Parigi ma belle


Una lirica insegna a non gareggiare in un mondo di sensualità apparente. Ridi pazzo. Ridi sberla in faccia. Piangi di lacrime calde e salate.
In un deserto di granchi e conchiglie il verme butterato beve una birra alla spina senza pensare che questa sarà l’ultima della sua vita prima di venir calpestato da una jeep di zoo safari.
Afferro il sonno con una mano e il vermiglio colore della poesia con l’altra e me li spalmo sul cuoio capelluto in una mistica unione col divino piacere di un pozzo di sale e salsedine che sa di vongole al pomodoro.
Il muro dell’ufficio si appanna e appaiono animali invertebrati alla ricerca di un flusso di tamburi che battono il ritmo del futuro con addosso una maglia della Ferrari. Il sonno prende possesso delle unghie delle mie mani e proietta ostie benedette sul sacrato di una chiesa consacrata dal papa Merlino durante la Messa di Natale.
L’ultimo Natale dell’umanità.
Poi l’ultimo viaggio nello spazio.
Là dove zanzare giganti attaccano iosfere per saccheggiare le miniere di anime latranti che vogliono abbronzarsi in una città sospesa nella mente di un nano che lavora come presidente degli Stati Rincoglioniti della Pangeria.
I duroni girano e rigirano su se stessi fino a formare centri di gravità permanenti e rallentare il tempo in diverse città dell’universo roso dalla collera di un gatto delle nevi che non trova cibo da una settimana. E azzanna un orso bruno nelle sue stesse condizioni. Se morirà che sia combattendo.

Mallo collaterale


Un vacuo odore assale le narici. Chiudo gli occhi. Sono una farfalla israeliana. Sbatto le ali su ghetti di donnole in calore. La farfalla vomita un grido divino su litri di latte di pecora divisa in settori di attività su pescatori di cinghiali in umido radioattivo. I quali ringraziano il Signore pregandolo di mandare anche sciroppo di noci e prostitute di mandorle affumicate al gusto di vacca boia.
Il merlo indurito dalla lunga castità soffre di priapismo laterale, quindi se la passa tutta la giornata coll’erezione del becco a sinistra, verso il PD.
Un semaforo rosso mi regala una pianta di rosmarino per guardare al di là della mia ombra, ma non mi trovo. E non trovo neanche te, ma sento il tuo sguardo e vedo la tua anima saltellare da un punto all’altro dell’universo in una cantilena di gioia incantata e rabbia repressa.
Un ramo di alloro vola senza ragione dal tuo cuoio capelluto al mondo dell’aldilà per assassinare i valori morali e la morale del valore in uno specchio d’acqua scintillante sotto le spore di alluminio che piovono assurde da un cielo negro e razzista, giù per il midollo spinale della freccia nera.
Un grido di dolore riassume in centinaia di parole la purga della mezzanina in uno iato finale della caccia al tesoro di un’umanità che si rinnova come pulci in un universo cane. Il senso è senza senso a meno che non ci si gratti ogni tanto e si faccia pulizia delle pantofole che guardano una televisione immortale come Dio.
Mi rifugio in un sottoscala cadaverico mentre mi isolo dalla società accorata in una sifilide assassina e sorridente che mi guarda dal filo spinato mentre si mastica le unghie piene di smalto corrosivo. Un iconico latente si profila a mezzo posta e lava i vetri dell’ufficio mentre possiede il grano con un afflato di spavento nero.
Mi appendo alla parete in una crocifissione con chiodi di ragù al salmone e resuscito in una torta di compleanno per una beata mucca fatta di diodi e transistor che viene montata da un dirigente profumato di tangenti e liquidazioni milionarie. Mentre i militari muoiono nel deserto dell’India, là dove le belve si compiacciono della loro immagine dai toni fecondi e suonano la lira per comunicare il loro amore all’amato pan grattato.