L’immagine di una lacrima


Il genocidio della poesia s’ingegna sulla misura della primavera per capire la guerra delle api. Si’, davvero arriva alla giustizia della politica Andreotti s’immolo’ sulla Costituzione perché aveva bisogno di una regola per masturbarla fino a ridere a crepapelle. E’ cosi’ che ha amato l’Italia. Ho paura. Ho paura della fine. Forse vivro’, ma la fine arriverà prima della morte. Perché la fine è antecedente. Anche il divo Giulio era antecedente. E cosi’ vinse la fine, morendo dopo. Ma diventando Papa. Divento una custodia dell’arte per essere prigioniero del sesso giocando a calcio in una comunità di maestre che uccidono la poesia guardandosi allo specchio. Una lacrima scende da un nesso che collega il rumore dei bambini e il corpo dei pompieri che fa un pompino alla pompa dell’anima, dall’interno. Pensiamoci. Perché la poesia abbraccia il papa come un handicappato. Ed è cosi’ che io la ricordo, pregando alla fine di una chiesa.
Non è vero che non c’entra. C’entra. Per chi crede tutto c’entra, c’entra ed è cieco, questo è il re. Questo è il re dei non vedenti che non vede perché è lui che non vede. Io mi concentro, ma non capisco. E allora applaudiamo. Perché non siamo ciechi. Ridiamo e vediamo l’immagine di noi stessi riflessi nelle labbra di una lacrima che scende senza fede. Ora è mezzanotte. Testimonio che ho visto uno che osserva un tempo che non c’è in un’isola che non ha alibi per non esistere, ma c’è. Io no. Non ancora. E ci saro’ quando esistero’. Ma prendo decisioni. Collegando i nessi tra i cani e i ciechi.

Il salto del saltimbocca


Imbocco la strada della generosità e mi piego all’agenzia delle entrate per mendicare un tozzo di pane raffermo davanti alla chiesa della scienza medica. Mangio un panino di staminali condite con sperma di tricheco cieco. Sa di Nutella. Ma con un’aggiunta di fragola e panna. Resto incinta e mi dirigo verso la posta prioritaria per raccomandarmi a Dio non appena tornerà a Fatima per un incontro ravvicinato, molto ravvicinato: peloso.
Prego lo Zio Dio di darmi il pane quotidiano con la marmellata di prugne della nonna Elvira. Sorrido adiacentemente a un lupo di marmo di Carrara che arriva ultimo alla gara di pallavolo della sezione uno della scuola di addestramento lupi mannari. Ma applaudo festosamente mostrando i padiglioni e suonando una sinfonia Patetica modificata geneticamente con Staminali di Stamina e di Gramigna al pesto.
Una chiesa informa i fedeli del cambio della guardia al governo delle lucciole. Abbiamo cambiato la legge elettorale. Quindi i sudditi saranno contenti. Ma non abbiamo cambiato le nostre remunerazioni. Quindi i sudditi saranno contenti. E anche noi. Poi cambieremo il Senato e faremo un giro delle poltrone e le chiameremo le Grandi Riforme dei saltimbocca. E ci faremo un bourbon alla senape e brinderemo in onore di pecore e cavalli.

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Mi massaggio la schiena con una lingua di liquerizia.


Un dono dal cielo si tinge di rosso e mandorle cadono a pioggia su uno tsunami di patatine al forno.
Una trota apre la porta di casa e vede un uccello dalle penne al fosforo. Cosa dici ti piacciono i miei nuovi colpi di luce? Gli fa con un sorrisone da mantide religiosa. E allora lì riconosce subito sua moglie che ha mutato forma a causa dello shampoo del parrucchiere. Mica capito perché poi tutte le volte passa da pesce a uccello. Speriamo che la prossima volta non finisca per assomigliare a un uomo, pensa Giroditrota mentre le dice Ma certo ti stanno benissimo, come miele su una torta di formaggio di capra. La televisione stava sondando la capacità del mondo subacqueo a fare sesso con le alghe e masturbarsi i denti con il dentifricio di spugna all’aloe.
Una musica grugniva in sottofondo mentre Giroditrota e Tortadisfoglia si baciavano sulla porta di casa e a malapena chiudevano il portone prima di un amplesso coniugale.
La suora Bellamargherita si muoveva e si contorceva in direzione della canonica di una casa chiusa, la chiesa e si puliva le gengive soddisfatta in un arco di liquerizia dittongato al sapore di ramarro asciugato in cipolle virili e va carburando l’onda del piacere.
Un sisma ritmico che scuote le corde di un violino che vomita urinatoi stronzi.
Esigo silenzio nel trono del piacere e del fiore che si erge celeste alla fucina fallica del dio del canto.

Uno struzzo di periferia


Una pernacchia di dolore si scuote le meningi misurandosi il girovita. Gradisci un nasello? Fa la pesca di un merluzzo sfegatato in attesa del colpo del medico. E quindi coloro di pastello il quadro del Bernini. Sfoglio un fiore scuoiando un’anatra color pisello e la pazzia invade la mia pelle. Il godimento di una ragazza con la febbre si misura negli occhi dell’estasi che ridono a crepapelle.
Oggi Matullo si scopre una parte dei genitali e li dipinge di blu per assomigliare ai colori di cristo, mentre la felpa di bertolaso sventola su un mazzo di carte. Matullo sconfina nell’arte per sfondare un posto di blocco mentale che guarnisce una madonnina riccamente addobbata in cima a una chiesa.
Ci sfreghiamo insieme una barba appena rasata e abbracciamo babbo natale che esce da una doccia radioattiva. La morte precoce che genera marmitte catalitiche uccide un cretino che lavora nelle diosfere. Pelato e deficiente ma grande e intelligente suona una chitarra in una chiesa di periferia dove lima una fuliggine di merda e oro soffritto.

Topi fuggono verso una città di pere mature


Corre una squadra di calcio dietro a un torrone rosso liquido. Diviene una porta di assegnazione il molliccio stronzo da tirare per segnare un punto in una torre di fango che scivola sotto i piedi di ventidue ragazzini con pelo e corna. I loro cuori hanno paura. Temono il Dio. Sopportano la malattia carnale con uno sforzo titanico. Una guerra ormonale si scatena all’interno dei loro corpi scoperti e denudati. Dei della stanchezza sommergono lacrime condensate di ornitorinchi grigi. Una storia di verdi foreste e alberi abbattuti come pilastri di una chiesa travolti da un maremoto grida la propria gloria passata e la linfa scorticata da una terra ancestrale che muta e si rivolta a chi non l’apprezza.
Piedi callosi tirano gli ultimi calci a una palla ferrosa di ruggine incandescente tagliandosi calli corrosi dalla lebbra. E ululiamo insieme a loro: mummie che governano il tempio della solitudine artistica. Una folla di gobbi applaude la sfinge che guarda tristemente una stella lontana pensando “casa” e aspettando di parlare alla sua mamma.
Mangio un cane arrosto nell’attesa di un pazzo intelligente che mi racconti una barzelletta che non mi faccia piangere e ascolto musica elettrica che stimoli le mie narici verso odori equipollenti a logaritmi che leccano seni e coseni.
Svengo.

Uno splendido sole marcio schizza sperma rosso sangue


Dentro un miraggio californiano esploro la strada che mi porta alle isole del santo bevitore. M’immergo in una ruota cristiana mentre il vento sfracella un materasso sifilitico.
Reggo una chiesa intorno a me, mentre croci danzano la polka e partoriscono mostri policronici.
E la torre di Babele beve Coca Cola Light in un variopinto muro di Berlino dove ebrei e coleotteri danzano succhiandosi il pollice, lì dove una sirena della polizia seduce pescatori ignari dell’amore di una bambina che ride.
E danza.
Suonando una chitarra elettrica in un volo Ryanair.
Preghiamo insieme e diciamo “Vai e buttati in una mensola d’oro e caga otri di vino rosso affinché noi possiamo bere la sorgente della verginità.
Noi ti preghiamo.
Amico nostro e fratello di mille vergini che come fiori neri aspettano su fichi d’India e spine di rosa tremula.
Dacci oggi la nostra carne celtica e pisciaci addosso dicendoci che piove, e amen”.
Ebrei e negri si fondono insieme mentre la lingua si scioglie nelle bocche appassionate di figli della dea Alluce.
Sapienza divina che presta il sesso al dio per benedire ogni fedele del santo bevitore.
In una gioia rido. In una risata cago. In una cagata muoio. Felice come in un orgasmo eterovaginale.
“Ti ringraziamo per questo bicchiere di ambrosia che sa di liquido riproduttivo. Sorgente di vita e di coca cola. Fonte di happy hour e spregevole seno a coppa di champagne che sprizzi nettare degli dei”.
Mi sparo in bocca davanti al mio sintetizzatore cantando Alleluia Ryanair hare hare hare…


Cosimo ergo sum
Un vomito blu mi parla su un sottofondo di sitar indiano. Sfrappole fritte piovono da ogni dove su una città di campagna dove si tirano ancora i carri coi buoi. Un elmo da guarra si stira insieme a voci rauche che cantano in un coro di bambini di chiesa. Gloria nell’alto dei cieli e pace nelle fogne di Calcutta ai topi e alle gazze ladre di palle di piombo. Cerruti è un marchio da sballo. Ma Cosimo Pietraguerra è altrettanto sborrone. E io vesto Cosimo.
Bacio il bacio della fortuna affinché vesta le vesti di seta e copra le menti dementi di un capo branco a cui l’alcol ha dato alla testa di cazzo. Cazzo, un pene, una poesia, del cazzo, appunto.
Suor Cecilia era una ragazza alta e magra che non riusciva mai a dire la cosa giusta al momento giusto e allora dava l’informazione al gruppo. Trovava un ruolo, quello di gazza ladra, o di corvo dato che era alta e vestiva di nero. Le amiche si rivolgevano a lei come fosse google, ma era l’unico modo di avere la loro attenzione. Poi siccome in parrocchia le davano tanta più attenzione quanto più lavoro faceva e che le suore erano più simpatiche delle sue amiche, le venne naturale farsi suora. A 50 anni s’innamorò di un chierichetto. Cugino di un’altra suora.
Un’urna funeraria raccoglie le sue ceneri portate in processione da tutto il paese nell’attesa di essere presto dichiarata santa. Miracoli piovevano dal cielo come Parmigiano sui topi a ogni orgasmo nel quale chiedeva perdono con tanta forza da far accendere tutte le luci del paese. E anche gli elettrodomestici.
Scivolando giù per il tubo del gladiatore il redentore ripuliva i pollici inondati di sesso e celebrava una messa nello sfintere gassoso d’incenso e metano liquido.

Occhio di lince


Ismael e Caterina non vanno più molto d’accordo. Ismael è irritabile facilmente, basta che lei gli dica di lasciare in ordine i pantaloni che lui scatta.
Caterina va sempre più spesso in chiesa, oramai tutti i giorni e il fine settimana sembra una missionaria, tra lavorare e organizzare come un’ape. Sette anni sono passati da quando avevano deciso di restare insieme dopo il tradimento di lei, ce l’avevano anche messa tutta, ma alla fine dei conti non era stata una buona idea. Ismael pensava spesso che si fa prima a comprare che ad aggiustare anche perché una cosa aggiustata, in fondo, è sempre mezza rotta.
Caterina è asmatica e spesso resta a casa che sembra che non riesca più a respirare. Proprio ieri ha avuto un attacco d’asma guarda caso proprio il giorno prima della festa della parrocchia in cui lei è ovviamente la responsabile principale. Più lavora in parrocchia e più le vengono gli attacchi d’asma e più prega e più lavora in parrocchia e più le vengono gli attacchi. Lavora di più adesso in pensione che prima.
Divorziare a dopo i cinquanta fa un po’ strano, ma perché no? Ma lei l’ha già capito prima che si andava in quella direzione, ed è per quello che s’è messa nella situazione “madre teresa”. Quando lui chiederà il divorzio, lei potrà smuovere la forza immensa della comunità nella quale anche lui è immerso, sia per il prestigio che ha accumulato, sia per il suo stato di salute che impone. Essendo i figli lontani e con famiglia rimane solo lui a farle da bastone della vecchiaia. Ismael lo capisce ora e capisce anche un’altra cosa: che più il tempo passa e più la gabbia si farà stretta e robusta. E no, non le interessa che lui stia con Elena che non vede l’ora di portarglielo via, l’importante è che resti sposato con lei.
Lui questa storia non la manda giù. Ismael vuole la vita chiara e semplice perché lui è così.
O sta con una o sta con un’altra. E alla luce del sole.
Questi sistemi lo disgustano a pelle. A questo punto non resta che una cosa da fare.
Prende il telefono “Giuseppe?” “Ciao Ismael, come stai? Allora? Ci stai o no?” “Sì, ci sto”.

Ismael ripensa a Caterina. Da quando lui l’ha lasciata e per evitare la trappola della colpa che lei aveva pazientemente tessuto in sette anni, ha anche cambiato casa e città. E lavoro.
Vive con Elena che a trentacinque anni gli ha dato un paio di pargoletti che l’hanno fatto rinascere in una via di mezzo tra padre e nonno.
Ora si sente e dimostra dieci anni in meno e ha anche un’azienda avvitata con Giuseppe e altri soci nel campo della cioccolata. E viaggia spesso per trovare i produttori ai quattro angoli della terra. Una vera seconda vita. Pensa a Caterina, appunto, come si può pensare ad una dermatite che dopo vent’anni è stata finalmente debellata.

Attenzione al buio marrone


Diciotto mila fanti si mescolano in una foresta d’oppio e nutrono il fardello di una cena a dispetto di un occhio di riguardo alla tubercolosi in paziente attesa da tempo immemorabbbile.
Noé scende dalla barca e accosta sul molo dove tutti ammirano la qualità delle rifiniture del suo motoscafo ultimo modello. Scende con due puttane che lo accompagnano in giro per il mondo e una serie di schiavi importati dagli altri pianeti. Osanna nell’alto dei peti. E pace in terra alle giraffe di Bogotà.
Un prete sensuale si masturba nello sfintere della chiesa ortodossa. E si masturba in maniera poco ortodossa.
Giovanna si masturba in un lavandino dell’esercito italiano e viene a seconda dell’intensità dell’odore animale che circola nei suoi polmoni.
Una messa solenne muore asfissiata in un soffritto di cipolle mentre la prima comunione accompagna Libera in un bordello per fare un tirocinio post laurea.

Il canto dell’orda


Una voce rosica le mie corde polmonari e frigge l’anima di un sopracciglio esuberante. Il crocchio vola trainato da cavalli bianchi in un cielo che si apre per farli passare e sparire dalla faccia della Terra. Io sono sull’altare di una chiesa e odo la musica del mio matrimonio cantare centauri di zucchero filato sulla torta nuziale.
Vuoi tu…, sì, no, non voglio, certo che voglio sempre e per sempre, finché la morte non ce la metteremo in tasca e vivremo per sempre in questa valle di cieli oscuri. Un bacio nella fantasia riempie il pubblico di mille colori arcobaleno che affrescano una chiesa, la santa madre chiesa, di tutti gli amori e gli onori che scorrono dall’inferno ad Adamo ed Eva.
Serpenti della conoscenza piovono dal bene e dal male, mentre cori gregoriani ritmano danze orgiastiche di cardinali e concubine e mucche da latte.
Usciamo sotto una pioggia di risotto ai funghi e pizze lanciate tra i denti e arrosti di prosciutto e su un paio di sci raggiungiamo la limousine che ci porterà in volo, me e la mia bella Pazzia, fino al prossimo delirio.

Magna Gregia.


Voci sinuose s’insinuano nel seno del senso. Non so se rendo. E fanno clamorosi errori di ortografia. C’impegniamo così in una tediosa giornata di fine autunno in una classe modello Juditta e sfiliamo convinti di essere strafichi tra alberi di crisantemo piangente.
Una truppa parata di fronte e di sesso. Questo c’insegnano a scuola. Ma rotolando frementi tra prati in fiore issiamo le bandiere del pisello giamaicano che porta pace in tutti i frutti. Mentre ubriachi usciamo da scuola ecco il sedere del bidello Paese che vola giù dalla finestra.
L’avrà cambiato per uno senza buchi? Aspiro e inspiro l’aria che sa di polline in fiore. Un fiore d’orchestra. Un fiore alla finestra che prega rosari d’addio alla sua bella che parte per il fronte in un pianeta lontano. Un pianeta che sa di aglio e prezzemolo. Lo chiamano il “Bruschetta” come mio nonno. S
arà destino ma ho già comprato un appezzamento di terreno da quelle parti. Si sa mai. A scuola ci saranno buoni corsi di cucina.
Pane e salame si leccano le dita e scorrono i trichechi tra i denti per togliersi quei fastidiosi grumi di grasso che restano in mezzo alle fette.
Un gatto obeso si fa una sega guardando le mosche che vanno in chiesa la domenica mattina.
E Pietro e Paolo sondano il terreno per vedere se è pronto ad assorbire una nuova piantagione di datteri cattolicomunisti.