Gira si gingilla le dita alla disperata ricerca di una pellicina da sgrattare o di un’altra unghia da mangiucchiare. È nervosa come una mosca che non riesce ad uscire dalla finestra e che impazzisce a forza di tirarci delle testate. Deve incontrarsi con Juan. Tira una di quelle arie tra di loro che non sai né come inizia né come finisce e…Beh, è anche in ritardo di venti minuti. Che già di per sé vuol dire che non la caga. No, perché lui, non dico che spacca il secondo, no, ma cinque, massimo dieci minuti e arriva, punto. Venti butta male.
Poi sorvoliamo sul fatto che lei era in anticipo di venti che ha passato a fare giri in tondo per la piazza cercando di arrivare in ritardo di almeno dieci minuti, arrivando poi col fiatone, perché poi s’è pentita e ha avuto paura che l’aspettasse lui incazzandosi.
In realtà teneva sempre d’occhio il bar anche a distanza, ma poi s’è distratta a guardare una borsetta in liquidazione e il tempo di provarsela allo specchio e parlare con la commessa e addio. È uscita ad alta velocità muovendosi come una ginnasta acrobatica per non travolgere nessuno e cercare di non dare nell’occhio (soprattutto quello). “SIGNORA LA BORSETTA!” le ha urlato la commessa davanti a tutti, mentre stava per uscire con quella nuova. Che fai, mica puoi pagarla, se no sembra che hai cercato di ciularla, meglio fare la stressata con un “Scusi, tenga, mi ridia la mia”, che vuoi farci, poi esci a velocità raddoppiata proprio per far vedere che eri proprio di fretta, mica lo facevi apposta. E poi cerchi di non pensarci e riga (ma poi ci pensi, hai voglia se ci pensi. Va beh). Poi s’è quasi slogata una caviglia tra i sanpietrini della Place St Jean.
Comunque ora è qui. Tra le luci di un bar vorrei-lounge-ma-non-posso e davanti alla sua infusione alla menta che fa digerire il niente che ha mangiato fino alle cinque di pomeriggio. Senza zucchero. Fuori piove. E fa freddo. E Juan è in ritardo di ventiquattro minuti. E trenta secondi. Venticinque, in pratica. Sì perché fa differenza tra ventiquattro e venticinque. Perché ventiquattro fa praticamente venti, ancora. Venticinque fa trenta. E trenta fa irrigidire lo stomaco ancora di più. Si guarda in giro sperando di vederlo entrare. Finché un minuto, dico, un minuto prima del fischio finale dell’arbitro sente “Ciao Gira, come stai?” “Ciao Juan, bene e tu?” traduzione, pezzo di merda ti caverei gli occhi “Cos’hai ordinato?” “Una menta” non lo vedi imbecille ci sono ancora le foglie dentro. “Buona idea, ma io ho un po’ fame. Ti va una torta al cioccolato?” “No, grazie ho già mangiato” dico non ti abbufferai mica di cioccolato davanti a me, no? di cioccolato poi. No non lo farai “Peccato, e ti va un gelato, una crêpe, o una meringa?” “No, grazie, veramente, sto bene così” “Che strano, in genere ti abbuffi, va be’ io resto sul cioccolato. Cameriera, una tarte au chocolat”. Mostro. “Di cosa volevi parlare?” “Che non sto più bene con te” “Capisco” “Credo che o la storia diventa un minimo seria o io non ho più voglia di continuare così dopo due anni” “Beh…” “E poi pensi solo a te stesso” “Perché?” “La sua torta Monsieur” “Grazie” “Ecco, per esempio” “Per esempio cosa” “Ti stai mangiando una torta di cioccolato davanti a me che non mangio niente” “Te la volevo offrire ma hai detto di no”. Lui pensa che lei è cretina. Lei pensa che con un imbecille così tocca di partire da cose più plateali anche a costo di esagerarle “E poi voti per Berlusconi” “Mi prendi per il culo?” “No quando parli di lui diventi arrogante e vuoi avere ragione a tutti i costi” “Perché, a te non capita mai di voler avere ragione” “No, mai. Cioè, non come a te” “Ah” fa continuando a inforcarsi un boccone dopo l’altro. Cosa che associata alla fame e al nervosismo fa incoscientemente flippare i diodi neuronali di Gira che vorrebbe tirargliela in faccia