Specchio delle mie brame
Un urlo spacca i codici genetici di una squadra di capi cantiere e azzanna il marcio generale della repubblica della pera matura. Da lì nacque …
Rana, questo è il suo nome, non è stupida, anche la mattina marcia al suono delle trombe sulle uova marce, ma ha una sua intelligenza. Specie quando balla il flamenco con i suoi cento chili, rotondi, rotondi. In sottofondo una voce di donna mi dice che è pronto il pranzo.
Ma Rana mi parla di un deserto di dolore e di una vita di sopravvivenza che le hanno insegnato a fregarsene del dolore e dell’angoscia e fraternizzare con il nemico per usarlo e abusarlo.
Mi parla, Rana, con la sua facciona da pesce palla triste con gli angoli della bocca che piegano all’ingiù. Con i suoi capelli neri e grassi e grossi e corti in quello che normalmente sarebbe un “caschetto”, ma che su di lei sembra la caricatura di un maxi toys.
E sento una voce rotta come un gesso che stride sulla lavagna.
E allora sono io che piango.
Ma senza lacrime.
E allora ci scherzo su e le chiedo come va la sua bambina, sì perché diversamente da me, è anche riuscita ad averne una con qualcuno, ma chi?
In teoria io non sono così brutta, anzi, né ho una voce così stridente e non ho vissuto una dittatura militare, no, sono anche bionda, però quando i nostri occhi s’incrociano non vedo una persona tanto diversa.
Vedo la mia stessa paura farsi persona e mi spavento ancora di più.
Forse per quello che anni fa non potevo neanche sopportarne la presenza.
Ieri, bevendoci un caffè negli uffici asettici della Federazione guardavamo giù dalla finestra e ho avuto un vento gelido nella schiena dopo che ci siamo guardate sorridendo.
Avevamo guardato giù e, inutile mentirsi, avevamo pensato tutt’e due a come sarebbe stato bello farla finita. L’idea, solo l’idea di essere così intima dello Specchio di Tutte le mie Angosce mi dà l’insonnia, che già non basta quella che ho.
E mi vedo già volare nella nebbia grigio nera della notte passata a guardare il soffitto e a sentire l’amore sbocciare per lei.
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Leggera leggera
Un orso di nome e di faccia. Uno e sessanta per settantotto chili. Un portamento barcollante da dromedario zoppo. E una faccia da mastino con una pettinatura da frate su capelli nerissimi. Vestiva sempre di nero funereo. Adele si aggirava tra i corridoi aziendali come un tapiro col raffreddore e ti guardava con i suoi occhi a palla da pesce palla comunicandoti il brutto persino con gli occhi. Non era una bella dentro, no. Era brutta anche dentro. Che non sapevi se era più brutta dentro o fuori.
Comunque, se anche non c’era niente di bello o armonico, si poteva dire che l’intelligenza era pure peggio dato che qualsiasi cosa le spiegavi la richiedeva ad almeno altre quattro persone perché non si fidava e poi non l’aveva capita lo stesso. In compenso aveva una voce, ma una voce tipo il gesso nuovo sulla lavagna prima di spezzarlo in due.
Quand’era al telefono urlava, che la gente chiudeva le porte per poter lavorare.
Siccome non capiva un cazzo, a un certo punto, aveva preso a ridere qualsiasi cosa le dicevi. Tipo anche a un “bella giornata oggi” rispondeva già con un risolino come se avessi fatto una battuta sul direttore.
Quando la vidi per la prima volta nell’ufficio di un ottimo collega con cui scherzavo spesso e lavoravo benissimo, capii al volo con un sguardo che roba gli avevano rifilato. Una di quelle cose che ti suicidi anche solo ad avercela davanti tutta la giornata senza sapere quando te la toglieranno dai piedi.
Per due anni se l’è pappata. Stoico. Avrebbe meritato tre promozioni e una medaglia sul campo solo per quello.
Io non ce l’avrei mai fatta senza entrare in analisi o andarmi a confessare tutti i giorni. O bermi l’impossibile o commettere spropositi in ufficio.
È madre di una bambina di nove anni. Qualcuno, chi sa dove, chi sa quando, chissà in quali condizioni, l’ha messa incinta, per poi sparire. Questo è stato uno dei grandi misteri dell’ufficio. Sarà stato il conte Dracula?
Ma è una abituata alla lotta dura e non aveva rinunciato al grande amore anche se, biologicamente parlando, nessuno avrebbe scommesso che l’avrebbe trovato nella sua stessa specie.
Invece, poche settimane fa, la incrocio con uno che mi presenta come il suo compagno.
Aveva due occhi, due braccia e due gambe e mi ha stretto la mano mentre lo osservavo come si osserva un alieno sotto mentite spoglie, e, in fondo, chi mi dice che non lo sia.
In fondo, che ne sappiamo. Il momento clou è stato quando si sono salutati con un bacio sulle labbra, proprio lì, davanti a me.
È un momento che non dimenticherò più.
Penso che un giorno, da vecchio, non sarò più sicuro che sarà successo sul serio e incolperò il fatto che ormai la testa “non c’è più”.
Li ho salutati ipnotizzato e mi sono avviato per la mia strada a bocca aperta e gli occhi per aria, camminando barcollante come un dromedario zoppo.