Una pippa verde


Una scossa elettrica si sparge nelle mie mutande di pizzo. Mi tocco un seno di senilità e amo un drago di spine e merletto all’arsenico. Un grande canyon mi guarda muto e solidale, quando uno è muto sembra sempre solidale. Un lupo si materializza per dirmi che la mia strada è libera e fiammante, di cominciare a correre e attraversarla senza guardarmi indietro e quando arrivo sul cocuzzolo della montagna guardare giù il verde abbagliante di una risata e del padre nostro di suor Cristina. Mentre mi alzo in volo guardo un ragù bollente di pomodoro e capinere che adorano l’odore di carne umana e sangue ribollire in una saliva di una lingua biforcuta. Le mie ali di serpenti leccano la barba di Odino e sturano lavandini senza un rivolo di figa.
È così che mentre le lontre oscurano le loro feci sotto la terra dell’inferno, io mi rigiro nella notte oscura e metto la testa sotto il buco del culo entrando contemporaneamente in rete e vincendo i mondiali del carrube.
È così che ricevo la medaglia al valore militare, e il mio stomaco fa le acrobazie con le frecce tricolori in mezzo al sangue dei cosacchi dell’ordine dei Santi Cavalieri Blu.

Un sollazzo adiacentemente


Mi felicito per la cortesia di nitrire caro salmone selvaggio. La tua pelle si strofina lucidamente sulle neuroscatole telecomandate di Plutone. Ecco perché Gastone inventa pazzamente un contagiro per fare un bonifico bancario alla figa di sua moglie. Ama Gastone, ama follemente. Retrocede davanti alla porta di accesso della Santa Sede e viola la sindone con una scoreggia che colora tutto di marrone. Il conto alla rovescia si riversa sul panino e un lestofante annega nel ketchup dell’hot dog di carne di cane.

Gira la testa e gira il conto di una verità nascosta nella plastica verderame per cui paghiamo la tangente al CUP. Per una corsa di formula uno senza sesso e senza sigarette falliche. Asdruggine, mora celiaca di casa Savani Pietratana, si solleva la gonna e si abbassa le mutandine per farsi leccare dal suo Fido sul sofà di casa sua mentre guarda la tele della pubblicità per cani. Dal buco della serratura il maggiordomo osserva la scena e si prepara all’assalto finale quando lei non sarà più in condizioni di dire di no. Non sa che Fido gli azzannerà le palle.

Tabulé di rose – 4


Sono distesa nuda e legata a gambe e braccia aperte in un letto rosa con baldacchino a diamanti incastonati nelle tendine e nel legno scuro in una stanza grande come un campo da tennis. Dal soffitto a vetri colorati penetra una luce diffusa che sembra un caleidoscopio.
Una materia fumogena mi acceca le orecchie, sto sognando legata ad un letto alla mercé di uomini e donne che solleticano gli istinti vitali più nascosti del mio corpo in cui dolore e piacere sono talmente fusi insieme da sembrare gemelli siamesi.
Cani sorridenti si mescolano a scariche elettriche che attraversano la mia anima in un valzer viennese in cui sono costretta a ballare il ballo di un’altra donna. Kadima mi tortura sottilmente. Con sensibilità e intelligenza. Sa cosa voglio e cosa non voglio. E soprattutto sa quello che voglio ma che non vorrei. Per orgoglio, per dignità.
Quella mi toglie. Ogni solletico, ogni carezza, ogni bacio, ogni eccitamento, ogni parola sussurrata ad un orecchio, ogni preghiera che le faccio di far finire questa tortura, ogni secondo che passo in compagnia sua e dei suoi falli enormi circondati di corpi scolpiti in carne umana, ogni lamento, ogni godimento mi fanno sprofondare sempre di più nella scala di valori di una donna, anzi, di un essere umano, no, nemmeno di un animale.
Ecco, sotto all’animale. Lì mi sta spingendo. Tra l’oppio e le droghe chimiche, tra il Prozac e la semplice marijuana o l’alcol, oramai la stessa liberazione dalla prigione della dignità è diventata un sottile piacere animale.
Una danza che Kadima conduce con una regia degna di un Oscar. E io perdo l’identità che ero venuta a cercare in questo lontano posto d’Africa. Per troppo amore o troppa stupidità.
Ma non è solo questo.
No. Non è solo questo.
C’è di più. Molto di più.
Questo.
È.
Amore.
Malsano, ma amore, maledizione.
Kadima non pensa che a me.
E io a lei.
Non pensa ad altro che a come farmi piacere in cambio della mia anima.
E io, la mia anima, gliela sto dando con lo stesso piacere che lei mi dà con la sua.
Stamattina mi ha detto “Io ti amo, voglio sposarti”.
Ora.
L’idea del matrimonio m’è sempre piaciuta, ma non avrei mai immaginato che l’unica che finora me lo avrebbe proposto sarebbe stata una donna. Un po’ maschile, d’accordo. Ma donna.
E io l’ho baciata.
E con quel bacio le dicevo: “Sì sposiamoci”. Non posso abbracciarla perché sono legata a mo’ di crocifisso.
Anche questo fa parte dell’amore che mi hanno insegnato nella mia educazione cristiana.
” L’amore del perdono nei confronti dei propri persecutori sono armi per conquistarne i cuori e redimerli dal peccato” diceva padre Pio. Nel mio caso il tutto passa per la figa, ma poco male.
Forse quest’inferno è, in realtà, la porta di accesso al Paradiso in cielo come in Terra. Per me come per lei.
Una che mi fa soffrire (e godere) tanto, è anche una che soffre tanto e quindi ha tanto bisogno di essere amata. E anche io. E allora eccoci tutt’e due insieme finché morte non ci separi.
Kamos è lontano, molto lontano e oramai non starà più pensando a me. Perché dovrei rimanergli fedele, pura e incontaminata? E allora meglio darsi come una Maddalena che porta Dio nell’anima e nel corpo dei bisognosi col proprio corpo e sangue.