Lupo mannaro


Serpenti schiavi di un’energia terrestre si muovono dalla terra madre alla prima donna per dare all’uomo il frutto del sesso. Proibito. Da Dio. Ma che si muove fumandosi uno spinello al ritmo di un motore di formula uno. Prendi da me il frutto della conoscenza e mordilo soprattutto sul capezzolo, rosso di rabbia e godi della mia lascività. Metti un dito nell’occhio di Dio per fargli spargere gli umori di gas di scarico e che il benzene sia il contorno della tua lingua fino a farla bruciare. Prenderò il tuo seme e lo seminerò in una discarica di ovuli freschi di fabbrica per berne l’azzurro colore di fogna.
Amore mio. Sei al centro dei miei pensieri e della mia saliva. Il sesso orale si giudica in un pezzo di plexiglass che ci porta lontano dai nostri problemi e digiuna insieme a noi in un pezzo di garza sterile che ha il sapore di bava di corvo epilettico. Api anarchiche e formiche spendaccione si spendono sul corpo senza vita di un’anima in pena che forma una Q quadrata da tanto che è ripiegata su se stessa dal dolore delle risate che l’hanno uccisa nel fiore dei propri anni di vita da sposa.
Ti amo e ti sventro nelle mutande di una vagina liquida che posa in attesa del fotografo di corte per una parata militare di giovani lupi e prede dei gladiatori del Colosseo per una folla di animali assetati di sangue giovane che lava i peccati del mondo in un coro che inneggia lodi al Signore. E tutto scorre in un fiume di lava al limone che scende insieme alla mia saliva alla marijuana e al tuo seme amore mio nel mio stomaco per sempre finché sarai digerito ed espulso. Per un seminario tra gli amici della parrocchia sul discepolo più amato e scopato. O Gesù era frocio o Giovanni era una donna.

Il vallo endemico di una minigonna zebrata


Il salice di una morte lenta organizza una struttura carceraria di amare parole d’amore. Il succo della libagione forzata gronda di aceto balsamico per una banda di cerbiatti che urinano sul pesce venduto al mercato mattutino ai turisti di uno zoo safari. Il sabato incontinente degenera in pozzi di fogna arrabbiata e il mio cervello è influenzato dalla sguardo torno di toro seduto che mi guarda e pensa alle studentesse in minigonne affumicate. Mentre il grande martello preme il pneuma dell’aforisma contenutistico io mi passo un rasoio tra i capelli e spargo un unguento lento tra le lenzuola del mio pene animale.
Il tutto mentre il palmo del piede si usura nella stitichezza lenta di un leopardo femmina che cammina con una lancia conficcata nel seno. Entro nel mondo endogeno di un lupo mannaro che confonde le equazioni con la coca cola e chiacchiera ad un bar di corvi imperialisti che danzano rap in un pertugio decorato in stile liberty. Definisco quindi, il sapore di una mucca bulimica e mi lascio ammuffire tra scatole di legno pregiato colorato con merda secca ricca di conservanti e ddt. Mentre cammino nella passerella di una montagna incantata mi chiedo se la vita non nasconda oscuri ossobuchi tra i quali ritagliarsi meandri di stracci tra un cuoio capelluto e un hippy fermo alla stazione ferroviaria.
Una grande luce mi porta assieme al vento di una mela marcia mentre osservo culi in minigonna in una biblioteca reale del reame di Boll.
E ti sputo in bocca.
Perché ti amo.
Mio pertugio incosciente.

Ammazzando il tempo


Delirando si pescano pezzi di assurdità.

Delirando si posticipa l’assalto alla baraonda di una sciarpa del Milan.

Scendo i gradini dell’inferno in una casamatta di autenticità pura.

Semplicemente mi distendo nella graticola della speranza di una pozzanghera di orsi verniciati di rosso porpora.

Suggello pertanto la nostra dichiarazione d’amore e liscio il velluto grigio dei marinai contorti e targati di nero femmina. Entro nei meandri del teschio di ferro e vedo colori di merluzzo andato a male fosforescenti di una puzza che ricorda un pugno in un occhio, ma all’interno dello stomaco.

Puzza di morte. Si direbbe E un orologio scandisce il tempo restante nel conto alla rovescia di padri e figli che giocano a tressette e imparano a barare nelle regole della vita.

Un destino glorioso prende il sopravvento nelle fasce dell’adolescenza ritmata da tamburi africani che battono su teste di teschi un ritmo primordiale di musica techno che si propaga nella savana deliziosa al gusto di stambecco al forno.

Odo e godo in un’eiaculazione precocemente masturbata che le viscere della terra si lecchino i baffi e facciano godere anche un setaccio di miniere d’oro. Dubito che la forma della filosofia scoppiettante si decida ad andare di corpo in tempi brevi e il culto di pietra si spacca in una risata a crepapelle. Eliminiamo le barbabietole dal corpo e depiliamoci di questi fastidiosi insetti che cantano in coro gli inni al cielo azzurro e violetto.

Enrica guardava uno scontrino fiscale mentre un singulto del volto ne accese una parte e bruciò il supermercato senza volere. Un prurito all’interno dello stomaco. Cercava di grattarsi, ma come si fa. Si massaggiava come una forsennata nel parcheggio del supermercato sotto lo sguardo attonito dei parcheggianti di cui uno si offrì di farle passare il prurito e le tirò un cazzotto che la mandò in apnea per dieci minuti. Ma funzionò.

Lui le offrì una cena e lei all’inizio voleva rifiutare perché non si era depilata ma poi decise che nel frigo non c’era niente e non aveva soldi per il supermercato, quindi accettò. Il lupo mannaro si aggirava in quei luoghi benedetti e durante la cena ne approfitto per sventrare una vetrina e assorbire più carne cotta possibile attraverso i pori e i peli. Mise le fauci al servizio di sua maestà e servì ai tavoli dei due futuri sposi un cuoco al forno con tanto di baffi e li costrinse a mangiarlo tutto.

Il cuoco pesava ottantanove chili, ma senza scheletro, pelle, frattaglie e sangue si trattava giusto di dieci chili di carne pura. Enrica si lamentò del fatto che sapeva di fumo, ma Piergigi decise che gli dava un certo non so che valeva la pena. Anche Lupo Mannaro si sedette e tra un assaggio e l’altro fu proprio quello che se ne mangiò la maggior parte.

 Enrica decise che il personaggio era sexy, forse conquistata dal fetore delle ascelle che assomigliava a quel prurito nello stomaco e in breve finì tra le braccia e le fauci di un bestione di  due metri e mezzo, ma passò la notte più stupenda della sua breve vita, anche perché non sopravvisse alla devastazione e morì dissanguata in mezzo al parcheggio di un supermercato, bruciato.

 Morì in una pozza di sangue blu che il lupo leccò fino all’ultima goccia e le succhiò quello che non uscì da solo. Pesava ottantanove chili, ma senza sangue e scheletro e pelle, alla fine il lupo ne mangiò giusto giusto una decina di chili.