Una musica popolare stona nel sangue di un cherubino la cui pelle esplode di chiaro di luna e le rane nascoste nei mille pensieri si cimentano in una gara di ronzio di zanzara. Enrico prende il mughetto e lo masturba con la sega automatica dopodiché viene a parlare di orgasmi politronici mentre lo portiamo alle urgenze. Il medico dichiara lo stato d’allerta all’altezza della banana rotta e si cipolla il naso con una protuberanza ischemica.
Fu lì che notiamo che le rane cominciano a uscire una a una e invadono, perché sono tante, centinaia di migliaia, una per ogni goccia di sangue, e invadono la clinica svizzera allacciando relazioni fraterne con i pazienti che denunciano lo stato delle cose all’autorità giudiziaria.
Ma ora Enrico si è ripreso. Ora sta bene. Ora perde solo sangue normale, umano.
Anche il colorito è cambiato e tende all’arancione pel di carota.
Perché in fondo tutti noi siamo Enrico. Tu che guardi lo specchio delle tue colpe. Tu che osi pregare la santa trinità masturbandoti l’orifizio ascellare. Tu che canti le lodi di Odino mangi anche tu gli sciami di pere cotte che vituperano lo stuolo di api e circondano la tua felicità per dirti che se la vuoi veramente non basta pregare ma bisogna anche sputare. Pane, olio e sangue di bue.
Così ottieni la tua strada verso la destra del Padre. Padre Ippolito. Che siede nel regno dei cieli e si vergogna perché ha dovuto pagare tangenti, ma oramai non ha più nessuno con cui confessarsi. Enrico prega. Prega una strega. Che ha la forma della Madonna.
E lei, anzi, Lei, gli promette case e cuori purché la sposi e sia suo per sempre e soprattutto gli promette di fargli tornare una rana nel cuore affinché possa piangere di dolore e sapere dov’è la felicità.
Anche tu che guardi, lo sai, che senza una rana nel cuore non sai dove andare.
Come Enrico. Anche tu sei come lui.
Dopo la mezzanotte, però. La mezzanotte della nostra era finisce con l’Apocalisse.
E lì i trans diventano borghesi tradizionalisti. E i politici gente di cuore.
E tutti si chiameranno … Enrico.
Anche tu.
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Venti agitati di un pasto vecchio.
Il minimo comune denominatore della vacca possidente genera una radice cubica un po’ amara che va mangiata col miele di pelo pubico di passero femmina. Ho la voce metallica ed è per questo che suono il rock come una padella smarrita nei transistor di un bidé di marmo blu elettrico.
Chiedo a Gurlo perché sforna i tricipiti insieme ad una torta alla panna preparata da sua nonna quando era un allievo della scuola islamica dei combattenti di Allah. Lui fa “Perché è così che posso mangiare liberamente un po’ di carne di maiale, se no ti fanno fare un clistere di pungiglione d’ape e allora passi un mese a pregare di morire incatenato ad un toro che sprizza sangue e piscio effervescente naturale” “Capisco faccio io, allora meglio essere cristiani così puoi mangiare caccole di vacca senza offendere né dio né Stalin col suo occhio antropomorfo e mangiare un brodo butterato con vaniglia”. Gurlo mi guarda con occhio pescivero si gira verso la scarpata dov’è aggrappata la sua navicella spaziale e si butta spensierato in questa lavatrice che centrifuga letti di spine. “Un coniglio in meno” penso tirandomi fuori una pizza margherita con salsiccia piccante.
Metalomé lavora alla catena di montaggio e grida. Enoch canta inni al Signore e stira le camicie di un cherubino sdentato. Druido pulisce le scarpe al signor Artù di Reggio Calabria. Vogano così i filopanti morenti che tranquillamente si crogiolano in un mare di salsedine croata tra vampiri e balle meteoritiche. Diversi anni or sono i lupi arborescenti si erano spinti all’estremo oriente fino a lievitare e assaporare i venti trasparenti di sirene spazzine ma poi si resero conto della paga da fame che ricevevano in cambio di servizi di prima classe e vendettero i loro servigi ai manicomi criminali coreani.
Fu così che provocarono le prime esplosioni nucleari nella testa dei pazienti, mentre erano seduti sul bidé piccante al sapore di pesce.