Veterani di maglie in brodo lottano con esigenze anteriori al pagamento di una bolletta della luce e gas per morire asfissiati in un’inchiesta dell’associazione consumatori. Definitivamente alterati si rivolgono ai santi in paradiso tra una siesta e l’altra mentre la cucaracha si aggira silenziosamente tra le olive della cucina e i peli pubici di un’adolescente in calore.
Per questo le cipolle soffriggono e traggono dagli assiro-babilonesi lo zenzero di cui ha bisogno il mondo per proseguire sulla strada dell’emergenza sistemica in cui i terremoti si sommano ai maremoti e l’umanità vacilla tra i mal di testa e i mal di mare. Personalmente sono più a favore di questi ultimi e quegli altri. E per evitare di strangolarmi con una lametta fosforescente mi guardo l’ultima partita di calcetto trasmessa in mondovisione dalla parrocchia di Santa Chiara Addolorata Per Le Doglie Da Parto. Preghiamo fratelli.
Preghiamo perché un giorno si possa vedere il culo dell’annunciatrice del telegiornale della sera. E che le esploda durante i bombardamenti in Iraq.
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Credo in un solo Dio.
Una dolce voce zuccherosa mi suade. Dicendomi che piano piano la pioggia arriva. Bagna l’intelletto e scende per l’intestino. Ma che bisogna mangiare magnesio. Mi bagno la lingua. In bagno. Mentre mi appendo alla lampadina e accendo la luce. Un fulmine arieggia il mio cervello. Ce l’ho sulla punta della lingua e ti bacio con passione selvaggia.
Caro barone Von qualcosa. Ora torno in bagno a fare qualcosa.
Cosa non lo so. Le alternative sono tutte carine e magari farò tutto quanto. Mi licenzio e mi metto a scrivere un delirio con il coso in mano. Lo smartphone.
È un oggetto sensuale e eccitante. Che vibra e si muove dentro di te e che penetra le rose e le spine del tuo fegato. Depura l’acqua sporca e sostituisce i tuoi nervi con i suoi. Pensa al tuo posto. Risolve, affronta i problemi e prende decisioni che tu non prenderesti mai.
Vive al tuo posto e tu ti osservi, contento, finalmente sollevato dalla responsabilità della vita e finalmente muori piano piano, anzi, evapori e lasci che Apple e Google mastichino il tuo cibo e godano amplessi e amino al tuo posto. Fino a quando non sarai altro che un terminale della Grande Anima e sarai quotato in borsa, comprato e venduto con un marchio di fabbrica. Avrai comunque dovuto scegliere se appartenere all’uno o all’altro.
E questa sarà una dura decisione. Poi tutto liscio. Come l’acqua di fogna. Che esce dal fiume per riversarsi in un’altra e così via. Pace agli uomini di buona volontà. Noi crediamo. In un solo Dio. In un solo Computer.
Una dolce voce zuccherosa mi suade. Mi dice che c’è un messaggio per me.
Che lo trovo in fondo al culo. Da lì capisco che ho un bug.
Non vado dal medico, ma dall’assistenza clienti.
Tredici morti camminan sul tetto
La gravità scinde il mattone e decide di riportare in vita una granata della prima guerra mondiale a occhi chiusi. Ciecamente si spoglia delle sue vittime e si unisce in matrimonio con il mattone piantato su un cimitero. Un mattone conficcato nella testa tra le labbra per non amare fino al cervello per non sentire. Il fallo matrimoniale concepisce urla di passione mentre la folla acclama in festa la verginità perduta ai giochi della felicità. Evochiamo solennemente le giunche che scorrono sull’acqua della voluttà per perderci grassamente tra fili d’erba della foresta amazzonica e mangiare festosi pranzi natalizi tra la pubblicità del samsung tre e dell’i-phone cinque.
Perdiamoci e regrediamo allo stato di giunchi paludosi tra serpenti che sobillano le folle per portare il veleno alle loro bocche e cantare di gioia per il dolore confuso con l’orgasmo.
Armiamoci popolo per una classe dirigente sadomaso che mangia dalla bocca e mangia dal culo. Scoppiano di sangue succhiato dai morti che camminano e urlano la loro rabbia per non poter succhiare di più. Giochi della fame alle olimpiadi del Golgota si sfiorano la mano per assicurarsi la vittoria. La vittoria non lecca il culo.
Il lavoro rende liberi
Una classica oca da viaggio si mescola con grappoli di vino per bere una sostanza gialla dall’acido sapore di acido urico. I gargarismi le servono per sudare sette camicie e volare da un porto all’altro e portare valigie di gessi e atletiche sottane di bronzo colorato. Una bevuta di orgoglio liquido soffia sulla comunità d’indiani d’America che pavidamente si succhiano il pollice dopo una lotta col culo di Custer per la conquista di fort Alamo durante la rivoluzione messicana.
Sì cara mia bella trota acquistata in Sardegna durante un’escursione sulle Antille olandesi, mi vogliono tutti bere ma io rinuncio alla cascata di soda caustica per migliorare l’aspetto della saliva che sale su per i condotti dell’Aeronautica Militare dove due generali sono trattenuti in un bordello indiano in attesa di processo per aver ammazzato due famiglie di serpenti di fachiri yogi che li usavano per ipnotizzare e borseggiare i turisti italiani e congolesi.
Il malleolo di una strega passeggia per la corona militare di un assiro babilonese in pensione che fuma canne di catrame liquido e svuota le pezze di pneumatici usurati nella nuova Caledonia prima che gli aborigeni ne prendano possesso sotto l’egida del corsaro turco. Assurdo si dipinge le unghie prima di andare a battere il marciapiede con un martello pneumatico e spompinare la castrazione bellica di un baffetto arrogante e che sputa, eletto tra i leghisti che propone la sterilizzazione di massa dei topi di campagna dopo averli fatti lavorare affinché si sentano liberi
Soffio in una cannuccia e deliro ardentemente
Seguo una vivida sponda della mia vita e trovo una serie di personaggi ambigui che sembrano usciti da un film western degli anni ’50 che si aggirano sulla spiaggia. Tutti rifanno la stessa strada all’andata e al ritorno e ripetono gli stessi gesti, si vedono, si sparano, e riprendono ad andare a cavallo, al ranch, al saloon e di nuovo in spiaggia. Allora chiedo a uno una sigaretta, questo mi guarda e se ne va dritto come se non appartenessi alla situazione. Allora lo fermo e gli chiedo se per caso sua moglie ha le mestruazioni. Questo tizio ha la faccia tipo aquila, affilata e col naso aquilino, fronte alta, pochi capelli in avanti che sbucano da sotto il cappello bucato, un gilet marrone sopra una camicia rossa a scacchi. Mi guarda come se vedesse un orizzonte lontano, come se sentisse la voce ma non vedesse la faccia. Cerca di mettermi a fuoco. Stringe le palpebre. Butta la sigaretta e mi sbuffa in faccia. E tira dritto.
Allora vado da un altro. Stessa scena. A quel punto vado da un altro e gli tiro una sberla. Poi un cazzotto allo stomaco e poi gli tiro un calcio in culo. Questo cade a terra. Si guarda intorno cercando qualcuno e poi tira dritto accelerando il passo. Allora vado al Saloon. Mi servo una birra da solo, poi un’altra, poi un’altra e me ne vado ubriaco. Uno sceriffo mi dice di andare a morire ammazzato. E io gli rispondo che sono già morto.
La notte scende tumultuosamente parlandomi di scene di sesso. E mi guarda dall’alto di un bagno semisecco che pronuncia bestemmie che fanno ridere i polli. La cannuccia di coca cola mi prende per l’ano e mi inietta milioni di piccole bollicine che sanno di peste nera.
Oreste ci aspetta
Una gonnella in calore osmotico
Prude l’orecchio del presidente. In una folla folle che lo abbraccia e ride si tritura le spalle di formaggio intergalattico ed esplode in una scorreggia salata che uccide alcuni bambini troppo vicini alla fonte di calore. Morti per osmosi tecnica, questo il referto medico che chiuderà l’inchiesta sul culo del presidente.
Una lirica commerciale si sposta nel soffio di un tornado di noia mortale tra thè e barbiturici di un’attrice col raffreddore. Immortalata su pepe verde in abito da sera si pavoneggia nell’auto di calamari sotto un sole caprino. Salta lucciola della folla per una folle folla di applausi che significano gloria e microonde per un caldo calore della tua sottana.
Il bianco e il nero trasformano le sottane in un unguento di mille coriandoli appiccicosi e s’intersecano baciandosi caldamente lungo il tracciato di una montagna russa in cima alle montagne tempestose. Un’unghia si brucia lentamente friggendosi le ali tra un bombardamento e l’altro di aglio piccante che condisce e odora di spezie due amanti che amoreggiano in cucina finché lei non gli fa un pompino mentre lui mescola il pasto della sera.
Il salto del ruscello
Un pasto di ieri si stempera contro la follia di oggi che mi tocca gli artisti neuronici in modo dittongo. Vedo la mania sulla Terra scopare un pentolone di birra a secco. Un lupante cretino mi provoca l’epistocentro per farne una mucosa intestinale. E allora ridiamo insieme in quella che è la pasta al sugo della terra.
Nel buio mi sfracello contro il pavimento e dissocio la mutanda intestinale dalla ghiandola surrenale di Egisto. Il trisavolo si succhia una canna da zucchero mentre il pleistocene arriva in ritardo. Vogliamo su un’era glaciale mentre pattiniamo nel deserto di luce radiosferica. Un pallone da kinesista si stampa sui quotidiani del mezzogiorno d’italia. Enunciamo le vittime della grande guerra gastrica tra fiori e libellule. Grassi vermi si dividono i resti di mammelle di mucca tra dotte discussioni sulla sfericità dell’universo e teosofie distorte della realtà multidimensionale.
Percio’ cambio canale e guardo il grande pratello in un urlo di angoscia che scorreggia cipolle e chips alla paprika uccidendo una mosca che si trova vicino al culo. Stamattina mi sono alzato e ho mangiato briciole di quella mosca leggendo il giornale su google. Esperti di ogni parte del monto interstellare si danno appuntamento a rimini per una tre giorni di bancherelle e puttane. I nuovi barbari scendono dalle scale di un precipizio che porta nei petali di una violetta affumicata. Oggi mi mangio il salmone che sta tornando a nuova vita in frigo.
Tamburo di pastasciutta affumicata
Il pazzo fracasso di un tempo che sfugge dalle sottane gaudenti di una musica pop mi strugge le gonadi e vola fugace e sagace nella nebbia padana per afferrare un fratello lontano, morente ma che mi sorride fraternamente affettuoso. Mi parla dal cancello dell’eternit dove è stato spedito dall’ingiustizia del pil. Un’urgenza che mi spinge al bagno per pulire i meandri intestinali comunica con l’aldilà e riporta il messaggio del divino big bang che ora so che non era un orgasmo, bensì una cacata universale come questa.
Questo dimostra quanto tu sia uno stronzo per non dire quando parli. O quando ragioni come un tamburo battente sui chakra del suono non credi che il sacro buddha non si guardi le palle con indifferenza?
Dubita e vivi. Vivi e sogna. Sogna e muori. Ma non senza un colpo di martello sul culo. Solo così attraverserai indenne il vallo intestinale che ti porterà a guardare con altri occhi la morte e a farne un pallino di strutto quantico.
Che bella parola.
Ora mi preparo un’insalata. Quantica.
O faccio una scopata. Quantica.
Una sega quantica mi teletrasporterebbe in una discoteca della costa d’avorio? Chissà. La filosofia (quantica) non ci da risposte anche perché non è stata ancora inventata. Ci vorrà la prossima cacata galattica per inventarne una.
Lasciamo parlare il chakra del tamburo informe per considerare una gita nel mezzo di sedicienti zebre africane che cercano di entrare nell’unione federale europea per cercare un lavoro e fare bambini.
Sopravvivenza e riproduzione. I nostri programmi di base. Senza di loro potremmo essere liberi e pazzi. Ma ci estingueremmo.
E allora lavoriamo davanti allo schermo di un fratello computer per importare i sistemi generazionali in un file open source e chiudiamo gli occhi teneramente mentre ci addormentiamo nel sonno travagliato di bambini adulti. Orfani di un padre. E di una madre. Che cercano di assaporare i tentacoli della vita sub urbana finendo in un coacervo di elementi dal sapore di finocchio amaro.
Mi ritiro in bagno con un crampo allo stomaco per creare un universo di fagioli borlotti.
E mi addormento in posizione fecale.
Ballo uniforme
Voli egiziani contemplano asetticamente la trance nella quale ballo un ballo a base di banane comprate in ferramente sul Nilo. L’attimo estatico nel quale Osiride ci guarda e si masturba mi miete il grano incastratosi nel cervello a volo d’aquila. Così come mi spargo lame insanguinate sulla faccia tutte le mattine e tutte le notti.
Sogni di sirene ululanti pungolano tutti i miei sogni di catarro fondente amaro. Nel tombino infuocato mi aspetta l’inferno di una medusa sorridente che mi stringe nell’abbraccio immortale. Afrodite ci fa ardere di desiderio e la poetessa delle ninfe ci propone un’orgia con i watussi musulmani.
Ci fu un’epoca in cui Dante non era considerato politicamente scorretto e in cui la privacy coltivava un singolo carro funebre di tutte le mense anziendali.
Ecco vedo la salita sospinta dall’ululato di un infante divino che striscia come una lucertola dorata le bolle d’aria di un cervello spappolato.
Sibila il serpente tra adamo ed eva e distorce una relazione d’amore divino come un giuda iscariota ma lo fa gratis. A proposito, che fine ha fatto il serpente? A me interessa. Lui e Giuda sono i più simpatici. Giuda me lo immagino con gli occhi a mandorla mentre assaggia un pompelmo appena raccolto. Ai giorni nostri sarebbe un eroe mediatico. Come Schettino.
Violiamo il ritmo di un ragga party e guardiamo Horus nelle palle di Orione mentre lo prende in culo convinto di stare scopando. Sarà che i greci hanno imparato dagli egiziani? Domande somatiche come queste hanno fatto la storia della filosofia gay. Ho freddo ai piedi.
Mi lamento di un dromedario sotto la pioggia che accumula acqua fino a scoppiare e se la beve dopo. Perché non posso fare la stessa cosa con la coca cola?
Medusa vengo con te stringimi tra le tue lacrime di cotechino caldo tra le gambe.
Polline
Venusa ritaglia un angolo di tempo nel telaio storto di un’icona che ride dal riquadro color prugna appeso nel corno d’Africa sotto i bombardamenti francesi alla ricerca dell’uranio per far funzionare centrali nucleari da smantellare. Ridono dietro di loro le iene che portano sangue al mulino dello sputo di una chitarra saxofonica del dio barbaro.
Non potrei sentirmi meglio dice la ragazza alzandosi dal letto di diodi elettrici dopo una notte d’amore intenso sotto i rododendri della sua casa in stile coloniale. Suono il piffero magico di Antalenio che me l’ha prestato e mieto un seguito di rosmarini abbagliati dal fetore che spargo senza pietà alcuna e rido in una latrina militare perché i gusci di noce che escono dal culo bruciano di sale al peperoncino rosso.
Le Erinni si alzano un mattino e chiamano Medusa per lisciarle il pelo del pube e rincuorarla sull’ultimo amante morto ammazzato da lei.
All’inferno queste cose succedono ogni giorno e non c’è niente di male.
È questa una delle cose belle dell’inferno, il male non esiste più.
Così come non esiste umiliazione nel mondo di Marylin Manson.
Se hai raggiunto il punto più basso dell’umanità sei libero perché non hai nulla da perdere. Se hai raggiunto la libertà allora sei pronto per andare all’inferno. E il modo migliore è quello di morire dal ridere sopra una pila di legna da ardere.
Un abbraccio a te e una carezza a me.
Un sostegno nella vecchiaia
Divo sostieni una montagna di carta igienica e voli sottendendo la piantina asburgica di un tetto che ti casca sopra la testa e crolla in lacrime fendenti la materia che impasto come la pizza. Io narratore onnisciente mi diverto a giocare a fare il creatore e il disfare del semaforo della vita eterna.
Il polipo a mille braccia si stura il naso e si masturba il buco del culo mentre una nuvola di fumo intercetta le sue papille digestive e lo fa vomitare zucchero filato. Un vomito più dolce del miele. Ore diciassette e quarantaquattro, e mezzo. Il tempo fila come un rasoio sulla mia faccia da culo. Imberbe e scatenata.
Il rasoio scorre. Liscio come l’olio d’oliva psicodelico. Creature del pianeta marmellata si misurano i seni caducei e appendono le loro memorie a damigiane di birra che scatta fotografie di momenti d’incoscienza psicodelica. Penetra in tamburi di mente onirica e senza alcun significato. Rumore assorda le mie orecchie.
E dio disse, e dio disse, e dio emise un suono. Prima il tuono, poi, poi, poi il fulmine. E luce fu. Il senso di spazio s’impadronisce di locali notturni mentre un’identità violenta s’impossessa della mia coscienza inconscia e comunque non raggiungerà mai il nirvana. Sono solo un carnivoro puzzolente che non significa niente in un grande nero appeso alla galassia che vomita pece nera in ogni secondo che collassa in buchi neri, nero è nero ritornerà. Segmenti di bit cercano di trovare un equilibrio all’interno di televisori di transistor per cercare di raggiungere la divinità e colmare il digital divide tra nord e sud Italia. Marocchini si lisciano il pelo tra marmotte ricorrenti un piato di sugo al basilico.
Fino alla fine del tempo. Fino alla fine del tempo. Un suono di note stonate s’intrecciano ai miei neutroni e piantano chiodi nei crateri lunari formatisi tra le giovani marmotte. Mentre un cucchiaio di pasta si masturba pensando alle cozze bollite nello strutto di liposuzione. Una scia rossa di sangue scarlatto si tinge di blu pensando a quante carte da poker ha distribuito nella sia corta vita da broker. Scommesse e cavalli. Cavalli e scommesse nitriscono insieme in un coro dell’Antoniano gridando a squarciagola “la vendo per un franco”.
Una mucca bela come un tacchino spremuto a viva voce su una roccia di bromuro espanso e la toilette tira l’acqua insieme a uno stronzo cotto a spuntino. Salsiccia domestica che violi il territorio dell’acerrimo nemico joker in modo che finalmente Batman sfoghi la sua omosessualità altrimenti che su Robin. Oggetti a volo pindarico s’insinuano ridendo nello spazio tra due transenne di una manifestazione di polizia che carica se stessa a cavallo.
Esogenesi letale. Vita da Marte scende vistosamente. Alieni abbronzatissimi si distendono sulla spiaggia in attesa di formare una comitiva di asparagi body builder.
Menti che ti passa
Un arco di ginestra puzza di ascella e annuncia la primavera in un losco antro distrutto dal vento. Si trova in cima ad un grattacielo di edera e rosa canina. Là sopra si inventano mondi sommersi per disperderli in frantumi di vetro soffiato. È il mio lavoro. Operaio di settima. Qualificato. Mi occupo di pubblicità. Invento slogan per la propagazione dei mondi nell’emisfero australe. Seduto su una panca davanti al sole del deserto pronuncio nomi e trituro talismani per spargerli nel vento ed entrare nella mente delle persone. “È un mondo di pazzi, fattelo piacere perché non ce ne sono altri se non peggio” è il mio slogan preferito, altrimenti “Hai un culo pazzesco fratello, leccati le ascelle e non scassare” “Questa volta è quella buona, cambierà tutto, tieni duro” “Sta per arrivare il nuovo Messia, tienti pronto” . Mi diverto a spargere puzza e sangue di vitello negli occhi di innocenti vergini di settant’anni e passa.
Rosso di sperma
Un livido fringuello s’insanguina un arto mentre canta una canzone di Sanremo e vede accadere un sasso sulla testa.
La cascata di mille metri di sangue atterra su una vallata verde e fresca e schizza mille rivoli di petrolio che sa di acido.
Le Erinni scivolano via dalla strada tormentata dell’essere cagna.
Rimembri quel tempo della tua vita? No? Meglio per te, faceva schifo.
Un pompiere si aggiusta la pelle a seguito delle ustioni di terzo grado che s’è procurato schiaffandosi della benzina accesa in faccia mentre faceva un corso di formazione a un gruppo di stambecchi in giacca e cravatta. Niente di grave mister, domani sarà come nuovo, nuova faccia, nuovo culo.
Resistiamo qui nel bunker della pazzia per mangiare scarti d’inferno e risolvere il puzzle di cartapecorita mandatoci dagli insegnanti di pasticceria. Mi candido una cioccolata tra i denti e sputo fuori maccheroni ripieni di piscio di cane. I fiori spargeteli sulla tomba di benito. Il mio cane, appunto.
Aglio, prezzemolo e…cipolla.
In una giornata di sole, Irina passeggiava col marito passeggiava per le vie del centro di Bruxelles, col marito a forma di pesce. Vagando senza meta si ritrovarono al Musée de Cinema a guardare un film a base di caramelle alla pesca vestite a festa.
Il marito le allungò una mano sulla coscia e avanzò al centro, ma lei gli rimise la mano a posto con un certo disgusto.
E videro Il film fino alla fine come due bambini che mangiano pop corn.
Il marito si fece avanti per baciarla a bocca semi aperta, ma lei si ritrasse. “Togli le tue manacce dal culo” e se ne andò via stizzita.
A casa nessuno dei due parlò e, in cucina sapevano entrambi che erano condannati a ritrovarsi nel letto.
“Perché mai due persone che non si sono parlate tutto il giorno, si devono ritrovare a dormire insieme. Voglio dire io volevo dormire insieme a qualcuno se veramente non potevo staccarmi da lui. Fondermi a lui, questo era, è la poesia del dormire insieme, non come due stoccafissi” pensava mentre tagliava le cipolle per piangere senza dare spiegazioni. False. “Siamo falsi, ecco la verità. Dieci anni e oramai siamo diventati due cartucce vuote che non hanno più polvere da sparo. Involucri. Scatole da scarpe vuoti buttati in un magazzino”.
Fu lì che le lacrime divennero talmente intense da non farle vedere più tra la cipolla e il dito e si ritrovò col dito sotto il rubinetto e un cerotto e con la voglia di ficcare il resto del coltello nella pancia di lui.
Ora che se n’era andato di sopra poteva piangere tranquillamente e odiare e uccidere.
Le emozioni si impadronirono di lei. Le emozioni, una voce dentro le disse “Obbedisci e ti farò stare bene, ma se non obbedisci non ti darò pace”. Ripensò al film, alle caramelle, ai petali di rosa che si spargevano sullo schermo di cui una volta lui le aveva ricoperto il letto e avevano fatto l’amore, veramente. Anche ora avrebbero fatto l’amore, ma il rosso non sarebbe stato quello dei petali di rosa. “Grazie, voce, m’hai dato un’idea magnifica, ti amo”. Raggiunse il marito a letto. La stanza era buia.
Sollevò le coperte. Di lino, color pesca con alcuni disegni di fantasia, comprate in India.
Lei si era innamorata della loro semplicità e della morbidezza, lui le aveva sempre odiate.
A lei faceva piacere che lui le odiasse. E ci dormisse dentro.
“Fingi di dormire, ora farò finta di svegliarti”.
Senza tanti complimenti gli prese in bocca quel piccolo verme legnoso che sapeva di piscio rancido. “Sento odore di cipolla” fece lui, “Sarà che l’ho appena tagliata”, no era il coltello che lei stringeva nella mano sinistra, mentre con la destra seguiva i movimenti avanti e indietro della bocca e gli accarezzava i testicoli “È il mio primo pompino alla cipolla” fece lui.
Non si parla con la bocca piena, pensò Irina, perché sentiva qualcosa nel tono del marito che la faceva contrarre lo stomaco di nausea.
Strinse l’impugnatura del coltello da macellaio e andò avanti.
Ci fu un lungo silenzio e lottò contro la voglia di staccarlo a morsi, mentre con la mano continuava ad accarezzargli le palle.
Sarebbe stata l’ultima volta che avrebbe assaporato il suo liquido caldo e perciò non le dispiaceva tanto, anzi, mentre lo ingoiava, si sentiva come con la coscienza a posto.
Le aveva sempre detto che desiderava morire scopando. Beh, più di così non poteva fare, in fondo meglio che niente. E poi non gliene faceva uno da almeno sei mesi.
Ora.
Dopo che gli aveva succhiato fino all’ultima goccia e che il verme era ridiventato molle come una patatina piena d’olio.
Ora.
Rialzò la schiena e gli passò la mano destra sullo stomaco peloso e prominente di chi ha già mangiato abbastanza in questa vita ed è ora che restituisca tutto alla terra.
Ora.
La voce la comandava come un soldato “Stringi il pugno, solleva il braccio, abbassa il braccio sul bersaglio con tutta la forza, con tutto l’odio, con tutta la disperazione”.
“Domani è S. Valentino e …” Irina si fermò a due millimetri dall’ombelico.
S. Valentino? Non glien’è mai fregato niente di S. Valentino, cosa vuol dire?
“E…?” fece lei?
“E ho prenotato un viaggio per noi due”,
“Un viaggio? Io e te?”
“Beh, sì, non ti va?”
“D…dove?”
“A Procida”,
A Procida s’erano conosciuti sotto un temporale in una grotta dove s’erano rifugiati e avevano parlato anche dopo che il temporale era finito
“Perché?”
“Perché ti amo ed è da un po’ che mi pare che le cose vadano così così, e magari lì abbiamo voglia di parlare di nuovo, chissà, magari durante un altro temporale”
“Uccidi o non ti darò pace” le diceva la voce, ma le emozioni non erano più quelle di prima, il braccio era già appoggiato al materasso, e le lenzuola di lino color pesca le sembrarono d’un tratto troppo belle per essere inondate di sangue.
Magari con altre lenzuola, un’altra volta.
Puttana triste sul lavello
Valvole di gioia spremuta zampillano dentro brache di seta nera a forma di ermellino. Una fumata nera ondeggia sinuosa sulla costa della California. E un’ondata gigantesca sforma le facce illibate che osservano ipnotiche il colore del sangue che si abbatte su di loro. Un’entità lasciva. Una morbida essenza d’aria. Un’oscuro fetore di assenzio che droga le narici di un eroinomane mi convincono a giocare la mia ultima partita a poker col morto. Un cadavere di speak si muove dentro lo stomaco ed esplode in un pianto dirotto che mi fa giocare al rialzo. Il morto vede. Poker d’assi, anche lui ha un poker d’assi. Ci abbracciamo e ce ne andiamo a fare l’amore.
Un’aguzzino gira per le strade di Napoli urlando a squarciagola “vi vendo per un tallero, pezzi di prosciutto”. Ave o Cesare, ave centurione, che i morituri ti sturino il naso.
Nella foresta magica mi sciolgo in un barile di Nutella. I ricordi di dolore in salsa d’acciuga mi stritolano i nervi come fili elettrici in corto circuito. Un elettroshock mi attraversa i pori del culo e descrivo al telefono un ritratto di Picasso. Odi Odino i battiti automatici di questa tastiera che ti assassina le budella a forma di vongola.
E applaudiamo il cantico di una cicala triste che muore, mentre noi voltiamo pagina e pensiamo.
Mi muoio d’amore
Una nota d’amore scheggia l’armonia degli dei. Una musica celeste si strugge all’idea del pianto. Una danza dolce che mi trascina fuori dal filo spinato mi sussurra parole di vento e di nubi, mentre la notte scende nel museo degli orrori.
Mi guardo in giro e vedo la paura di esistere che critica il giudizio universale e il pubblico applaude quando scroscia il sangue dei morti. Una nota d’amore devasta il sonno divino e fa titillare il palato al sapore di un lupo che azzanna il latte di pecora.
Odino mi parla e mi suggerisce di cambiare e di nuotare verso lidi avventati ma io gli rispondo che anche suo figlio era un po’ frocio “Non dirmi che le nubi diventano rosse” “no, ma che il Gesù si rivolta nella tomba sì” “scopa!” “hai vinto, bastardo” “gioco da dio” “hai culo e basta” anzi ha barato ma navigare in acque tempestose non è facile per nessuno e allora andiamo a farci un giro di valzer viennese al ballo delle quindicenni. Fu lì che sua figlia baciò il tempo e fu lì che io scoppiai di pazzia e di amore.
Il resto è pioggia, solo ruggine piovuta da nuvole di letame violaceo.
Sciarada di spine
Un fruscio di mosche agita il mio cuore.
Mentre decido se mettermi un dito su per il naso o su per il culo mi trastullo il pene con la fantasia di una sciarada di leggiadre femmine d’arabia. Sono immerso in una piscina quando vedo una tempesta di sabbia e mille sparvieri all’orizzonte.
Sparvieri che piangono si prostrano davanti alla statua di un filosofo greco di nome akariokostoulos cibromante. E pregano il fato di liberarli dal coma serpeggiante nelle loro scimitarre che non bevono più il nettare del fuoco lento. Decido allora di dirottarmi su Arkaba e nuoto dove gli avvoltoi contano i morti di un bombardamento rivoluzionario con armi così intelligenti che hannno fatto esplodere menti fertili durante una partita a scacchi.
In questo parossismo di centimetri non mi gira la testa e non chiamo aiuto e non corro urlando nel deserto.
Là dove nasce la pioggia mi distendo e aspetto di bruciare al sole cocente ripetendo passi della bibbia infame davanti ai miei occhi.
Mi guardo allo specchio e mi spavento.