Una lucertola guarda nell’occhio del silenzio mentre una partita a poker si gioca tra pavoni allupati di gioia elettrica. Una sirena si staglia nella notte della foresta. Un antifurto o un urlo disperato? Il gioco va avanti e impone ai giocatori di spurgarsi dalle loro fatiche finché non passeranno al livello successivo dopo la morte del personaggio. Supermario si raggomitola in un angolo perché non ne può più di giocare, ma è programmato per continuare ed è meglio far finta che dire la verità. Lo spettacolo deve continuare per il divertimento di Capitol City.
E tu Mario? Che fai? Ne è passato di tempo da space invaders e il commodore 64 ma il gioco continua come prima, come sempre e tu ora devi giocare. Per 300 euro al mese magari, ma a tempo pieno. Ora sei tu nel videogioco e giochi la vita. Non preoccuparti. Un giorno finirà. Quando sarà troppo tardi, ma finirà. Hai voluto diventare un burattino senza fili? No, non volevi, ma è così e basta. Mentre la lucertola si toglie la benda e vede attorno a se i fili neri della morte smette di sorridere e se la rimette e continua a ridere come prima. Cieca ma beata.
Una sessione di vene sanguinolente succhiano linfa vitale da canali scoperchiati di lingue violente che amano la tortura e guidano contromano. Un paesaggio presente, ma lontano e passato che non conosce colori ma ama, dicono, e parla d’amore, e compenetra anime e corpi di colori che non restano dipinge la nostra anima e la lascia assetata di nuovo. Ominidi in giacca e cravatta osservano stupefatti, pietrificati su trespoli di sterco essiccato e ululano alla luna un posto al sole per dimostrare che anche loro meritano il bonus di fine anno e quindi esistono.
Benvenuto tra gli insetti.
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L’equazione di strutto
Una piccola sibilla mostra il cielo a vituperanti girandole di luce rossa e nera. Il Golgota dei campi di Marzio illumina le fasi della vita di un’edulcorata fase di luna piena e inghiotte pacchi postali enunciando il padre nostro tra effluvi di sesso e umori di pessimismo cosmico. Una lettera perdona. Una lettera condona la fustigazione del figlio dell’uomo e della donna nel paradiso terrestre tra chiodi e sassi magnetici e scarti di produzione galattica. Un accoppiamento col dio della barzelletta porta alla riproduzione della vita tramite la pazzia e la cioccolata fondente. Sangue e cioccolata si fondono in pianeti emersi tra draghi di cartone e discorsi politici in una campagna elettorale di forza italia 3.0.
Un vallo di lacrime si interseca con il cuore a forma perpendicolare per piangere sulla tomba del milite ignoto che ignoto non è e mille ragazzi piangono con lei. Una forma nera prende piede nel mio cervello e viene digerita sotto forma di ape regina. Mi ricordo odore di violette e salive di ramarri che mi baciavano in bocca. E lasciano traccia negli acidi gastrici tra odio e amore.
Armaggedon si lava i denti e si passa il filo interdentale prima di dormire con la propria sposa Morte e insieme a lei partorire anime di soffritto e cipolle argentate che spaziano tra le deliranti grida di giubilo di mosche e insetticidi sparsi ai quattro venti e trenta e quarantasette gatti che miagolano impauriti nel vicolo cieco davanti a cani lupo affamati.
Punto.
I canti Eloisi
Una marmellata di prugne mi stimola lo sfintere d’amore collettivo e ruota la caramella di una pruriginosa colata di cemento liquido. Mi riempio di azoto e me lo passo sull’uccello nell’attesa di sputarci sopra per una gara di formula uno ripresa dalla televisione. Mi chiedo perché la vita è così normale. Una caduca tela di picasso mi dà la risposta sottovoce, così piano che non ci capisco un cazzo e la prendo a calci.
Prego un vaso di gerani in fiore di fare la festa alla tragedia del senso mentre una malinconia soffrigge dentro di me. Vedo caleidoscopi arcobalenanti sopra di me e dentro le mie parti veneree. Scopo una sifilide operaia grattandomi l’orecchio da dentro il casco. In quel momento le piramidi smettono di girare e provocano un terremoto tra i gabbiani della spiaggia reale. Un moto perpetuo si riempie la bocca di vaniglia sky.
Una vecchia centenaria si gratta il clitoride ferocemente per un ultimo orgasmo sul letto di morte.
Una gatta guarda seraficamente il proprio uomo cullare i gattini e giocare a tressette. Si eccita e incomincia a leccarsela
Mario si inghiotte dodici dosi di proteine per una sessione di brainstorming in palestra con i colleghi scienziati nucleari. Mentre sua moglie si fa un pompino nella cucina di un monolocale di periferia.
Fumo un sigaro di mortadella scaduta. Augusto gioca in un’altalena di cerbiatte vive. Colt si diverte a masturbarsi davanti alle signore che si appartano dietro un albero a fare pipì nel parco.
C’è un barbone.
C’è un barbone vicino a casa mia. Me lo incrocio un giorno si è uno no tornando dall’ufficio. Mi fa incazzare. Non è come gli altri. Non chiede elemosina. Non spacca i timpani nei metrò e i marroni per la strada urlando o litigando o venendo a chiederti una sigaretta. No. È alto e robusto. Ha i capelli grigi un po’ lunghi e così grassi che ti verrebbe da offrirgli una doccia e una lavatrice.
Lo trovo seduto o in piedi barcollante. Testa verso il basso con i capelli che la ricoprono.
Quando vedo i suoi occhi il messaggio che leggo è “Dio dammi la morte, cazzo” e Dio non gliela dà. E lui soffre.
Ha finito, non ne ha più, eppure il suo fisico resiste.
Ispira tanto dolore che ogni tanto qualcuno va lì di sua iniziativa e gli dà dei soldi senza che lui li chieda.
Non so se dargli il colpo di grazia o sedermi a fare quattro chiacchiere con lui per dargli…che? Conforto? Farmi i cazzi suoi e basta? Scrivere un articolo su chi non ce la fa più? Dargli soldi perché se li spenda in birra? Incazzarmi con Dio perché gliela faccia fare finita con ‘sta commedia dell’arte che è la vita di tutti quanti?
Credo che mi destabilizzi perché non è altro che la mia paura di vivere fatta persona. Quello che ti aspetta se non ce la fai. Quella silenziosa disperazione di cui sei cosciente anche se cerchi di non vederla, di non sentirla e, soprattutto, di non ammetterla.
Ecco quando vedo lui ho paura per me, soffro per lui, e prego per un mondo migliore. E prima o poi gli darò anche dei soldi senza che me li chieda per fare una doccia al mio senso di colpa per star meglio di lui.
Spara sorcio
Un’eiaculazione onirica spara al sedicente ferrarista al culmine della gara di lacrime. Lo scroto della vita è un gioco di odio assassino che si esprime tramite la felicità di una lucertola che recita nella commedia dell’arte la parte di Pinocchio. Rettili gioiosi cantano una lirica di Rossini mentre l’orgasmo di un prete circonda la sala Messe e una parrocchia prende il volo per risorgere il terzo giorno. Quando lo spirito santo ricadrà sul midollo spinale della lucertola invertebrata che gioca col tempo pensando che sia un verme di terra che la ama come fosse la sua sposa. O la sua spesa.
Tra i banconi del supermercato vedo un barbone che piange e si dispera e chiede a Dio di farla finita prima possibile ma non c’è verso e deve resistere fino alla fine del mondo.
Un gas sconosciuto attraversa le regioni remote della vestaglia del datore di lavoro che mangia finocchi per scoreggiare meno gas. Il letame della sua anima incrocia gli occhi di un manovale di basso gradimento e il risultato si legge sulla mezzaluna di un cimitero copto 3.0 e via così.
Lo scontro di amicizie si risolve tramite il rituale islamico in un’area di calcio sufi che danzano i danzatori nella paura di una scheggia di morte sotto forma di pantofola sorridente come una cagna assatanata di sangue di giovani vergini. L’odio di una mezzanina contempla il periodo di un pendolo asfissiato di ragù nel torsolo di un tappo di sughero su una bottiglia di stronzi macerati nell’olio piccante. Sempre sia lodato il pendolo di Aladino, sotto forma di jet e sotto forma di siluro di livello Alpha.
Mi addormento in una siesta elettronica dopo aver mangiato spezzatino di pollo alla milanese. E mi inietto una dose di curaro per non sentire più la sofferenza di un topo che si fa la lampada abbronzante. Lo stomaco vuoto reclama il sangue. E la saliva di un vampiro condanna uomini, donne e bambini alla ghigliottina di un severo padre nostro.
Ora andrò a confessarmi con l’animo puro e con le gengive sanguinanti.
Indovinala grillo
Abramo si ferma a mangiare un Gyrlof alla banca d’affari della Smiurnia in località Belgio. Un tranello ardente lo attende al varco dell’olio piccante, mentre ritraggo un sospiro profondo e lui ritrae le palle e soffia fuoco che l’acqua non può spegnere, solo il bacio di una principessa che però ci rimane secca. Si rialza con uno slurm e un porca vacca ma decide di sposarla finché morte non ci separi. Così come una mela al fulmicotone s’interessa di bolge infernali così Abramo scrisse il suo diario all’inferno. Sì perché lì era finita la principessa. E la morte non bastò a separarli. Se lo sapeva prima. Comunque si chiese perché la radice cubica di un tarlo risulta essere sempre un coglione e mezzo. E la ragione capitò quando meno se l’aspettava. Una ragione di ferro. Un’ascia dura tra i denti. La ragione era che il suo cervello era grosso come quello di un tonno rio mare, già cotto e pronto da servire in tavola.
Abramo realizzò allora la sua missione su Terra. Mangiarsi il cervello un po’ alla volta. E chiese di tornare a vivere per sperimentare una nuova pettinatura indispensabile per riunire i denti sotto la stessa spazzola color arlecchino arcobaleno. Per accordarglielo gli chiesero tre condizioni. Mangiarsi i peli delle ascelle uno a uno. Condirsi il naso con la salsa tartara e soprattutto succhiarsi il pene imbevuto di birra alla spina. La prima ce la fece. Urlando a squarciagola, ma ce la fece. Per la salsa tartara non gli avevano detto che all’inferno tutto era piccante da far invidia ad un indiano, soprattutto la salsa tartara. La terza prova la sta ancora facendo, dato che più lui succhia e più viene, più viene e più si ubriaca e più si ubriaca e più succhia e non si accorge che continuano a riempirglielo. Diavoli di un inferno.
Ma la principessa interviene. Dopo un’eternità ma interviene. Oggi possiamo pescare pezzi del cervello di Abramo in ogni pesce. Ogni pesce che sa di birra alla spina. Con un retrogusto un po’ piccante. Ma basta dargli un bacio perché il sapore piccante evapori in una nuvola radioattiva.
Votate Sade.
Ma votate.
Callivari s’incolla
Callivari al galoppo vince per un’incollatura. Una magnifica corsa al recupero della velocità si scioglie in un amplesso collettivo, mentre la folla belante porta un cavallo in spalla per massaggiargli la cresta e adorarne la coda.
In un candido sorriso, Callivari si lascia intercalare tra una foto e una magnificenza.
Cavallina cavallina storna, canta il cantico di colui che non ritorna e leccami l’ascella di mandido sudor che s’incolla, ma non si sforna. E accoppiati col Callivari che fuma un sigaro mentre gioca a poker col cavallo morto d’infarto sul traguardo.
Un traguardo di rabbia e sangue infetto si sparge sulla testa di cavalli e vecchi, vestiti da guerrieri con chewingum nell’orecchio a mo’ di orecchino. Una spremitura di mucca munge il malfattore nell’arena del sole e viola il patto generazionale senza togliere un ragno dal buco e una nuvola nera di fumo allucinogeno si estende dal falò di sterco di pelo nero.
Nuvole di peto di cavallo partecipano alla messa degli spiriti equini che si riuniscono alle nozze di Callivari e della Cavallina storna che formeranno una nuova famiglia di sangue puro per vincere e far impazzire, piangere e amplessare masse di unicorni sotto il sole di un mezzogiorno di fuoco che marchieranno a sangue puledri di un campione vichingo che ora guarda con gli occhi spalancati e sorpresi il tempo che scorre anche per lui e ammazza i suoi amici e fratelli.
Dimmi Cavallina storna dove sta colui che non tornerà, tu che parli con la morte e cerchi le ceneri del tuo defunto marito
in un sonno eterno che tra tre giorni e due minuti ti farà ricongiungere alla nuvola di peto nero e allora saprai, saprò e sapremo cosa cercavamo, ma allora, forse, sarà un po’ tardi.
Odi il profumo di sesso della bestia scotennata
Un fumo di Londra si erge dalla potente voce della soprano che canta l’Aida in mezzo a metalli dissonanti.
L’eccitazione si sparge per la sala come il profumo di gorgonzola affumicato e vulve inconsapevoli cominciano a sentire il calore della voce di Dio che ordina imperiosamente al liquido succulento di emettere le proprie spore mentre Lucilla espande il fuoco del proprio suono al battito dei tamburi.
Violentemente la figlia di Arturo si toglie i collant e pregando il Signore e la Vergine inizia lentamente a farsi possedere da una grande candela accesa e un coro di voci si unisce a Lucilla che come un direttore d’orchestra attribuisce ruoli e compiti ad un pubblico sempre più in movimento.
Baci, abbracci, carezze, movimenti lenti di signore attempate e vecchie galline che allungano le mani su giovani peni induriti dall’esperienza di mani rugose e nostalgiche che in quel momento si riaccendevano in una scossa elettrica della stessa frequenza della voce di Lucilla accompagnata dalle voci degli angeli che con misericordia spargono l’amore su menti fresche ad accettare il calore divino nel sangue che cola come una manna dal cielo.
Un esercito di santi e puttane avanza scardinando i sacri pilastri dell’opera compiuta e mentre la figlia di Arturo si accoppia con i due fratelli e i genitori si compenetrano di un amore dimenticato alle passioni dell’adolescenza.
Tempeste di amore si riproducono in penetrazioni vaginali mentre l’orchestra smette di suonare e nel silenzio si spargono urla di spasmo erotico di donne accovacciate su poltrone e distese sul pavimento.
Quando Lucilla intona l’Ave Maria un’ondata di sangue di Cristo si sparge nell’Opera che prende fuoco.
Un fuoco sacro eleva cinquecento persone in una fumata al di sopra di una città addormentata.
Silenzio.
È l’alba.
Le campane della chiesa suonano per chiamare i fedeli ad adorare e amare e perdonare e confessare.
Finché morte non li separi.
Succo di pomodoro e basilico
Ora Giustino si ritrova a correre con una sedia in mano per salvare almeno qualcosa dall’incendio del suo ristorante. Sta cercando di portare fuori anche il frigorifero e la carne buttata lì sul marciapiede tanto poi si laverà e intanto le fiamme mangiano metro dopo metro e il fumo distrugge anni di lavoro e di risotto. Ma ora non c’è tempo. Non può pensare a ricominciare e non si ricorda se ha pagato l’ultima rata dell’assicurazione. Ora sta portando fuori un cameriere quasi in coma dalla tosse e una cliente bionda con i capelli in fuoco e la pelliccia piena di pomodoro. Mentre la sua camicia bianca sembra un colabrodo cerca di asciugarsi anche le lacrime che sgorgano da un disastro annunciato. Quella bombola di gas andava, andava cambiata. Ma forse non era stata la bombola. Da quando si era rifiutato di pagare la tangente alla mafia era stato avvertito. Ora che guardava da fuori vedeva che stranamente il fuoco si era spento prima di distruggere tutto e forse, forse permettergli di ricominciare, pagando, ma di ricominciare. Ma no, non avrebbe ricominciato per dare tutto a dei cani.
Un mese dopo puntuali come la morte arrivarono.
“Ciao Giustino, mi spiace per l’incendio”
“Dimmi che vuoi e lasciami in pace”
“Lo sai cosa voglio”
“Lo sai cosa avrai, no?”
“Giustino, ascolta, hai una famiglia”
“Appunto che mantengo a malapena, se pago voi chiudo”
“Non puoi non pagare, tutti pagano”
“Allora va’ da tutti”
“Giustino, io sono tuo amico”
“Allora ascolta. Tu non sei mai stato mio amico, lo sei ora perché devi fare l’esattore. Se no tanti saluti. Comunque ora guarda qui”
“E’ una pistola, scherzi?”
“Guarda te lo spiego subito”
Gli sparò a una spalla, così, senza tante storie, ma senza ammazzarlo, non si ammazza per così poco. Forse l’avrebbero ucciso. Forse no. Anzi si’.
“Sei pazzo Giustino, ti ammazzeranno”
“Lo so, lo so. Ma se non sgommi in tre secondi morirai prima tu”
“Pazzo, pazzo”
“Ciao Amerigo. Ciao, saluta a casa da parte mia, mi raccomando”
Se ne andò. E lui prese il treno e se ne andò in campagna. Quant’era fresca l’aria e caldi i raggi di sole. Che strano. Queste cose le vedeva da giovane. Era da almeno vent’anni che non ci faceva più caso. Ma se non fai caso a queste cose come puoi dire che vivi. No, non è vita. E non è niente. E per chi e cosa era morto? Sua moglie non vedeva l’ora di divorziare e avrebbe passato la vita a passarle alimenti. Allora sia che c’è? Perché un’esistenza da schiavo invece che una vita. Una sola. Quel poco che resta. A fare il cuoco da qualche parte. Che in fondo il ristorante l’aveva aperto perché era un bravo cuoco. Aveva voluto fare il manager, ma sai che rogne, poi? Se ne andava a fare il cuoco italiano da qualche parte, in Russia, poi in Giappone, perché no?
Non scese dal treno, non andò a casa a prendere i suoi affari, troppo pericoloso e troppe cose da spiegare. Una telefonata al figlio ogni tanto, ma era già grande, poteva prendere l’aereo per andare a trovarlo.
E allora via. Verso la libertà. Da quanti decenni. Da quant’eternità. Anzi, perché darsi la pena di scendere dal treno, poi? Tanto il vagone ristorante c’era da qualche parte e anche qualche cuccetta. E allora ciao. Ciao amore. Ciao terra. Ciao mafia. Ciao a tutti. Di cuore. Giustino.
Marmellata di prugne
In una cannonata Iago perse una gamba. Svolazzò via che sembrava un palloncino per i bambini e lui, prima di sentire il dolore, stette a guardarla volare ricordandosi quando da bambino faceva volare gli aquiloni. La sua gamba. Che roteava. Poi sentì il dolore.
Un bruciore da far fondere il cervello come marmellata e quell’imbecille (di cervello) non staccava la spina. Non lo faceva svenire, no. Fino in fondo gliela faceva godere. Quando passò la croce rossa delirava, ma i combattimenti continuavano e lui non sentiva più suoni, sentiva freddo. Si stava svuotando come una damigiana di vino rosso. Con le vene che sembravano autostrade che finiscono nel vuoto. Mentre lo rammendavano alla meno peggio sperava veramente di lasciarci la pelle dato che comunque la vita non sarebbe più stata nemmeno lontanamente decente. Diciamocela chiaro, nella guerra all’Iran c’era voluto andare di suo. Spirito patriottico e riga. E soldi. Ma non solo. Anche spirito patriottico. Volato via in una nuvole di spruzzi. Ora sì che la cosa si faceva interessante. Avrebbe giocato a poker con Dio, il premio, la morte. Ma se Dio non ci fosse stato allora sì che gli avrebbe fatto del male. Gli avrebbe sconquassato paradisi e inferni e quinte e seste dimensioni. Gli avrebbe spappolato la gamba anche a lui, così vede com’è restare senza una. Ma avrebbe vinto. Era sicuro.
Con tutto quel po’ di sangue che gli rimaneva in corpo approfittò di una distrazione dell’infermiere mentre l’ambulanza correva tra le bombe e lo sballottava di qua e di là e gli sparò. Un’ultima cartuccia. E si sparò. Cioè, forse non c’era bisogno di far fuori l’infermiere, pensò due secondi prima. Ma va beh era venuta così. Non c’era tanto da pensarci più.
Ok Dio ho barato, ma non sto certo a fidarmi di te. Poi la pallottola attraversò la scatola cranica, da tempia a tempia. Un attimo, ma una distorsione del tempo gli fece ricordare un cioccolato al limone che aveva mangiato con suo fratello Giangiacomo il giorno del matrimonio (di Giangiacomo). Quel sapore gli esplose in bocca, che se lo sapeva prima, mica ci pensava tanto a spararsi.
Il sessuale abbraccio delle parole
Una stringa di caratteri si avvolge al mio corpo e ne cerca i meandri più genitali. Mente sapendo di mentire e sussurra all’orecchio quello che voglio sentire. Maestra della strada e cibo di un fantasma che si materializza in mezzo a neuroni cerebrali finché morte non ci separi.
Una mente che serpeggia sinuosa intorno all’albero della vita tra i pilastri di Salomone che ascende al cielo in mezzo a strade tortuose di tartarughe lente e sagge.
Dio mente perché solo così può farti arrivare alla verità. Disse luce e luce fu. In principio fu la parola. L’abbraccio mistico di un delirio onnipotente. Un pazzo bambino che giocava con una penna a sfera. Un orgasmo liquido che ha creato il vino e lo spirito. Un abbraccio rettilineo che ci guida verso una luce orgasmica. Una luce che gioca con Dio riformulandolo geneticamente.
E io scrivo una marea di cazzate. Ma divine. No?
Topo
Una lunga striscia di carne percorrevo disilluso e assonnato sotto un sole cocente che mi portava verso nuovi crimini, nuovi deliri contro l’umanità.
Tiro lo sciacquone e seppellisco pelli scuoiate da cuori palpitanti di tori scatenati. Gira la lanterna dell’amore mentre un uomo solitario esce a passeggio in un circolo di nebbia che lo inghiotte e sparisce freddo come un’acciuga.
Mentre i suoi scarponi calpestano tappeti di carne e s’imbrattano di sangue come fosse fango dopo la pioggia. Una nebbia polverosa che entra nei polmoni e si deposita nei pori ricoprendoli di fuliggine melmosa.
Un vecchio cammina verso la morte. Verso la fine della nebbia, dove soltanto topi stanno in fila ad aspettarlo. Tributandogli l’ultimo saluto, con rispetto. Per l’unico umano capace di parlare con loro.
Prima di mangiarlo pezzo a pezzo per appropriarsi della sua carne e del suo potere. Per forse poter combattere gli umani. Un’antica leggenda prende vita in cui un pianeta sarà comandato da topi.
Ho riscaldato il mio cervello al microonde
Scoppio nell’ambito di un fantasma. Mi lascio andare alla follia che alberga sempre più padrona della mia mente e lo spazio mi sembra un grande vallata di fumo e alcol. Un grande buco dove il niente diventa e basta. M’abbandono alla lanterna dell’amore che scivola dolcemente su uno zucchero a velo di alito positivo. Un ambiente diverso. Fatto di gruppi elettrogeni e allucinogeni. Dove il sonno non alberga più. La notte è un immenso soffitto bianco mentre faccio l’amore con una chitarra elettrica e fondo i miei testicoli nell’assolo di una canzone che spacca i timpani ridondando come una campana a morto. La televisione continua a trasmettere mentre chiudo gli occhi e il telecomando cade dalla mia mano sinistra. Gli occhi finalmente si chiudono sul sipario dello sbarco di Normandia. Che ha trasformato un’Europa nel cinquantaduesimo stato degli Stati Uniti. Vedo un dentista che opera una bambina. Vedo il sangue schizzargli negli occhi. Vedo Che il sangue è il suo. Vedo che il dentista muore e la bambina scende e se ne va.
E il silenzio scende sulla mia notte insonne.
Gruppi di mosche s’insinuano intorno alla mia cena scaldata al microonde.
Onde radio si mescolano alle pustole d’alloro che circondano il pazzo che si aggira nella mia stanza mentre dormo e mi guarda e mi osserva e mi seziona come se mi conoscesse, come se fosse una parte di me.
Mi bacia e mi risveglio. M’illumino e vedo. Sciami di luci in una’arcobaleno di suoni color della cenere. Insieme ripuliamo i morti del cimitero. Finché la morte non viene a seppellire il bambino e la trinità divina.
Buon Natale toilette mia cara. Che ogni mattino accogli il putrido fiele che alberga il corpo di un pazzo.
Buon Natale a te, orifizio da cui scende un’ira molle color cenere.
Buon Natale a tutti voi, pazzi. Che sciogliete una mela nella bocca del demonio e fate sesso con un’aranciata di birra semovente.
Mi agito e scopro che il mio sonno altro non è che un insieme d’incubi e sogni agitati dalle note sgangherate di una sedia elettrica. Mi chiudo e mi rinchiudo nel caldo abbraccio delle mie lacrime che pensano a una seconda vita cullate dall’atmosfera di Marte e Venere.
Esco da una passerella fatta di angeli e plano su nuvole di smog al contrario e passo da una nuvola all’altra con le liane come tarzan e urlo un urlo agghiacciante che spezza il mio cuore e mi fa passare dal sonno alla morte.
E mentre osservo il mio funerale penso e ricordo a un tempo in chi non dormivo e sognavo di morire. E sciami di amare mosche lacrimavano in mia compagnia e di una toilette natalizia, forse un regalo di un parente pazzo.
Ora sento che la mia pazzia ride e piange e ama e lotta e siede alla destra del padre e della madre. Prego che la nonna si masturbi sul ventre di una balena rotta.
Solo così troveremo la pace nei sensi di una chitarra rock.
La nuvola
Delirando si pescano pezzi di assurdi romboidali senza fondi di caffé.
Normalmente sbattiamo contro muri di pesce che peschiamo senza farci pescare.
Inga sta passando quella linea che va dal non aver avuto uomini al pensionamento.
La pelle stava lasciandosi cadere in un vuoto pneumatico. L’occhio rotondo di un azzurro sbiadito era mal sostenuto da occhiaie di lacrime antiche. I capelli biondi e tedeschi sembravano le pagliette con le quali si tira a sorte per la più corta.
Il quadro invernale era completato dagli angoli della bocca che is lasciavano cadere verso il basso. Anche il trucco era sbiadito. Mentre la vedevo di profilo davanti a me e dopo di lei le grandi vetrate del quindicesimo piano della sala riunioni. Mentre nuvole temporalesche sfilavano come a una parata militare, espressioni della nera potenza della natura io potevo immaginarmi il peso di un inutile seno che era completamente adagiato su un reggiseno asettico, con pochi fronzoli, messo li’ senza nemmeno più l’intenzione di far vedere un seno più grosso.
Inga era un fantasma fatto persona, diafano, contro cui le nuvole si mischiavano senza percepire che la materia era più densa. Perché in fondo era già una di loro. Una nuvola in riunione. Un’effeminato fantasma senza sesso, se mai lo ha avuto o usato. M’immaginavo una vergine appassita che da giovane doveva essere stata pure carina, ma uno di quei carini senza vita. Quella morte che già adesso si porta intorno come un’aureola sbiadita.
Forse la cosa più facile è quella d’immaginarla nella sua posizione naturale nella bara. Là dove non deve più confrontarsi con la densità della vita
Dammi cinque!
Ok amico oggi non scherziamo, non parliamo di dio, di amore o di porno, non parliamo di morte e di vita, sole e luna, stelle e puttanate varie. Neanche di un orgasmino. No, niente. Oggi mi sento un po’ zingaro. Mi sento folle e mi abbandono, mea culpa. Mi sento di volare e pisciare, mi sento un po’ lascivo. Non dormo bene la notte perché ti desidero e il mio corpo ha singulti sincopati, in controtempo, e urla di piacere e dolore perché vorrebbe scoparti. Il mio corpo si stacca dalla pelle e si lacera sul pavimento contorcendosi come una piovra. Oggi il mio corpo va per conto suo e ti voglio far sentire come pulsano le sue vene. Perché pulsano. Dove e quando. Pulsano che sembra che scoppino, e ogni tanto, in effetti, un po’ di sangue ci scappa, ma non è grave. L’importante è che tu lo guardi e godi nell’assaporare il tuo potere, perché tu sei Dio e lui è tuo schiavo. Puoi fargli quello che vuoi. Puoi odiarlo e baciarlo o bruciarlo lentamente con olio bollente e aglio e assaporarlo goccia a goccia mentre pizzica la tua trachea col sapore salato di una lacrima. Puoi tagliarlo per vedere come sono fatte le fibre delle sue carni e puoi penetrarlo per abbandonarti al tuo potere. E puoi passare con lui notti insonni finché morte non vi separi, a scambiarvi la pelle e il cuore, la saliva e i posti all’inferno. Canterete il silenzio, ad alta voce finché il coro delle anime perdute si commuoverà di un pianto senza lacrime e così maledetto.
Piangi, lotta e stira
In un canto consapevole
Di un airone senz’ali
Un biscotto farcito
Di niente
Al sapore di ricotta al mirtillo
Bing bang bang!
Esplodo
e nasco con un rutto.
Un rantolio gorgogliante che determina la mia prima esistenza in questa dimensione.
E piango le prime e ultime lacrime.
E mi assento temporaneamente dalla vita.
E dalla morte.
Vago in un interstizio dimenticato dove passa una metropolitana rassegnata al fatto di non morire.
M’immergo in una bolla d’elio respirando a pieni polmoni, atrofizzati, mentre il pianto di un bambino lontano perseguita il silenzio dei miei cordoni ombelicali.
Vago nella città di un Dio minorato mentalmente che si serve delle sue serve per dormire sonni erotici praticando archi magici per esplorare il suo inconscio.
Fuggo davanti alle ancelle divine per rincorrere lo spirito santo sottoforma di patatine fritte.
Rido e m’ingrasso al pensiero di un rampollo di dio che salta e formalizza la sua libido in formati ergonomici tridimensionali.
Mi preparo un pesto alla parmigiana facendo fondere echi di trombe di eustachio.
Mi scende una lacrima e mi preparo a morire ballando il can can insieme alle majorette di Odino che si sta pulendo le ascelle col filo interdentale per assumere la forma di un orango tigrato con lo smoking ora che conosce i balli celtici.
Scende la notte e dorme il fato e io mi distendo serenamente per sempre con in bocca sapore di cioccolato fondente.