La vagina di un cammello


Un documento prensile si avvicina al cardamomo con fare sornione e pensa. Cosa faccio quanto si tira lo scarico del Walter? Vado fuori di testa. Ma senza metterci la faccia. E neanche il culo. Troppo rotto per essere utilizzato fuori di cotenna. M’immagino d’altro canto che una fionda del Texas sia un po’ obesa per essere il mio tipo di donna. Una che va in chiesa la domenica e spara una risata longitudinale quando si fa il segno della croce uncinata nel petto abbondante. Anche lei senza metterci la feccia. Che se no puzza di catarro di fumatore. Uno di quelli che pesano al momento del voto. Presente? Ma anche assente. Sì perché se anche fuggi non è che puoi sempre svuotare le palle in un vaso astringente. Che non piscia mai diritto, ma sempre distorto, come mafia capitale. Ma come si fa che un cantante e un fratello muoiono tutt’e due allo stesso momento? C’hanno una bomba a orologeria?
Sento puzza di assassino. Una di quelle puzze asburgiche che cantano una litania liturgica che il canto gregoriano non assimila bene e erutta fuori da un cesso vaticano con un ora pro nobis e un vacca cagatis. Ma niente di serio intendiamoci. È una di quelle cose che finiscono a tarallucci e Pino. Senza conseguenze su rapporto deficit/pil o sul rapporto di debito tra la gola e la saliva di un drago. Una bestia che alimenta le sue spire nella vagina di un camaleonte. E i decibel di una vasectomia rimbalzano nei miei timpani e mi dicono Dai che scherziamo, la vita passa e va e allora goditela. Fa finta di essere un membro di una scialuppa di salvataggio comandata da Schettino e Sara Tommasi.
Prego nella superficie superficiale di un tempio greco che non dice mai di no e anche se mentre Seneca si vanta di quanti adolescenti ha portato in grembo il dolce istrione mi lecca dolcemente un orecchio che sa di fantasma soffritto. E mi tange il lobo succhiandone la linfa vitale senza che mi risvegli di soprassalto e mi ritrovi in una gola disperata e urlante. Ma che balbetta Ti amo in una luna crescente tra musulmani e kebab. E quindi eureka.

Parto-risco tra i fiori. Un unguento si affaccia


Una saponetta bagnata usata come proiettile di rana viscido e salivare lecca i miei timpani mentre sento una spada lacerare le mie pene d’amore fecale. Penso e parto-risco un tempio di eunuchi da frutta appassita e il drago dell’orologio si pulisce i denti con lo stuzzicadenti.
Un sapore che sa di fragola bagnata e lucida. Un fiore appassito ma selvaggio che cerca una regola del gioco per potersi installare nel sistema di videogiochi di un adolescente annoiato ma superbo. E la vita scorre nel suo tempo e nella sua banana. Un negozio di ferramente si dimentica di preparare la torta di compleanno per le vittime di Marzabotto che cantano a squarciagola dall’aldilà celebrando un passero di birra oltre i limiti del sentiero tracciato dall’umana gente.
Sento un colpo di frusta su un corpo straziato in fondo al vicolo cieco. Il corpo di un umanoide cieco che incontro tutte le mattine alla macchina del caffè dell’ufficio dove passo la pluralità delle ore dello spazio tempo allocato alla mia persona da un demiurgo disoccupato in cerca di vanagloria intessuta di melassa al carciofo.
Un aereo cade sul palazzo, un aereo pieno di sterco di bue di Corinto in viaggio per mettere il bollino del made in Italy prima di essere venduto sotto forma di yoghurt alla pesca. Una giornata di lutto viene dichiarata rutto nazionale e i bambini possono bruciare le scuole e gli adulti pisciare sugli amministratori delegati, per far sì che il debito venga condonato in un giubileo hippy davanti alla platea di woodstock. Un inno di sangue, di rosso liquido che cola dal sacrificio inutile dell’umanità in una macchina fuori controllo che perde pezzi di titoli del tesoro dei pirati della droga afgana.
Carlo si disperde in una nuvola di fumo per dimenticare se stesso e il seno che lo allatto’ come un gatto che miagola alla luce della luna.
Filippo discende dal cielo resurrendo per portare la parola divina tra umani ingabbiati dall’ignoranza. A dire che in fondo al tunnel c’è luce, quella mai vista, ma sempre raccontata.
E che ci amiamo nel sangue e nella guerra.
Perché l’amore è una patata che si coglie con una mano che sanguina e la si mangia con la buccia e quello che fa, fa. Anche se fa ridere.
Anche se non fa ridere.
Anche se fa morire dal ridere.

Fuliggine pelosa


Un’aspirazione sfittica rotante è alla base di tutte le rotte eiaculatorie per far sì che il drago di lino diriga le dodici domodossole in un pertugio scorrevole e le violenti sorridendo di venti piaceri perdenti e sordidi pezzi d’immagine scivolano via senza sapere se il succo di sesso si scioglie in un’aspirina di gomma eterna.
Una gonna sottende allupata il divisorio del portamento lento dall’età dell’innocenza e una fuliggine irosa si deposita nelle mie viscere arteriose e pulisce una giada di color speranza e divido il leggero scroscio dell’acqua che attraversa il Niagara in una montagna argillosa e piagnucolosa. Nera che cola liquido oleoso come pus infetto. Una pestilenza lenta si sparge nella popolazione di genti. La pazzia si sparge come cenere al vento tra acquedotti di lettere e pensieri e gode della gioia epilettica che cosparge le menti addestrate dei cani sporchi di sangue.
Danlio si fa una colazione a base di succo di avena e la voce trema mentre pronuncia la preghiera del mattino rivolto alla Mecca. E un terremoto si ferma davanti alla casbah di Medina ascoltando musica trance e ballando e saltando. Mi ritorno davanti alla cintura di pelle che rotola in mezzo ad un deserto di rigagnoli e serpenti mentre il suono si aggrappa alla bottiglia di soda e avvicenda il divino rigagnolo in allitterazioni virtuali dei sensi all’opera.
I sensi all’opera, i sensi all’opera, i sensi all’opera in una fogna di Calcutta, i sensi all’opera, i sensi all’opera i sensi, che respirano di una feconda soluzione salina.
I sensi surrenali si accingono a vituperare il langostino di rinoceronte che si spiattella una colazione a base di frutta esotica.
Leggermente mi abbaglio
Leggermente mi spengo
Leggermente mi assopisco in una crisi epilettica.