Sufi e stronzi


Una novità di plastica si scinde in mille pezzi per diminuire il totale dalla spesa del supermercato e mettere in tavola gli schizzi di sperma di una balena bianca. Ignobile contratto civile che massacrano pinguini vestiti da carnevale a un cocktail di benvenuto alla sauna del centro di benessere che conta migliaia di partecipanti alla Messa del Santo Natale in un’Assunzione al cielo morta e sepolta sottoterra. Mi spiego e m’impiego tra folti salici piangenti che cadono dalle mie sopracciglia e allora voglio dire che una santa erotica puttana non vale una tangente pagata sotto il tavolo.
Una rogna pende dal tavolo dell’impiccato a un tavolo da poker che soggiace alla pizza napoletana senza mozzarella per girare intorno a un’acciuga di veleni partorienti. Perché? È una domanda che non si risponde mai da sola. Deve sempre avere un girotondo di mandolini che cantano da trogloditi in un’aureola santificata alla presenza dell’Altissimo. Un vocabolario da stronzi è maturato in Vaticano.
Passo la mia vita al computer pensando al pane quotidiano e a rimettere i nostri debiti al miglior fornitore di pastasciutta che vende mignotte sotto il tavolo di un capriolo al forno partorito al mercato del pesce. Venticinque anni di rivolte non sono bastate per comprendere l’ampiezza della rivoluzione toscana che ancora oggi semina rivoli di sangue tra vampiri e cani che pregano hallalah ma vanno a rimuginare sul cammino di una vignetta adolescenziale. Preghiamo i sufi affinché rimorchino anche loro vagine in calore e calmino il crocevia di un petrolio a poco prezzo.

Credo in un solo Dio.


Una dolce voce zuccherosa mi suade. Dicendomi che piano piano la pioggia arriva. Bagna l’intelletto e scende per l’intestino. Ma che bisogna mangiare magnesio. Mi bagno la lingua. In bagno. Mentre mi appendo alla lampadina e accendo la luce. Un fulmine arieggia il mio cervello. Ce l’ho sulla punta della lingua e ti bacio con passione selvaggia.
Caro barone Von qualcosa. Ora torno in bagno a fare qualcosa.
Cosa non lo so. Le alternative sono tutte carine e magari farò tutto quanto. Mi licenzio e mi metto a scrivere un delirio con il coso in mano. Lo smartphone.
È un oggetto sensuale e eccitante. Che vibra e si muove dentro di te e che penetra le rose e le spine del tuo fegato. Depura l’acqua sporca e sostituisce i tuoi nervi con i suoi. Pensa al tuo posto. Risolve, affronta i problemi e prende decisioni che tu non prenderesti mai.
Vive al tuo posto e tu ti osservi, contento, finalmente sollevato dalla responsabilità della vita e finalmente muori piano piano, anzi, evapori e lasci che Apple e Google mastichino il tuo cibo e godano amplessi e amino al tuo posto. Fino a quando non sarai altro che un terminale della Grande Anima e sarai quotato in borsa, comprato e venduto con un marchio di fabbrica. Avrai comunque dovuto scegliere se appartenere all’uno o all’altro.
E questa sarà una dura decisione. Poi tutto liscio. Come l’acqua di fogna. Che esce dal fiume per riversarsi in un’altra e così via. Pace agli uomini di buona volontà. Noi crediamo. In un solo Dio. In un solo Computer.
Una dolce voce zuccherosa mi suade. Mi dice che c’è un messaggio per me.
Che lo trovo in fondo al culo. Da lì capisco che ho un bug.
Non vado dal medico, ma dall’assistenza clienti.

Fiori e cascamorti


Intreccio le dita di file di fiori su catene spezzate e una voce da bambina mostra il suo corpo nudo sulla catena appesa da una prigione di cacca.
Novecento si immerge nell’ultima onda d’acqua e nuota con i folli presagi di un pianoforte che lo insegue e lo suona alla velocità di una sciarada di vespe che cantano una lirica di parrucchiere.
Intreccio peni e salami in un salumificio giapponese dove scorrono le rotaie dei sensi sottoforma di peli pubici attaccati a manette che pendono dal soffitto e fruste che accompagnano dolcemente le fusa di una gatta strabica che non riesce a leggere i promessi sposi senza piangere di gioia durante la peste bubbonica e spera che muoiano tutti i personaggi tra urla e spasmi notturni.
E urlo svegliandomi all’imprevisto in mezzo a saggi urlanti che urlano in coro un Amen alla prateria notturna e vagano lentamente con la coda a forma di cactus tra porcospini e iettature di zenzero a pomice atomica
Funghi si spargono in tutto il mio corpo e prendono possesso dello Stargate del senso, ma no, non cercare di trovarne uno, no, non farti venire il mal di testa, no, non uno, ma centomila, centomila lire, ti ricordi? Quando eravamo ricchi con centomila lire? E un ghiacciolo enorme ne costava cinquanta? Medioevo dice Felice e ora siamo costretti a comprare lo smartphone per risparmiare sul computer, e lecchiamo l’i-pod al limone e scarichiamo una app per farci avere un orgasmo così risparmiamo sui ristoranti di S Valentino. Sbattiti una lacrima amore mio.

Cacofonia


Gestite il suono del silenzio con una patata in una manto e un mantello nell’altra. Il silenzio ascolta e perdona. Il silenzio è tuo amico e fratello. Fratello di sangue perché sei nato nel silenzio e dal silenzio provieni. La tua carne non parla né il tuo sangue. Il silenzio dello spazio è eterno ma parla un linguaggio che solo il silenzio è in grado d’interpretare. Ascolta il silenzio e scoprirai quello che cerchi. Per ascoltare devi stare zitto. Il silenzio è tutto quello che sei e che hai paura di essere. Se scorreggi fallo silenziosamente. Se scopi piangi in silenzio. Non scoprire la coperta del silenzio. Perché quando sarai pronto si scoprirà da sola e ti apparirà vergine ed immacolata pronta per essere tua. Perché sei tu.
Anche uno sputo può fare troppo casino. La cacofonia di un villaggio turistico mi sussurra all’orecchio il suono della madre terra. La cacofonia di una musica rock stende un velo di catarro sui miei neuroni affaticati da una notte di marijuana da leoni. E panzer di sintetizzatore uccidono le zanzare a colpi di fulmini e caramelle.
Mi chiedo a che scopo viviamo e uccidiamo e moriamo e risorgiamo e dipingiamo e moriamo e scriviamo la nostra biografia su una croce di salnitro piantata ad eterna memoria. Ma me lo chiedo perché la risposta non esiste e la domanda resta là come una bella donna che ti guarda dal bordo di una miniera abbandonata mentre tu cerchi te stesso e scappi da un’esplosione di grisou prima che ti esploda in faccia.
Ed è lì che prima di morire ascolti il suono del silenzio che cala prima sui timpani sfracellati dall’esplosione e poi ti addormenta in un sonno profondo finché non incontri angeli e porci che ti hanno accompagnato e l’unica cosa che ti chiedi è se hai mangiato abbastanza cioccolato dato che non lo ritroverai più in nessun’altra dimensione o pianeta dell’universo.
Oggi piove e l’acqua è l’unica essenza che può disturbare il silenzio, perché ne fa parte. Anch’essa è silenziosa e anche la terra. E quando un silenzio incontra un altro silenzio fa un suono sordo anche se forte che ti aiuta a prender sonno e a calarti nel silenzio prima che diventi eterno.
Sto immaginando come cantare in maniera silenziosa per fare un coro degli spiriti della terra che volino sbattendo le ali di farfalle agitate dallo stress informatico. Anche il computer fa poco casino. Lui ti guarda come il genio della lampada e ti chiede quale desiderio vuoi che esaudisca.
E prego.
In silenzio.
Gli spiriti.
E ci faccio l’amore.
In silenzio.

Tamburo di pastasciutta affumicata


Il pazzo fracasso di un tempo che sfugge dalle sottane gaudenti di una musica pop mi strugge le gonadi e vola fugace e sagace nella nebbia padana per afferrare un fratello lontano, morente ma che mi sorride fraternamente affettuoso. Mi parla dal cancello dell’eternit dove è stato spedito dall’ingiustizia del pil. Un’urgenza che mi spinge al bagno per pulire i meandri intestinali comunica con l’aldilà e riporta il messaggio del divino big bang che ora so che non era un orgasmo, bensì una cacata universale come questa.
Questo dimostra quanto tu sia uno stronzo per non dire quando parli. O quando ragioni come un tamburo battente sui chakra del suono non credi che il sacro buddha non si guardi le palle con indifferenza?
Dubita e vivi. Vivi e sogna. Sogna e muori. Ma non senza un colpo di martello sul culo. Solo così attraverserai indenne il vallo intestinale che ti porterà a guardare con altri occhi la morte e a farne un pallino di strutto quantico.
Che bella parola.
Ora mi preparo un’insalata. Quantica.
O faccio una scopata. Quantica.
Una sega quantica mi teletrasporterebbe in una discoteca della costa d’avorio? Chissà. La filosofia (quantica) non ci da risposte anche perché non è stata ancora inventata. Ci vorrà la prossima cacata galattica per inventarne una.
Lasciamo parlare il chakra del tamburo informe per considerare una gita nel mezzo di sedicienti zebre africane che cercano di entrare nell’unione federale europea per cercare un lavoro e fare bambini.
Sopravvivenza e riproduzione. I nostri programmi di base. Senza di loro potremmo essere liberi e pazzi. Ma ci estingueremmo.
E allora lavoriamo davanti allo schermo di un fratello computer per importare i sistemi generazionali in un file open source e chiudiamo gli occhi teneramente mentre ci addormentiamo nel sonno travagliato di bambini adulti. Orfani di un padre. E di una madre. Che cercano di assaporare i tentacoli della vita sub urbana finendo in un coacervo di elementi dal sapore di finocchio amaro.
Mi ritiro in bagno con un crampo allo stomaco per creare un universo di fagioli borlotti.
E mi addormento in posizione fecale.