Un’aria profonda rialza la cresta in una fuliggine sensuale che sale al cielo dalla vulva di un caminetto acceso che brucia vizioso.
Seducentemente mi avvicino. Una gatta maliziosa mi guarda e geme con lo sguardo. Mi lascio avvinghiare dalle sue parole oneste. E una cartolina miliardaria appesa ad un quadro mi avverte della pericolante scala a chiocciola dei suoi pensieri. Eri una cara micetta, pensai dopo lo sparo.
Eccomi al porto a pensare ai miei pensieri in un fiume di desideri che pescano allegri banchi di salsicce di grasso di liposuzione acerba. Siamo in una fase beta della nostra vita caro bullone che mi leggi. E nella tua testa svitata s’insinuano pensieri cornuti. E tu sei contento di somministrare alla tua pisella il nerbo aitante di un muschio agitato che ti agita i sogni e ti fa vedere la verità.
La verità fa male. La verità non si dice mai. Perché bisogna vivere col senso di colpa di non dirla. Così si crea la paura. Così si crea il potere. La verità è un clistere di fieno messo a maggese e ruttato fuori con il mosto dell’uva marcia.
Mangia la carota. E vai a dormire.
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Vacca boia!
Una battaglia nello spazio aereo di una ballata triste con trombetta mi falcia il viso con una frusta di titanio sgonfio. Parole libere che sfrecciano nel cuore di un’anima in pace con l’aria che tira e svolgono la loro funzione di verbo creatore che manda luce e materia nelle vene dei giganti che si moltiplicarono come topi alla faccia dei serpenti.
Paperopoli è una città piena di seghe mentali, ma che al momento giusto mette da parte la filosofia del pollo per caricare la bombetta di Paperone e partire alla ricerca del tesoro. Galli panti si cercano e beccano le parole come chicchi di mais che piovono dalla luce venerea.
A Mikonos leggono le leggende che richiamano la pazzia dei sordomuti cantori di una civiltà che fu. E Ulisse e Odisseo e la maga e la Circe si crogiolano nella loro vasca infernale della commedia di Dante che nel tempo dell’esilio si concesse una vendetta immortale.
Avviciniamoci al fulmine di una patata lessa e ridiamo delle coccodrille imbalsamate dagli egizi con tanta cura che paiono muoversi e danzare per noi un ballo funebre al ritmo del tamburo. Jessie James spara e buca un cappello di traverso all’uomo che si chiama nessuno e Joan Baez canta il canto dell’usignolo con l’ala spezzata. In tempo di crisi l’importante è alzarsi la mattina e rompere un vetro con una testata secca. E una camicia bucata. Fresca di lavaggio. Lavaggio del cervello. Frammenti cerebrali sono rimasti nel rotolo della carta igienica e presuppongono di poter descrivere la Maddalena piangente sotto la croce di Gesù e non si rendono conto di stare morendo e quindi continuano a vivere nella dimensione del verbo. La parola sacra suona come un violino stradivari che piange ad ogni nota circolare. E manda nel mondo falene incazzate per circoncidere il processo di amalgama virulenta del virus dell’aviatore cieco. Mi metto anche io in ammollo sperando che una cantilena assopisca i sensi di carota marcia che solleticano la pancia di coniglio bianco e nero.