Parigi ma belle


Una lirica insegna a non gareggiare in un mondo di sensualità apparente. Ridi pazzo. Ridi sberla in faccia. Piangi di lacrime calde e salate.
In un deserto di granchi e conchiglie il verme butterato beve una birra alla spina senza pensare che questa sarà l’ultima della sua vita prima di venir calpestato da una jeep di zoo safari.
Afferro il sonno con una mano e il vermiglio colore della poesia con l’altra e me li spalmo sul cuoio capelluto in una mistica unione col divino piacere di un pozzo di sale e salsedine che sa di vongole al pomodoro.
Il muro dell’ufficio si appanna e appaiono animali invertebrati alla ricerca di un flusso di tamburi che battono il ritmo del futuro con addosso una maglia della Ferrari. Il sonno prende possesso delle unghie delle mie mani e proietta ostie benedette sul sacrato di una chiesa consacrata dal papa Merlino durante la Messa di Natale.
L’ultimo Natale dell’umanità.
Poi l’ultimo viaggio nello spazio.
Là dove zanzare giganti attaccano iosfere per saccheggiare le miniere di anime latranti che vogliono abbronzarsi in una città sospesa nella mente di un nano che lavora come presidente degli Stati Rincoglioniti della Pangeria.
I duroni girano e rigirano su se stessi fino a formare centri di gravità permanenti e rallentare il tempo in diverse città dell’universo roso dalla collera di un gatto delle nevi che non trova cibo da una settimana. E azzanna un orso bruno nelle sue stesse condizioni. Se morirà che sia combattendo.

Il gatto con gli stivali?


Un gatto siamese si stende tra le stelle e si liscia i lunghi capelli da hippy.

Era Ontario: il gatto OGM di miei vicini che l’avevano raccolto dal porto dei Servi dell’Ancora Galleggiante.

S’era perso dopo che l’avevano scaricato in mare insieme ai rifiuti di noci di cocco. Arrivato a riva a forza di zampe, il prete della Parrocchia di Cristo Lungimirante lo regalò a de poveri cristi. Ed eccolo qui. Biondo, occhi azzurri, una coda a forma di parallelepipedo e zampe che volendo, possono girare di 360 gradi e fare da elica permettendogli di gareggiare con qualsiasi barca a vela.

Riuscivo sempre a batterlo  scacchi, ma mai a poker e sapeva recitare a memoria i primi tredici canti dell’Inferno.

Eravamo diventati amici perché io lo consideravo intelligente per essere un gatto e lui mi considerava simpatico per essere un umano. Mia sorella lo trovava persino sexy e, col fatto che era un gatto, nessuno ci trovava niente da ridire sul fatto che ci dormisse insieme. Solo che nessuno aveva mai visto il cetriolo che gli veniva in mezzo alle zampe quando la guardava o parlava di lei.

Io sono uno che vive e lascia vivere e non lo raccontavo a nessuno, almeno per ora.

Odi l’odio d’Odino


Ode alla lirica. Nello stato di vano vacuo nel quale Ammannia vive una vita silenziosamente un grido fugace si staglia contro una carotide innocente.

Vagheggia nel vago pensiero di una stella cadente sul suolo natio. E fugge. Fugge e rifugge lontanamente accecata dal ricordo dell’angoscia disperata di una bambina mutilata di capelli sinuosi come serpenti.

Si strappa parrucche e vesti sottili come l’occhio d’un gatto e corre nell’autostrada della vita e della morte. Contro un pianeta che guarda la notte con un occhio solo.

La sua vita fugace e verace prosegue per poco e un condor insozzato di nero la rapisce per portarla in un sudicio pendio per approvvigionarsi.

I sogni rinvengono alla memoria di una sonnambula e evaporano come una bistecca al sole d’agosto e la testa le gira dalla fame. Si alza prende una penna e scrive e scrive e scrive…