Mangio Valchirie e desidero un bicchiere di sesso al lime.


Un’epigrafe al cimitero legge una poesia di Montero e recita a voce stridula la propria ignoranza. Nel mentre un elicottero dolcemente atterra al centro di una libellula in calore e le chiede se può profumarle la schiena con il miele di leopardo. Certo fa lei, accomodati sulla punta delle dita. Così si esprime un maestro. Per far fermentare il mosto del mostro in gonnella su sedicenti pulzelle che giocano con cavalli agitati in un prato fiorito di margherite e rododendri.

Così, guardandosi lo spettacolo, Manuela si getta tra le braccia del tempo e pensa che forse suo marito non le vuole bene perché non glielo dice tutti i giorni. Tutti i santi giorni. Preghiamo insieme e diciamo Rendiamo grazie a Dio per avercelo disegnato così bene. Cosa, non si sa. Ma è bello pensare che lo sia.

Non deliriamo fratelli, ma pace e pane. Sotto l’albero di Natale piove tutti i giorni, ma dentro al prosciutto crudo la festa continua e tutti saltano in aria durante la legge finanziaria.
Renzi mi ha chiamato e mi ha detto che vuole scherzarci su perché tanto anche la legge non sa più leggerla nessuno e allora farà cantare in coro tutti i deputati e questa sarà l’ultima riforma poi tornerà nella giungla a giocare con scimmie clonate di puttane tristi.

È o non è così? Sì, per tutta la vita.

Il miele disadattato


Nulla sottende alla redistribuzione del reddito e nulla parla nelle gonne di una maschera veneziana. E chiede. E risponde “Mi mordo la lingua!”, ma noi diciamo “E allora?” e quindi supercazzola a te amico e figlio dei fiori.
Ma tornando a tromba anche il miele cerca una via d’uscita dalle pecche quotidiane.
Angela mi fa una sega in cambio di una ruota di scorta usata. Ma ha delle mani da pianista e un tocco migliore della lingua di Venere. Non vedo l’ora id toglierle il succo della vecchiaia per ringiovanirla dai suoi ottantasette anni portati bene.
Figlia dei fiori di viola al forno che scrolla la ruggine di dosso da un cammello asmatico che quadruplica le forze per gestire la forza di Odino e sparare sulla croce.
Il senso del dovere evince la scoperta della caccia al tesoro per dormire su un materasso rotto il sonno del giusto. La bandiera bianca era rotta e sventolava su una prostata dolce come mele cotte.
Spizzico biscotti al rosmarino mentre l’orgasmo bagna il soffitto e ringrazio Angela.

Ho sognato il naso di Cleopatra


Onestamente era spaventoso. Ma me la sono trombata lo stesso. Sogni che non ti lasciano andare, in una notte di morte senza stelle. Sogni che t’inseguono nel riposo più profondo ed evitano di farti vivere nella menzogna. Sogni che ti ricordano che sei un essere umano e non un robot. Sogni che ti fanno star male perché stai male. Sogni che sono i tuoi migliori amici perché non fanno finta di sorriderti mentre le pecore vengono scuoiate senza pietà e smettono di sognare e tu sei una pecora ma perdi i pezzi poco a poco.
Sogni che ti ricordano che forse, forse, anche tu sei una proiezione olografica di qualcuno o qualcosa o qualche punto interrogativo perso nelle varie dimensioni spaziali che giocano a nascondino con le proprie creature che ora festeggiano il Natale e festeggiano il sogno e creano l’illusione della felicità che arriva in slitta a portare felicità a buon mercato. Mica tanto a buon mercato, anzi. Pagata salata. E l’illusione che domani sarà meglio di oggi e quando lo sarà allora sarà troppo tardi.
Ho sognato il seno di Cleopatra e quello era spettacolare. Per quello non ho fatto caso al naso. Non è che il naso lo succhi o lo accarezzi. Quindi non te ne importa niente.
E l’ho baciata, la lingua di Cleopatra ed è dolce come il miele che è dolce come un sogno che poteva essere così dolce come lo sono le cose che non esistono ma per quello mi danno le emozioni più belle e in fondo è un’emozione che ci fa stringere le lacrime che soccorrono un carro di mele rovesciate in cima a un camino lento.
Ho sognato il Natale.
E mi sono svegliato urlando

Nero d’Avola


Un corno infelice si distacca dalla mensola del ghiaccio e divide i sorrisi tra due ali di api polverose e ridenti.
Mi agito nella culla di un neonato alla ricerca del fallo di Venere.
Il campo minato di un barbiere pazzo si distacca dalla barriera corallina e scivola allegramente tra pali di miele e api polverose.
Dodici cassette spettegolano sulla dodecafonia dell’opera di Vivaldi.
Sei vecchiette fanno a gara per masturbarsi davanti ad un pubblico di mucche.
Il sadico gioca a tressette col morto e mette un accappatoio alla granadina di pulegge e crisantemi prima di andare al cimitero dell’auto.
Un elefante da corsa si cimenta con i Lego e costruisce un pisciatoio a forma di figa di elefantessa tra pulegge di scorta e conifere al sapore di rosa pallida.
Esco dalla fucina di Odino per la pausa pranzo e rammollisco le case di paglia del sedere del cane di Dio.
Pufff.

L’eternità


Nella periferia della stanza bucata da una sciarada di zanzare ubriache di miele due ragazzini fanno l’amore per la prima volta. Nella periferia parigina. La luce dei fari delle auto illumina i loro visi sudati rendendo l’ambiente afoso molto techno. Gli occhi di lei sembrano quelli di un androide ubriaco e quelli di lui quelli di un torello con corna e muggito elettronico.
Si addormentano e si svegliano di soprassalto alla sirena di un’ambulanza che viene a prendere un loro vicino di stanza che ha avuto un infarto mentre faceva sesso con una prostituta e la moglie. Mentre gli infermieri fanno un massaggio cardiaco in un corridoio dalle luci al neon e moquette verde vecchia di dieci anni sentono il cigolare del letto della loro stanza e muggiti e urla di godimento.
Nell’orgasmo finale i due infermieri si guardano e capiscono che non c’è più niente da fare. Con un lenzuolo coprono il viso sorridente al vecchio defunto e lo portano in camera mortuaria. I due ragazzini si addormentano di nuovo e sognano di amarsi per sempre.

Venti agitati di un pasto vecchio.


Il minimo comune denominatore della vacca possidente genera una radice cubica un po’ amara che va mangiata col miele di pelo pubico di passero femmina. Ho la voce metallica ed è per questo che suono il rock come una padella smarrita nei transistor di un bidé di marmo blu elettrico.

Chiedo a Gurlo perché sforna i tricipiti insieme ad una torta alla panna preparata da sua nonna quando era un allievo della scuola islamica dei combattenti di Allah. Lui fa “Perché è così che posso mangiare liberamente un po’ di carne di maiale, se no ti fanno fare un clistere di pungiglione d’ape e allora passi un mese a pregare di morire incatenato ad un toro che sprizza sangue e piscio effervescente naturale” “Capisco faccio io, allora meglio essere cristiani così puoi mangiare caccole di vacca senza offendere né dio né Stalin col suo occhio antropomorfo e mangiare un brodo butterato con vaniglia”. Gurlo mi guarda con occhio pescivero si gira verso la scarpata dov’è aggrappata la sua navicella spaziale e si butta spensierato in questa lavatrice che centrifuga letti di spine. “Un coniglio in meno” penso tirandomi fuori una pizza margherita con salsiccia piccante.

Metalomé lavora alla catena di montaggio e grida. Enoch canta inni al Signore e stira le camicie di un cherubino sdentato. Druido pulisce le scarpe al signor Artù di Reggio Calabria. Vogano così i filopanti morenti che tranquillamente si crogiolano in un mare di salsedine croata tra vampiri e balle meteoritiche. Diversi anni or sono i lupi arborescenti si erano spinti all’estremo oriente fino a lievitare e assaporare i venti trasparenti di sirene spazzine ma poi si resero conto della paga da fame che ricevevano in cambio di servizi di prima classe e vendettero i loro servigi ai manicomi criminali coreani.

Fu così che provocarono le prime esplosioni nucleari nella testa dei pazienti, mentre erano seduti sul bidé piccante al sapore di pesce.

Un sostegno nella vecchiaia


Divo sostieni una montagna di carta igienica e voli sottendendo la piantina asburgica di un tetto che ti casca sopra la testa e crolla in lacrime fendenti la materia che impasto come la pizza. Io narratore onnisciente mi diverto a giocare a fare il creatore e il disfare del semaforo della vita eterna.
Il polipo a mille braccia si stura il naso e si masturba il buco del culo mentre una nuvola di fumo intercetta le sue papille digestive e lo fa vomitare zucchero filato. Un vomito più dolce del miele. Ore diciassette e quarantaquattro, e mezzo. Il tempo fila come un rasoio sulla mia faccia da culo. Imberbe e scatenata.
Il rasoio scorre. Liscio come l’olio d’oliva psicodelico. Creature del pianeta marmellata si misurano i seni caducei e appendono le loro memorie a damigiane di birra che scatta fotografie di momenti d’incoscienza psicodelica. Penetra in tamburi di mente onirica e senza alcun significato. Rumore assorda le mie orecchie.
E dio disse, e dio disse, e dio emise un suono. Prima il tuono, poi, poi, poi il fulmine. E luce fu. Il senso di spazio s’impadronisce di locali notturni mentre un’identità violenta s’impossessa della mia coscienza inconscia e comunque non raggiungerà mai il nirvana. Sono solo un carnivoro puzzolente che non significa niente in un grande nero appeso alla galassia che vomita pece nera in ogni secondo che collassa in buchi neri, nero è nero ritornerà. Segmenti di bit cercano di trovare un equilibrio all’interno di televisori di transistor per cercare di raggiungere la divinità e colmare il digital divide tra nord e sud Italia. Marocchini si lisciano il pelo tra marmotte ricorrenti un piato di sugo al basilico.
Fino alla fine del tempo. Fino alla fine del tempo. Un suono di note stonate s’intrecciano ai miei neutroni e piantano chiodi nei crateri lunari formatisi tra le giovani marmotte. Mentre un cucchiaio di pasta si masturba pensando alle cozze bollite nello strutto di liposuzione. Una scia rossa di sangue scarlatto si tinge di blu pensando a quante carte da poker ha distribuito nella sia corta vita da broker. Scommesse e cavalli. Cavalli e scommesse nitriscono insieme in un coro dell’Antoniano gridando a squarciagola “la vendo per un franco”.
Una mucca bela come un tacchino spremuto a viva voce su una roccia di bromuro espanso e la toilette tira l’acqua insieme a uno stronzo cotto a spuntino. Salsiccia domestica che violi il territorio dell’acerrimo nemico joker in modo che finalmente Batman sfoghi la sua omosessualità altrimenti che su Robin. Oggetti a volo pindarico s’insinuano ridendo nello spazio tra due transenne di una manifestazione di polizia che carica se stessa a cavallo.
Esogenesi letale. Vita da Marte scende vistosamente. Alieni abbronzatissimi si distendono sulla spiaggia in attesa di formare una comitiva di asparagi body builder.

Il cimitero delle stelle


Le api estraggono il miele dalla fontana della giovinezza che si deduce dalla simpatetica commistione di angeli e risotti al radicchio. Due samurai si sfidano con asciugacapelli tra i denti e giocano a ping pong con una pallina di plutonio arricchito. Una roulette russa, per dire. E una lacrima scende dal cuore di una donna che passeggia sotto lampioni ricchi di solitudine e silenzio. Nell’oscurità il silenzio si muove e danza un tango accompagnato da lunghi squilli di tromba cadente come stelle che si danno appuntamento al cimitero vicino alla chiesa sul colle. Nel silenzio cadeva una lacrima che inumidiva un suolo ormai secco come l’anima della statua che vigilava sulla piazza di chi non dorme mai ma non esiste nemmeno. Fantasmi di sogni e incubi si gettano su quella goccia di vita e dolore e ne bevono il sale e l’acqua mentre il grido delle trombe si sparge nell’eco delle montagne intorno. Un sospiro di sollievo si leva dall’oceano di anime che a cascata ringraziano il diavolo e lo mangiano spalmandolo su burro e miele in ossequio alla danza delle rondini.

Un ominide di garofani rossi


Un’azalea nel giardino di un ippocampo si vede da lontano e cresce fino a bucare le nuvole. Una vecchia signora digita il codice del teletrasporto in un pianeta lontano mentre i marziani le fanno da scorta per la diretta planetaria dal Orda di Cioccolato Soffritto. E osano i volanti dire al potere di ridere e scherzare ma precipitare da una spalla di ornitorinco.
Una coppia di patatine si erge dalle macerie di una guerra con il gasolio e rifugge le proprie responsabilità nella formazione del governo di cimici ubriache.
Prima che il gallo suoni due volte la pedana dell’università si sbriciolerà in mille pezzi d’oro liquido e berremo tutti la cocacola in un vestito da sera celebrando l’Oscar del figlio dei furori.
Il vin santo spirito prega la colazione di un paio di buoi sfittici e gongola nell’attesa di un paiolo e gode il sesso della masturbazione aerea che aspira e inghiotte libidini di giovani fanciulle attirate dal miele della svastica rotante.

Ricordo una bicicletta che mi diceva parole dolci


Piangi menestrello della fantasia, mentre un riso amaro cade nella ciotola di gommapiuma che si espande sotto i tuoi piedi da barbablù. Con una spina nel cuore, con una fetta di Nutella in corpo canti in coro a pieni polmoni.
Una pioggia zuccherata ti piove in testa e sa di miele appena munto.
Si scaldano i motori nell’oceano della vanità.
Applaudono i pesci che hanno pagato il biglietto della corrida degli uomini.
Sangue e arena cospargeranno le bombole di ghiaccio nel cuore del popolo che vuole la rivoluzione.
Mi godo un ricordo di bambino, mentre un menestrello cucina la minestra del giorno. Sogno di essere una bicicletta che sfreccia allegramente tra la folla eccitata e taglia il traguardo del mondo che ruota.
Un odore di pomodoro si sparge in strada e lo stomaco si eccita e la saliva scorre ad una velocità sublime in attesa del pasto settimanale.
Guardo dalla finestra e vedo clown e saltimbanchi spargere felicità a poco prezzo, in cambio di una grigia manciata di pioggia. E anche noi ci dileggiamo nel prenderci a pugni, oggi, nell’arena del sole, quando il ghiaccio si scioglierà e una pista da sci sostituirà i nostri cuori.
Un cantautore tira il collo a una gallina e ne fa mille coriandoli per divertire il figlio piccolo che compie due anni.
Definisci la felicità. E soprattutto, dimmi che esiste.

Pane e vino


Dolce miele che scendi. Dalla finestra di una zucca gigante fotografo le tue gocce memorabili. Una pioggia di sensualità che vede Filomena sognante e appoggiata col gomito alla finestra. Capelli castani, corti con i boccoli e occhi grandi e sognanti che occupano un terzo del viso lasciando uno spaziettino al naso e un posto decente alla bocca per un bel sorriso di denti bianchi come la sua verginità. Seduta a cucire pensava a chi invitare per il pranzo di domani tra cui Roberto Ascagni il cugino di una duchessa che aveva incontrato un mese prima e con cui era già uscita diverse volte. Mandandolo regolarmente in bianco e più lo mandava in bianco più lui insisteva. Non le ci voleva un gran sforzo per dargli picche tutte le volte. Simpatico, ma più basso di lei, e con una testa ovale occhi piccoli e un riporto a forma di Girella Motta. Vestiva sempre di nero con cravatta nera su camicia bianca e parlava troppo forbito per i suoi gusti, anche se lei finiva sempre per ridere più di lui che delle sue battute. L’avrebbe invitato, e poi chi vivrà vedrà. Scese in giardino a raccogliere la pentola con il miele che era caduto dal cielo. Sì perché da quelle parti il miele pioveva sul serio. Ed era un casino perché quando spuntava il sole che verso mezzogiorno diventava cocente, finiva per caramellizzare lo zucchero e quindi tutta la casa e i tetti e le bestie in giardino e pure le piante. Insomma una tragedia.

To be continued (forse).