra. Riecheggia l’eco di una musica punk. Un violino si diverte a nitrire e una preghiera ne semina il cuore in tutta la valle. Ereditiamo una follia con lo sconto sulla quantità e un manipolo d’indiani d’america controlla la valle. Al suono del tamburo riflettono la luce di un libro di 36 zollette di zucchero. Quindi invitiamo il presidente degli italiani in una mangiatoia nel fienile di un casinò. Che fischietta dipingendosi la stanza rococò. Una pungente atmosfera di api scivola via nelle mie vene infettose e gongola obesamente tra le palle di Giuda per una piccola palla di pelo che sa di frutta candita. Un immenso rutto di maiale esala l’ultimo respiro nelle viscere della carrozza del principe Pavone.