Un dodecafonico raffreddore


Un atto ecumenico fossilizza il rutto del topo, mentre cozza contro il colpo di tosse della Terra col raffreddore. Mi guardo allo specchio e mi si bagna la vagina nell’antro di Eolo. Ballo un ballo frenetico sul tavolo mentre m’infilo pistacchi nel culo e il bruciore di una banana si sparge nello sfintere. Spargo escrementi sullo schermo televisivo e il dolore della passione esplode le mie lacrime e continuo a ballare e continuo a girare e ululo. Mi guardo i capelli da adolescente e mi chiedo se un giorno balleranno da soli.
Angeli e paradisi sorridono ad una Terra di terra e fame e una donna chiede lavoro per mangiare finocchi all’inferno. Guardo l’orologio e penso che devo lavare il fango sceso sulla mia pelle e sui peli del pube. I miei capelli lunghi accarezzano il mio seno e eccitano l’anima sotto di essi. La mia pelle risponde con elettricità e io viaggio in carrozze alate verso monti scoscesi su mari limpidi.
Un pagliaccio che ride stura un lavandino di pongo e marmellata mi dice che sono una troia e gli dico che ha ragione ma che a lui non la darò mai. Prego in ginocchio lo Spirito Santo di godere degli ultimi giorni di Sodoma e Gomorra affinché il Paradiso sogni baccanali di zuppa di ceci e lenticchie zuccherate allo zenzero.

Me olvidaras


Un giorno saremo insieme a Barcellona e poi mi dimenticherai. Perché sei troia. E io coglione. Ma non ci farò una canzone. Ci farò una sega. E magari più d’una. E entrerai nel libro dei guinness. La ex a cui sono state dedicate più sedute autogestite.
Mi dimenticherai. Ma io non sono un pentolone bollito di escrementi di scarafaggio. Io sono qualcosa di più sottile. Io sono un paio di occhiali che si scioglie in una lava gelida di pesci lessi che cantano in coro una canzone lucida in stato post vegetativo da assunzione di stupefacenti. I Pesci Liquidi, si chiamano. Siamo una combriccola da bar. Una band posticcia come una parrucca su un cervo con le vene varicose. Di giorno suoniamo il clavicembalo e di notte non ci caga nessuno. Ma noi siamo convinti di essere grandi palcoscenici dove prima o poi suoneranno i falò delle vanità.
E costruiremo dighe di spermatozoi accumulatisi negli anni dalle radici degli alberi. E pagheremo le tasse a Tarzan. Noi insieme ai coleotteri di Odissea 2001 marceremo su Marte e instaureremo la dittatura liquida. Nel senso che oltre a suonare il clavicembalo berremo coca cola e ci laveremo con le mascelle di tricheco in polvere adiacentemente. Sii felice lettrice di balocchi stronzi. No, non sono volgare. Sono vero. Sono un microfono che scivola sulla spiaggia della fantasia e dà voce ai tuoi pensieri turpi. Quelli colorati di pece puzzolente. Quelli che il fango pregherebbe di tenere lontani da lui per non sporcarsi.
Il caso magnifica la fonte della vita finché il delirio non prenderà il sopravvento. E il delirio rivolterà il potere come il cacio sui maccheroni. Come la trippa sullo strutto di maiale. Come la vacca sul toro da monta.
Come cazzo finisce? Boh, per ora finisce e basta. Ciao.

Il bagno del toporagno


Nella tundra di un semi pazzo urlante mi libero della vulva capillare e rintuzzo gli attacchi di un sedicente gigolo. Cotasti mio caro, cotasti e calmati da quella bava altisonante che fruga negli artigli di un corvo le tempeste di colla che si attaccano alle mascelle di un conte della montagna incantata per fare magie ricurvo su un ramo secco nella notte dei tempi. Mi masturbo nella segola di una pianta argentata ricca di gemme e di escrementi di toporagno con l’alito fetido. Un rombo di aeroplano stellare distrugge le emozioni di un orgasmo a cinque stelle per portare in parlamento un barboncino seguito da mille sgombri.
È così che fumo una sigaretta di cavolfiore: per immaginarmi la protuberanza di un bosone sanguinario in mezzo a genti in mezzo al traffico che pensa a come fare sesso con la diga di un frutto di bosco balsamico in padella. È così che ritiro l’arrosto dal forno. Con barbabietole ridenti e giocose che gli danzano intorno per sedurlo e canzonarlo. Il salvagente di un popolo non si misura in monete di bisonte polare. Ma con la luce degli occhi che sprizzano sperma in mezzo alla folla vetusta.
Ecco come fare la rivoluzione. Basta che la non violenza diventi una forma di pazzia e liberi le corde del cemento armato che lega le fronti insieme a una vocale e una consonante. Nel muto silenzio ascoltiamo il suono di Dio in amore. Che ingravida anime di fumo in forno a preghiere che si levano alte e poi cadono tra gridolini soddisfatti.

Buchi di culi


La villeggiante prona un rigore spirituale d’invidiabile cortesia mentre un idraulico installa tubi di marmitte catalitiche nella gola di un antropomorfo femmina per fare esperimenti alieni.
Mento sulla spazzatura e ti dico che era oro colato dalla bocca di un serpente di giada.
Per questo ti prendo per mano e ti porto tra le botteghe oscure di una ellissi adiacente a baciarti lungamente mentre il sapore di cipolla invade le mie papille gustative che ballano.
Ballano e muovono gocce di pioggia di lacrime condensate dal gelo di una stazione termale in fondo al mare. Là dove le tenebre sono ridotte a spazi pesanti tra i quali nemmeno una scarpa può camminare senza essere risucchiata dallo spazio tempo dei buchi neri.
Buchi di culi alieni.
Una pioggia radioamatrice porta via gli escrementi alieni e li deposita nella gola urbana di extracomunitari extraterrestri per il riciclaggio del composto appiccicoso.
M’illumino d’immensa gioia nel vedere il belvedere di un battello dipinto di orologi che si sciolgono nel burro irradiato e luminoso.
Un bramino indiano lecca i bordi della nave che sogna intrecci solidari con le banche che gracchiano solitari impedimenti lenti e svolazzano girando intorno alla preda moribonda come condor che aspettano che si cucini il pasto.
Temo di essere dipinto sugli allori di una vela che naviga verso l’imbecillità dall’altra parte dell’universo alla scoperta di nuovi mondi e nuove specie e nuovi mostri uniti dallo stendardo stellato della federazione galattica. Per riunirci con i nostri amici alieni e poter stringere loro la mano, se ce l’hanno.
Dormi piccolo infante. Dormi e cullati il dito.
Cullati e succhiati il pollice fermo al semaforo del tempo in una rotondità maschile segnata dalle cicatrici del parto.
Nuova vita al creatore.
Nuova vita al fumo.
Una nuova via sottende la cannabis.
Nuove specie renderanno grazie nell’alto del cielo e guarderanno in basso verso i serpenti che strisciano brucando le sementi di un dio culattone per ingravidarsi e generare una nuova civiltà di aborigeni spaziali tra canguri superstar e rockabilly antincendio.

Il management del topo


Una sedia a rotelle. Elettrica. Cioè. Una sedia elettrica a rotelle. Ecco. Fu questa la soluzione inventata dal management del dipartimento per ovviare alla cronica mancanza di noccioline torrefatte di escrementi topo che facevano impazzire gli estimatori del caffè d’ufficio. Secondo loro bastava accendere la sedia mentre si degustava il caffè e immediatamente il sapore di un caffè da quattro soldi sarebbe stato recepito come un urlo di Satana.
La cosa avrebbe fatto risparmiare parecchi soldi al dipartimento dato che l’elettricità per far funzionare la sedia era tra le spese generali quindi non imputata a noi.
Tutti quelli che avevano rotto i coglioni per avere un caffè di qualità vennero obbligati, sotto minaccia di licenziamento, a berselo tre volte al giorno nella sedia, in modo da farlo risultare un investimento utile dato che veniva usato molto spesso, e poter dimostrare quanto era il risparmio per ogni utilizzo. Nonostante il basso voltaggio non si riuscì ad evitare la torrefazione lenta del cervello delle cavie da laboratorio.
La cosa fu considerata un “male necessario” dal management che ricevette comunque una promozione per i risultati comprovati di risparmio. La spesa per la promozione fu superiore all’entità del risparmio. La spesa venne quindi coperta evitando di rimpiazzare parte del personale perso che tra l’altro era anche eccessivamente sindacalizzato.