Una faina piange nel bosco disperata. Ha perso l’unghia della mano destra. Ha perso una gamba e si aggira dentro se stessa prima di impazzire liberamente per l’ultima volta in mezzo ad una dorsale appenninica. O stronzo che leggi, prega per noi. Ave gesuita che logori il pertugio impertinente togli il fetido alito della gloria di dio nell’alto dei peli di un orso con gli stafilococchi alterati. Una penna nera s’intrufola impertinente nel mio cervello e scrive dardi di seta pelosa.
Mungo una spazzola di latte odoroso e aromi di effluvi deodoranti si spargono per la stanza e ricoprono di ceralacca una mantide religiosa che fa ragnatele velenose di bile frustrata.
Tra cielo e terra, tra terra e le mie demoni divaricate. S’insinuano nella mia pelle per grattarmi e solleticarmi tra vene varicose e sudici pensieri di scavatrici e prostitute pelose. Stride il suono di un urlo bambino mentre scrivo lettere grondanti di sangue e penso che la lirica di un castoro vale più di un debito bancario con preavviso di un adipe adiacente.
Volo tra larve sconosciute e vedo farfalle di colori a venti megapixel. M’immergo tra pulzelle diafane per fotografarne le posizioni combacianti. Erigo statue di pongo alla divinità greca per celebrarne la bellezza triste.
Mi sparo.
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Altamente elettrizzato
Il grasso linguaggio della commedia si sposta pesantemente da una bocca piena di strutto all’altra emanando effluvi d’aglio crudo e cipolla soffritta. Il vino annega colli di bottiglia attorno a una tavolata universitaria ripulita dal sonno cosmico di un boccone di struzzo ben masticato da un organo che canta le lodi del bosone di Dio.
Una galera per il Nobel per la pace che si inocula il virus della sifilide tra i diodi di una batteria al litio che sfrigola i bastoni di un fuoco di paglia cantando Per Elisa tra le gioie di mamma Eloisa paracadutata dall’isola dei cloni di Braccio di Ferro. E così ci gongoliamo cantando da un fuoco d’artificio all’altro e da una Cina all’altra senza che lo sforzo ci perdoni di esser nati cantautori di fagioli borlotti. Il peso di una responsabilità ancestrale mi fa sbadigliare e cantare una lirica veloce digiunando sulle braci ardenti di una giovane sposa indiana.
Però non mi aspettavo di trovare una tortiglia a base di lenticchie feroci e piranha ridotti a passatelli in brodo di calamari vivi. Il mondo è dipinto di blu, mentre nel profondo del mare piove che guarda come piove. Il canto di una saturnina raggiunge le profondità marine e Marina canta la bossa nova davanti alle palle di un filosofo greco che urla e guarda incantato un Minotauro fare le fusa davanti a una freccia tricolore che gli sorride dal cielo stellato giusto prima di prendersi una pausa domenicale.
Parigi ma belle
Una lirica insegna a non gareggiare in un mondo di sensualità apparente. Ridi pazzo. Ridi sberla in faccia. Piangi di lacrime calde e salate.
In un deserto di granchi e conchiglie il verme butterato beve una birra alla spina senza pensare che questa sarà l’ultima della sua vita prima di venir calpestato da una jeep di zoo safari.
Afferro il sonno con una mano e il vermiglio colore della poesia con l’altra e me li spalmo sul cuoio capelluto in una mistica unione col divino piacere di un pozzo di sale e salsedine che sa di vongole al pomodoro.
Il muro dell’ufficio si appanna e appaiono animali invertebrati alla ricerca di un flusso di tamburi che battono il ritmo del futuro con addosso una maglia della Ferrari. Il sonno prende possesso delle unghie delle mie mani e proietta ostie benedette sul sacrato di una chiesa consacrata dal papa Merlino durante la Messa di Natale.
L’ultimo Natale dell’umanità.
Poi l’ultimo viaggio nello spazio.
Là dove zanzare giganti attaccano iosfere per saccheggiare le miniere di anime latranti che vogliono abbronzarsi in una città sospesa nella mente di un nano che lavora come presidente degli Stati Rincoglioniti della Pangeria.
I duroni girano e rigirano su se stessi fino a formare centri di gravità permanenti e rallentare il tempo in diverse città dell’universo roso dalla collera di un gatto delle nevi che non trova cibo da una settimana. E azzanna un orso bruno nelle sue stesse condizioni. Se morirà che sia combattendo.
Frantumi di polvere spazzata via
Devio il delirio da un frantumo di potere di ghiaccio e friggo le molestie sessuali di un prete in una padella tipo wok da campeggio alpino. Un fulmine si staglia a ciel sereno.
Un’aquila nera definisce il colpo di reni della fabbrica di motori a circuito mnemonico.
Un freddo gelo si espande nella mia anima e brucia sotto la pioggia mentre un pianoforte mi dice che morirò tra pochi secondi.
E allora.
La pioggia lava i miei ricordi, mentre nuovi ricordi mi colorano l’anima dell’arcobaleno dopo la tempesta e i colori si muovono come onde di vapore.
La lirica muore, la lirica insegna a disegnare la pazzia con nuove pallottole di gomma interiore.
E una nuova plastica facciale disegna il mio volto in una vita dove l’acqua prega e il carro celeste grida, dove la donna si fonde e l’uomo s’infonde una nuova linfa che suona la lira.
Canta per me cacao amaro, canta per noi, mentre la pioggia si trasforma in neve e il freddo congela le passioni in una nuova stufa elettrica senza alito che si congeli.
Un sottile filo di passione mi avvolge ad una capanna di cuori di polvere stellata in salsa di pollo.
Ed eccoci qui caro il mio lettore, ad abbracciare questi minuti di spazio\tempo che ci sono scivolati addosso insieme, noi due, e un alito di pioggia.