Signori. Eriggo una frana cangiante a tutela delle mie Erinni e volgo a Oriente tutte le parole che fuoriescono dalla poesia di un bipede acquatico. Osanna nell’alto dei peli, signori, e pace in terra agli uomini che si fanno le seghe. Una voce dal paradiso annuncia che non furono l’origine del peccato originale. Ma un fiore in fiore che spumeggiava cantando le Idi di marzo.
Lui fu a punire l’umanità di folgori e nuvole serene. Per cui mi piaccio. Abusivamente signori, conosco le odi alla luna di san Francesco. Fratello sole e incesto di luna piena di latte e candore di ciliegia rossa di mare di more, eccoti il tuo figlio prediletto. Va in giro a predicare tutto il giorno e non ha ancora un lavoro fisso. Chiama tutti fratello e non fa altro che farsi le canne. Dice di camminare sull’acqua per il troppo LSD. Insomma è peggio di un peto in tenuta da schiavo.
Cantami solenne una canzone da bardo con l’arpa e a grande richiesta fammi un album di pane coi cori di Corinto che chiedono il voto di castità a gran voce. In fondo ti amo mia musa che Sodoma e Gomorra e muore a colpi di vagina grattata sul ferro del cannone caldo.
Nuota per me mentre ti guardo scioglierti in uno schermo al plasma che vomita le olimpiadi della grande guerra.
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Parto-risco tra i fiori. Un unguento si affaccia
Una saponetta bagnata usata come proiettile di rana viscido e salivare lecca i miei timpani mentre sento una spada lacerare le mie pene d’amore fecale. Penso e parto-risco un tempio di eunuchi da frutta appassita e il drago dell’orologio si pulisce i denti con lo stuzzicadenti.
Un sapore che sa di fragola bagnata e lucida. Un fiore appassito ma selvaggio che cerca una regola del gioco per potersi installare nel sistema di videogiochi di un adolescente annoiato ma superbo. E la vita scorre nel suo tempo e nella sua banana. Un negozio di ferramente si dimentica di preparare la torta di compleanno per le vittime di Marzabotto che cantano a squarciagola dall’aldilà celebrando un passero di birra oltre i limiti del sentiero tracciato dall’umana gente.
Sento un colpo di frusta su un corpo straziato in fondo al vicolo cieco. Il corpo di un umanoide cieco che incontro tutte le mattine alla macchina del caffè dell’ufficio dove passo la pluralità delle ore dello spazio tempo allocato alla mia persona da un demiurgo disoccupato in cerca di vanagloria intessuta di melassa al carciofo.
Un aereo cade sul palazzo, un aereo pieno di sterco di bue di Corinto in viaggio per mettere il bollino del made in Italy prima di essere venduto sotto forma di yoghurt alla pesca. Una giornata di lutto viene dichiarata rutto nazionale e i bambini possono bruciare le scuole e gli adulti pisciare sugli amministratori delegati, per far sì che il debito venga condonato in un giubileo hippy davanti alla platea di woodstock. Un inno di sangue, di rosso liquido che cola dal sacrificio inutile dell’umanità in una macchina fuori controllo che perde pezzi di titoli del tesoro dei pirati della droga afgana.
Carlo si disperde in una nuvola di fumo per dimenticare se stesso e il seno che lo allatto’ come un gatto che miagola alla luce della luna.
Filippo discende dal cielo resurrendo per portare la parola divina tra umani ingabbiati dall’ignoranza. A dire che in fondo al tunnel c’è luce, quella mai vista, ma sempre raccontata.
E che ci amiamo nel sangue e nella guerra.
Perché l’amore è una patata che si coglie con una mano che sanguina e la si mangia con la buccia e quello che fa, fa. Anche se fa ridere.
Anche se non fa ridere.
Anche se fa morire dal ridere.