Leggera leggera


Un orso di nome e di faccia. Uno e sessanta per settantotto chili. Un portamento barcollante da dromedario zoppo. E una faccia da mastino con una pettinatura da frate su capelli nerissimi. Vestiva sempre di nero funereo. Adele si aggirava tra i corridoi aziendali come un tapiro col raffreddore e ti guardava con i suoi occhi a palla da pesce palla comunicandoti il brutto persino con gli occhi. Non era una bella dentro, no. Era brutta anche dentro. Che non sapevi se era più brutta dentro o fuori.

Comunque, se anche non c’era niente di bello o armonico, si poteva dire che l’intelligenza era pure peggio dato che qualsiasi cosa le spiegavi la richiedeva ad almeno altre quattro persone perché non si fidava e poi non l’aveva capita lo stesso. In compenso aveva una voce, ma una voce tipo il gesso nuovo sulla lavagna prima di spezzarlo in due.

Quand’era al telefono urlava, che la gente chiudeva le porte per poter lavorare.

Siccome non capiva un cazzo, a un certo punto, aveva preso a ridere qualsiasi cosa le dicevi. Tipo anche a un “bella giornata oggi” rispondeva già con un risolino come se avessi fatto una battuta sul direttore.

Quando la vidi per la prima volta nell’ufficio di un ottimo collega con cui scherzavo spesso e lavoravo benissimo, capii al volo con un sguardo che roba gli avevano rifilato. Una di quelle cose che ti suicidi anche solo ad avercela davanti tutta la giornata senza sapere quando te la toglieranno dai piedi.

Per due anni se l’è pappata. Stoico. Avrebbe meritato tre promozioni e una medaglia sul campo solo per quello.

Io non ce l’avrei mai fatta senza entrare in analisi o andarmi a confessare tutti i giorni. O bermi l’impossibile o commettere spropositi in ufficio.

È madre di una bambina di nove anni. Qualcuno, chi sa dove, chi sa quando, chissà in quali condizioni, l’ha messa incinta, per poi sparire. Questo è stato uno dei grandi misteri dell’ufficio. Sarà stato il conte Dracula?

Ma è una abituata alla lotta dura e non aveva rinunciato al grande amore anche se, biologicamente parlando, nessuno avrebbe scommesso che l’avrebbe trovato nella sua stessa specie.

Invece, poche settimane fa, la incrocio con uno che mi presenta come il suo compagno.

Aveva due occhi, due braccia e due gambe e mi ha stretto la mano mentre lo osservavo come si osserva un alieno sotto mentite spoglie, e, in fondo, chi mi dice che non lo sia.

In fondo, che ne sappiamo. Il momento clou è stato quando si sono salutati con un bacio sulle labbra, proprio lì, davanti a me.

È un momento che non dimenticherò più.

Penso che un giorno, da vecchio, non sarò più sicuro che sarà successo sul serio e incolperò il fatto che ormai la testa “non c’è più”.

Li ho salutati ipnotizzato e mi sono avviato per la mia strada a bocca aperta e gli occhi per aria, camminando barcollante come un dromedario zoppo.

Polipo pulp


Livido sesso di una membrana di sangue si staglia sulla tela di un pittore bambino che succhia il pennello come fosse un pollice per bere il succo della materia divina. Si staglia sulla tela il processo effimero di una donna elefante che corre nuda nel deserto di amori e sapori laceranti e urlanti. Gode la città di spiriti maligni che voracemente ne mangiano l’anima e mangiandola diventano santi e sassi e rocce di smeraldo che dorme il sonno di un bambino defunto e risorto.

Prega mia bella la sorte rapita in un polipo multicolore che si mescola con se stesso in un universo senza tempo. Dove lo spazio racchiuso in una tela dipinge il seno di una puttana. I sentimenti si fulminano indecenti e carichi di alloro e spezie d’oriente che caricano un cavallo di putrido letame e ne affumicano l’incenso che sa di origano e cannella.

Walter si soffia nella pipa e aspira il sacro desiderio di una stella bruciante e immortale nei polmoni densi del fumo che droga il cervello e il cuore, mentre si spegne il cerino acceso dalla madonna di tutte le tele vergini e colorate.

Walter sogna il tempo che fu, un dio benestante dai mille coriandoli mentre ballava il carnevale insieme alla dorata criniera della sua bella Maria e l’amplesso godeva del momento senza un respiro che potesse librarli nel cielo di fuoco. Piangeva Walter nel mezzo di una masturbazione e l’amplesso fu un grido di dolore che fuggì dalle labbra e dalla gola, dallo stomaco e dal petto facendo tremare gli oggetti che ne temevano la potenza distruttrice.

Fumava, Walter la droga del cuore e della mente inebriata di follia alla sua massima potenza, mentre origano e cannella si spargevano nel seno della sua bella immortalata nella sua tela ad eterna memoria, a defunta memoria di vivi che non si danno pace, di morti che sono sereni. In una tela assente e presente a quel momento di vita, come un morto che ti guarda. E si chiede perplesso il perché del dolore.

La nostalgia di un ricordo si sparge nel vuoto di una camera oscura e rischiarata dalla luna che penetra nell’intimità di una grotta dei sensi. Mucillaggini di sterco la ricevono e sembrano più puzzosi che mai mentre Walter giace svenuto sperando di esser morto per stringer Maria almeno un momento. E la tela si anima e gli fa una grazia.

Risplende alla luna ed entrambi splendono nell’abbraccio immortale di un’anima che ora vive e si addormenta col suo sposo per un momento, calmandogli il cuore, calmandogli il dolore, benigno tumore di un tempo che fu e non tornerà mai più. E una lacrima scende solitaria, una lacrima di pace, una lacrima di sereno abbandono.