Il vento e il paravento


Bianca danza un danza di disperazione pensando alla sorella morta in un incidente di auto due giorni prima. Danza e si muove nella stanza al suono del flauto magico che suona come una cornamusa una musica ipnotica e lei gira e salta e piange e le lacrime si spargono nella stanza a corpo morto su un cadavere che non potrà più tornare se non nei suoi sogni di bambina. In cui erano piccole e giocavano a chi era più brutta e a chi si truccava meglio. E ridevano come matte a guardare la faccia da strega dell’altra. E litigavano e piangevano per le pene d’amore e ora un pezzo di vita era spezzato.
Bianca sta ballando da sei ore consecutive senza bere né mangiare, ma non può fermarsi. Sente che se si ferma, muore. Finché il corpo si muove è viva e ha energia per il passo successivo.
La paura la fa avanzare e il viso di Elisa che le sfugge e vorrebbe stringere e baciare nella campagna con i lupi che miagolano. “Bella mia è stato un amore grande e fugace, ma non morirai finché vivrò io qui per te. La purezza che scorre in te è quella di un angelo che balla qui con me ora al suono di questa musica che ricomincia sempre, sempre uguale, sempre infinita finché morte non ci separi”.
Se, dopo dodici ore, il marito non l’avesse soccorsa chiamando un’ambulanza allora sì che la morte li avrebbe separati sul serio. Il coma che seguì le permise di comunicare con Elisa e di fare l’amore con lei un’ultima, eterna, volta.
Se Elisa non le avesse dato l’ultimo bacio e non si fosse staccata lei dicendole “Torna da lui, ora, lui ti ama, impara ad amare un uomo ora. Io ti aiuterò, ma devi, devi affrontare la vita. È stato bellissimo, ma tutto finisce e tutto ricomincia, come la danza, come l’amore. Io sarò con te e con voi, ma solo per un po’, poi me ne andrò là dove devo. Addio sorella, amante e sposa, un ultimo bacio, un ultimo addio e poi torna da lui e vivi”, se non se ne fosse andata via scomparendo, lei non si sarebbe mai più risvegliata. Tra le lacrime, ma risvegliata. Ritrovò cosi marito e figli, ma non lei, e si sentiva anche più leggera, e pensò che Elisa aveva ragione e sorrise, tra le lacrime, ma sorrise e abbracciò tutti come se fosse la prima volta.

Ammazzando il tempo


Delirando si pescano pezzi di assurdità.

Delirando si posticipa l’assalto alla baraonda di una sciarpa del Milan.

Scendo i gradini dell’inferno in una casamatta di autenticità pura.

Semplicemente mi distendo nella graticola della speranza di una pozzanghera di orsi verniciati di rosso porpora.

Suggello pertanto la nostra dichiarazione d’amore e liscio il velluto grigio dei marinai contorti e targati di nero femmina. Entro nei meandri del teschio di ferro e vedo colori di merluzzo andato a male fosforescenti di una puzza che ricorda un pugno in un occhio, ma all’interno dello stomaco.

Puzza di morte. Si direbbe E un orologio scandisce il tempo restante nel conto alla rovescia di padri e figli che giocano a tressette e imparano a barare nelle regole della vita.

Un destino glorioso prende il sopravvento nelle fasce dell’adolescenza ritmata da tamburi africani che battono su teste di teschi un ritmo primordiale di musica techno che si propaga nella savana deliziosa al gusto di stambecco al forno.

Odo e godo in un’eiaculazione precocemente masturbata che le viscere della terra si lecchino i baffi e facciano godere anche un setaccio di miniere d’oro. Dubito che la forma della filosofia scoppiettante si decida ad andare di corpo in tempi brevi e il culto di pietra si spacca in una risata a crepapelle. Eliminiamo le barbabietole dal corpo e depiliamoci di questi fastidiosi insetti che cantano in coro gli inni al cielo azzurro e violetto.

Enrica guardava uno scontrino fiscale mentre un singulto del volto ne accese una parte e bruciò il supermercato senza volere. Un prurito all’interno dello stomaco. Cercava di grattarsi, ma come si fa. Si massaggiava come una forsennata nel parcheggio del supermercato sotto lo sguardo attonito dei parcheggianti di cui uno si offrì di farle passare il prurito e le tirò un cazzotto che la mandò in apnea per dieci minuti. Ma funzionò.

Lui le offrì una cena e lei all’inizio voleva rifiutare perché non si era depilata ma poi decise che nel frigo non c’era niente e non aveva soldi per il supermercato, quindi accettò. Il lupo mannaro si aggirava in quei luoghi benedetti e durante la cena ne approfitto per sventrare una vetrina e assorbire più carne cotta possibile attraverso i pori e i peli. Mise le fauci al servizio di sua maestà e servì ai tavoli dei due futuri sposi un cuoco al forno con tanto di baffi e li costrinse a mangiarlo tutto.

Il cuoco pesava ottantanove chili, ma senza scheletro, pelle, frattaglie e sangue si trattava giusto di dieci chili di carne pura. Enrica si lamentò del fatto che sapeva di fumo, ma Piergigi decise che gli dava un certo non so che valeva la pena. Anche Lupo Mannaro si sedette e tra un assaggio e l’altro fu proprio quello che se ne mangiò la maggior parte.

 Enrica decise che il personaggio era sexy, forse conquistata dal fetore delle ascelle che assomigliava a quel prurito nello stomaco e in breve finì tra le braccia e le fauci di un bestione di  due metri e mezzo, ma passò la notte più stupenda della sua breve vita, anche perché non sopravvisse alla devastazione e morì dissanguata in mezzo al parcheggio di un supermercato, bruciato.

 Morì in una pozza di sangue blu che il lupo leccò fino all’ultima goccia e le succhiò quello che non uscì da solo. Pesava ottantanove chili, ma senza sangue e scheletro e pelle, alla fine il lupo ne mangiò giusto giusto una decina di chili.