Il grasso linguaggio della commedia si sposta pesantemente da una bocca piena di strutto all’altra emanando effluvi d’aglio crudo e cipolla soffritta. Il vino annega colli di bottiglia attorno a una tavolata universitaria ripulita dal sonno cosmico di un boccone di struzzo ben masticato da un organo che canta le lodi del bosone di Dio.
Una galera per il Nobel per la pace che si inocula il virus della sifilide tra i diodi di una batteria al litio che sfrigola i bastoni di un fuoco di paglia cantando Per Elisa tra le gioie di mamma Eloisa paracadutata dall’isola dei cloni di Braccio di Ferro. E così ci gongoliamo cantando da un fuoco d’artificio all’altro e da una Cina all’altra senza che lo sforzo ci perdoni di esser nati cantautori di fagioli borlotti. Il peso di una responsabilità ancestrale mi fa sbadigliare e cantare una lirica veloce digiunando sulle braci ardenti di una giovane sposa indiana.
Però non mi aspettavo di trovare una tortiglia a base di lenticchie feroci e piranha ridotti a passatelli in brodo di calamari vivi. Il mondo è dipinto di blu, mentre nel profondo del mare piove che guarda come piove. Il canto di una saturnina raggiunge le profondità marine e Marina canta la bossa nova davanti alle palle di un filosofo greco che urla e guarda incantato un Minotauro fare le fusa davanti a una freccia tricolore che gli sorride dal cielo stellato giusto prima di prendersi una pausa domenicale.
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Cinesi in fabbrica
Una vera birra da smaltire in un lago di sangue e mezzo, mi chiesi adoperando un dromedario secco per sturare una bottiglia di shampoo al tabacco. Certo, mi dico, urliamo un vituperante ronzino che soggiace allo spirito sadomaso di un rettiliano cosacco col bacco e co la pipa fumante di olio di candeggina che si avvicina, che si avvicina. La neve si lava con la pasta dentifricia di una zolla di terra e mostra la partenogenesi di una cataratta sinuosa e sensuale molto in voga nei bordelli parigini insieme al can can. Il tutto durante una messa mormone a Westminster Abbey dopo aver dato la mancia ai rabbini affinché promulghino i decreti di Allah e scrivano una Medina con francobollo di pelle di tapiro.
Io mi lecco le palle di tapiro al forno collezionate in un’urna santificata dal beato extravergine d’oliva che menziona a memoria la divina commedia per un pelo di tacchino.
Un ebano e un avorio si coccolano a vicenda in un siluro di scorie antinucleari e pastiformi quando le braccia mi calano attorno allo sgombro a forma di Zorro. Una ciliegia che corre addosso ad un labbro di donna mercurio che passeggia attorno ad una fermata dell’autobus notturno. Mellifluo. L’odore della striscia di profumo che si lascia dietro come una lumaca che ondeggia lentamente le sue cosce lunghe e carnose.
Puddu si masturba sulla luna.
Cimitero rock
Un killer della memoria si sparge come olio su una farfalla araba e a occhi chiusi spira tra le fauci di Odino. Voci di ragazzi implorano il cielo per una rivoluzione silenziosa mentre gli occhi scoppiettano come fuochi artificiali. E il pubblico osanna. Osanna nell’alto del cielo. Un concerto di voci spaccano il fondo di una bottiglia mentre io scoppio a piangere. Il dolore del mondo celebra la propria gloria. Mentre il cuore scoppia di risate allegre e si consola con una palla di chewingum.
Andiamo e vinciamo al suono di una chitarra. Ma andiamo dove? Andiamo e preghiamo una poesia rock.
Evviva Bambi e Babbo Natale. Fluida energia che scorri dalle mie mani e purifichi la mia anima come acqua benedetta. Un suono d’amore sa di cioccolato.
Rose rosse e cioccolato sono il profumo dell’amore. Un amore rock.
Divino verme che strisci sotto la terra e ti nutri d escrementi putrefatti. Sei il suono silenzioso della natura che lacrima e vive. Tu mangi i morti e vieni mangiato dalle piante che ci nutrono. Senza di te non ci sarei io. Non posso non amarti, anche se mi fai oggettivamente schifo. Ma questo è l’amore. Sangue di lacrime riflesse sull’acqua.
Cimici che scorrono in un pozzo di petrolio che canta un inno nazionale della nazionale di calcio. Forse un giorno potremmo urlare di nuovo Forza Italia.
Al grido di un osanna che ritma una musica tecno io vi saluto vermi della terra che leggete queste divine stronzate e viaggiate con me nei meandri della pazzia.
E ridete piangete e godete e morite e vivete. Nell’immenso gioco di un verme. Col silenzio di un blues balla dentro di noi e ride. Come un pazzo che ci mangia il cervello a uso e consumo del dio dell’infinito. Bevo vino e schiaccio pesci con i piedi.
E mi curo con il ghiaccio dei sensi.
Ed ecco che la luce divina soffoca l’immensità del corno di un rinoceronte alla carica.
Mentre lo guardo mi domando come mai i programmi televisivi della fine del mondo sono finiti. In fondo, chi non si è addormentato la sera prima con quel dubbio solleticante che chissà, forse forse, non si sa mai, e se fosse vero? E se fosse per domani. Perché un giorno la morte arriverà. Ridendo come una pazza. Ma arriverà. E allora siamo, pazzi. Siamo, quello che siamo. E basta. Solo così potremo fregarla. Diventando più pazzi di lei. E di quel verme che mangia. Che ci mangia. E che ci caga. Escrementi di verme siamo. Merda di verme ritorneremo. Ridendo. Sotto la pioggia di un cimitero.
Benvenuti nel delirio.
Benvenuti nel sospiro di un alito di birra.